Profilo storico dello spettacolo e del teatro nel Lazio meridionale.


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Studi Cassinati, anno 2017, n. 2
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di Vincenzo Ruggiero Perrino*

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In generale, si può affermare che, tra l’antichità romana e il Novecento, direttamente o indirettamente, quella parte del Lazio Meridionale oggigiorno identificabile con l’attuale provincia di Frosinone sia stata luogo di spettacoli teatrali, oppure sia stata la terra di origine di autori drammatici. Si tratta di esperienze che, pur avendo tratti molto peculiari, si pongono in una linea di continuità rispetto alla più generale storia del teatro e dello spettacolo, dimostrando che c’è stata nei secoli passati una vivace vitalità organizzativa e un’indubbia fertilità creativa (il più delle volte patrocinata da esponenti della nobiltà locale). Nelle pagine che seguono, sulla scorta delle ricerche finora condotte, proveremo a tacciare un profilo storico-cronologico, evidenziando le tappe fondamentali del percorso seguito dallo spettacolo e dal teatro in questi territori.

Nell’antichità romana furono costruiti diversi teatri e ci furono alcuni letterati che si interessarono più o meno direttamente di teatro. Infatti, autori antichi di natali “ciociari” ci hanno lasciato importanti testimonianze sul teatro. Innanzitutto, Marco Tullio Cicerone, uno dei più valenti oratori del suo tempo, ha avuto un intenso interesse per il teatro e lo spettacolo. Al di là del significato etico-politico che egli attribuisce ai testi drammatici (da lui citati in questa dimensione “filosofica” soprattutto nelle Tusculanae disputationes), il suo interesse si può indagare sia in una prospettiva squisitamente letteraria (nella quale rientrano i rilievi linguistici e stilistici e le valutazioni critiche o le notazioni di natura estetica che Cicerone fa sulla base della sua esperienza di lettore e di spettatore), sia in un’ottica di indagine sulle tecniche di recitazione (alle quali suggerisce all’oratore di guardare per una più persuasiva arringa forense), argomento al quale egli dedica pagine di grande acume nell’Orator e nel De oratore1.

Un altro importante personaggio letterario dell’antichità è Decimo Giunio Giovenale, nelle cui satire troviamo disseminati numerosi riferimenti (sempre causticamente polemici) ad attori del genere teatrale del pantomimo (sappiamo proprio grazie all’aquinate che alla scrittura dei relativi libretti scenici si dedicarono anche autori importanti come Lucano e Stazio, nonché i dettagli delle performance di celebri interpreti del genere come Paride o Batillo), ad autori di mimi (è grazie a lui che conosciamo il nome di un mimografo, Valerius Catullus, autore di mimi che si ipotizza possano essere stati una parodia delle vicende della morte di Gesù2), e agli spettacoli gladiatori nell’anfiteatro (celebre è l’espressione, naturalmente di tono sprezzante e sarcastico, «panem et circenses»)3.

Nella Casinum romanizzata erano attivi sia un teatro (presumibilmente edificato negli anni di Augusto, o al più tardi in età giulio-claudia, come è attestato non solo dalla foggia della struttura ma anche da un’epigrafe mutila che era stata ritrovata e da una testa scultorea, entrambe riconducibili a due nipoti di Augusto, Lucio e Gaio), che un anfiteatro. Quest’ultimo fu innalzato per opera di Ummidia Quadratilla, come attesta un’iscrizione del I sec. d. C. (rinvenuta nel 1757): «Ummidia C.F. Quadratilla amphitheatrum et templum Casinatibus sua pecunia fecit». Costei dovette essere una matrona particolarmente munifica, tanto da occuparsi anche del restauro del teatro, cui allude un’altra iscrizione ivi rinvenuta in frammenti, dalla quale si evincerebbe che sia stata proprio lei la donna che investì il proprio denaro per mettere a nuovo l’edificio, nonché per sponsorizzare mimi e pantomimi, come ci racconta Plinio il Giovane in una sua epistola (VII, 24)4.

Dell’antico teatro romano di Aquino, si legge una breve e velatamente polemica descrizione che l’abate Domenico Romanelli fa nel suo Viaggio da Napoli a Monte-Casino: «Dallo stesso lato in corta distanza […] alzavasi il teatro, di cui restano tuttora considerabili avanzi […]. Tutto il campo è seminato di sassi, e di rottami di mura, senzacché sia venuto ad alcuno il desiderio di scavarlo, dove non solo si troverebbe tutta la sua intera pianta, ma anche delle antichità preziose»5. Poche pagine dopo, con lo stesso piglio critico, il prelato viaggiatore annota della sua visita alle «ruine dell’anfiteatro, oggi ridotto ad orti, e ad un abituro di animali bruti»6.

Caduto l’impero romano, nell’alto Medioevo la cultura viene preservata e coltivata in ambito soprattutto monastico. È noto che grande diffusione cominciano ad avere gli uffici liturgici. Di particolare interesse sono due frammenti, oggi custoditi uno presso la biblioteca del Monastero di Farfa (nei pressi di Fara Sabina) e l’altro presso la biblioteca del Castello del Buonconsiglio di Trento, provenienti entrambi da uno stesso graduale risalente all’XI sec., redatto e usato a Veroli, che contiene un Exultet e conserva peculiarità rituali relative allo svolgimento della Veglia pasquale (di grande fascino spettacolare, pur non essendo un vero e proprio dramma)7.

Al 1090 risale invece l’Ufficio liturgico in onore di San Gerardo confessore, che annualmente la chiesa di Gallinaro celebrava (e ancora oggi celebra) in onore del santo patrono. Anche qui, pur non trattandosi di un testo “teatrale” in senso proprio, siamo tuttavia di fronte ad un documento che presenta, nella scansione dei momenti celebrativi nonché nell’impianto complessivo della liturgia, strette cuginanze con lo spettacolo.

Dagli uffici liturgici ai drammi liturgici il passo non è lungo. Infatti, in quei decenni, inizia a svilupparsi il dramma liturgico, una particolare forma di teatro, che parte dalla scrittura per tentarne una rappresentazione. Il primo esempio di questo “nuovo teatro” è il Quem Quaeritis, del quale esiste una versione che veniva officiata presso l’abbazia di Montecassino, che ebbe probabilmente un’importanza non marginale nella nascita e nello sviluppo della drammaturgia liturgica medievale8.

L’abbazia di Montecassino è il luogo dove veniva inscenato anche il cosiddetto Dramma della Passione di Montecassino, testo risalente agli albori del XII sec., che narra gli eventi dal tradimento di Giuda alla crocifissione e al pianto della Madonna. L’importanza dell’opera deriva dall’essere il più antico dramma liturgico della Passione finora noto. Un’altra particolarità del testo è che esso si chiude con il pianto della Madonna sotto la croce, del quale sono riportati tre versi, che venivano cantati in volgare e non in latino. Il testo cassinese presenta un particolare realismo scenico che dovette fornire l’ispirazione per analoghe rappresentazioni nei monasteri benedettini, contribuendo alla diffusione delle istanze devozionali, che poi avranno pieno sviluppo nella drammaturgia laica9.

È ancora al cenobio benedettino che bisogna tornare per cercare le tracce di un’espressione giullaresca in volgare. Si tratta del cosiddetto Ritmo cassinese, di autore anonimo, risalente alla fine dell’XII sec. e scritto proprio a Montecassino. È verosimile che l’anonimo autore fosse un monaco, il quale, però, conosceva bene le tecniche narrative ed espositive dei giullari. In tal modo, egli, pur consapevole dell’errore di calarsi nei panni di un giullare, intende comunque rischiarare la via agli altri (come fa una candela), illustrando con modi “popolari” il senso della sapienza, ossia del modo di arrivare a Dio, conducendo una vita regolata e disciplinata10.

Intanto, se prima del XIV sec., fatta eccezione per pochissimi esempi, il dramma liturgico veniva espresso in latino, iniziò poi gradualmente ad affermarsi un modello di dramma sacro in volgare. In Italia, il maggiore impulso venne dal movimento dei «Disciplinati» che contribuì allo sviluppo della lauda drammatica, la quale era derivata direttamente dai drammi liturgici della Passione, ed era una rappresentazione piuttosto essenziale e statica, basata sul gesto e sul canto di un testo devoto in versi. La lauda si evolverà poi nella sacra rappresentazione fiorentina. Nel resto dell’Europa, il dramma in volgare prese le mosse dall’istituzione della festa del Corpus Christi, che venne ufficializzata nel 1311, e si sviluppò, col tempo, nei cosiddetti “misteri”.

La trasformazione culturale del Rinascimento non sarebbe stata possibile se, nel corso del Quattrocento, non ci fosse stata l’intensa e appassionata campagna di riscoperta dei codici perduti o dimenticati. Una figura chiave di questo processo fu Giovanni Sulpizio, detto “il Verulano”, il quale, attorno al 1486, pubblicò, con la probabile collaborazione di altri umanisti e con la protezione del cardinale Raffaele Riario e dopo secoli di circolazione limitata e parziale, il trattato di Vitruvio De Architectura. Vi premise una lettera dedicatoria allo stesso cardinale, leggendo la quale si coglie il fervore del tempo intorno alla riscoperta, non solo letteraria e teorica ma anche sul versante performativo, dei classici. Non a caso l’editio princeps venne data alle stampe nei mesi immediatamente successivi alle realizzazioni sceniche in seno all’Accademia: va da sé che l’aspetto performativo e quello teorico-filologico sono in rapporto di perfetta osmosi. Perciò l’importanza del “Verulano” risiede anche nell’aver riportato sulla scena, secondo i modi antichi, una tragedia senechiana. Infatti, mentre Pomponio Leto promosse rappresentazioni di opere plautine, Sulpizio curò la messinscena di una tragedia di Seneca, l’Hippolytus (titolo della tragedia che oggi è nota come Phedra). Dalla lettera dedicatoria al Riario, apprendiamo che l’Hippolytus fu allestita all’aperto, una prima volta forse davanti la chiesa di S. Lorenzo di Damaso a Roma. Un secondo allestimento avvenne a Castel S. Angelo alla presenza di Innocenzo VIII; infine, una terza replica, forse quella più riuscita (o per lo meno più rispondente alle idee estetiche del “regista”), fu data nel cortile del palazzo Riario. In occasione della recita della tragedia in Castel S. Angelo, Sulpizio compose un Prologo, nel quale dichiarava la novità costituita dalla rappresentazione della tragedia, ne sottolineava l’intento educativo e morale e chiedeva al pubblico un ascolto silenzioso11.

Lo spazio del teatro nel Rinascimento è quello della “festa” (che è festa della cultura, festa della corte, festa privata). La recitazione di commedie e tragedie si inscrive all’interno di un avvenimento festivo, che è l’occasione per far conoscere le nuove commedie dell’Ariosto, del Bibbiena, di Machiavelli, del Ruzante, dell’Aretino, o le nuove tragedie di Giraldi Cintio. Ma il teatro del Cinquecento non è solo commedie e tragedie. Vi è spazio anche per altri generi, come per esempio il dramma pastorale, l’inframessa (che è un ampliamento dialogico di una scena che, pur essendo richiesta dal contesto, non è strettamente necessaria allo svolgimento dell’azione), e gli intermezzi, che saranno alla base della nascita alla fine del Cinquecento e al successo del Seicento, di un nuovo genere teatrale: l’opera lirica (o melodramma).

Per quel che riguarda il territorio frusinate, c’è da segnalare l’attività di due cugini, originari di Pofi, di indubbio valore intellettuale: Gaetano e Libero Tizzone. Nel corso del XVI sec., essi furono figure fondamentali per l’editoria di testi in lingua volgare, pubblicando versioni emendate (per alcune lavorando addirittura sugli autografi) di Giovanni Boccaccio. Se Libero, continuando l’opera del cugino più anziano, diede alle stampe una Grammatica italiana, fondando la stessa proprio sui celeberrimi esempi dei grandi poeti del Duecento e Trecento, Gaetano fu autore di una commedia, la Germusia, purtroppo perduta. Ne abbiamo notizia dalla biografia di Francesco De’ Nobili, attore divenuto celebre nel corso del secolo con il nome d’arte di Cherea. Questi, che furoreggiò nella prima metà del Cinquecento, recitò il 27 febbraio 1525 a Murano, a ca’ Molin, la commedia di «Tizone neapolitano» (che qualche storico ritiene appunto essere la perduta Germusia) «cum intermedii di poesie et soni».

Molto misterioso è un tal Mariano de Patrica (detto anche Tocadiglia), un improvvisatore, che alcuni studiosi indicano come l’autore del Capitolo di cuccagna (pubblicato a Siena nel 1581). Benché non certa, tuttavia l’attribuzione del giocoso poemetto giullaresco, che racconta «le marauigliose cose che sono in quel paese, doue chi più dorme più guadagna, e a chi parla di lauorare li sono rotte le braccia», sembra avvalorata dalla lingua dell’opera, genericamente ascrivibile all’Italia centrale12.

Il catalogo degli spettacoli cinquecenteschi annovera anche un’altra particolare forma performativa: il balletto, cioè, di un particolare tipo di rappresentazione coreografica, che nasce a partire dal primo Rinascimento dalle composizioni dei maestri di ballo presso le corti signorili italiane e francesi. Il successo del balletto è testimoniato anche dalla circostanza che, dalla metà del XV sec., appaiono sul mercato editoriale i primi trattati sull’arte della danza, accompagnati da una trasmissione scritta di coreografie, ordinate sulla musica con una vera e propria “intavolatura” di passi. Tra i primi trattati a stampa, figura Il Ballarino di Marco Fabrizio Caroso, stampato a Venezia nel 1581 (poi ripubblicato nel 1600 col titolo Nobiltà di dame. Raccolta di vari balli fatti in occorrenze di nozze e festini da nobili cavalieri e dame di diverse nationi). Ne Il Ballarino è riportato un ballo per coppia denominato Amor costante, che, apparso già nella prima edizione del trattato e quindi verosimilmente ebbe luogo a corte tra il 1579 e il 1581, era dedicato alla duchessa di Sora, Costanza Sforza di Santa Fiora, moglie di Giacomo Buoncompagni, marchese di Vignola e duca di Sora dal 1579 alla morte, che si era interessata attivamente dei territori amministrati dal marito. L’Amor costante è un balletto per una coppia, scandito in quattro tempi, nei quali i due danzatori si esibiscono “graziosamente” in numerose figure coreografiche, tanto insieme quanto alternandosi l’un l’altra. La danza, com’è evidente, fa tutt’uno con la musica. Infatti, non meno importante dovette essere la passione per il canto dei duchi sorani. Tant’è che a Giacomo Buoncompagni è legato anche il nome di Giovan Battista Bovicelli13. La dedica del libro a Giacomo Buoncompagni, al pari della dedica del balletto Amor costante alla duchessa, attesta indirettamente quale importante ruolo giocava la cultura nel governo e nella vita del ducato di Sora sul finire del Cinquecento14.

Nel corso del Seicento, lo spettacolo raggiunse nella vita culturale e sociale un’importanza e una diffusione quali forse si potranno riscontrare solo in età contemporanea. Giostre, tornei, sfilate, trionfi, processioni, melodrammi, tragedie, commedie regolari e Commedia dell’arte, allestimenti festivi e via dicendo, sembrano in certi momenti polarizzare l’interesse di intere città. Tanto che, nell’età barocca, lo spettacolo si impone per grandiosità d’apparato e frequenza di iniziative. Ancora ritroviamo: la festa del principe (i giochi pirotecnici); la festa civica (il carnevale); la festa della Chiesa (gli apparati sacri e il teatro gesuitico); la festa aristocratica (le Accademie e gli impianti provvisori per i tornei). La società cortigiana si proietta e si rispecchia nel suo teatro, ma allo stesso tempo fa della propria vita un gioco e uno spettacolo in cui tutto è appariscenza15. Il teatro si diffonde anche grazie alla stampa: si pubblicano i trattati per la costruzione dei teatri e delle scene in prospettiva; si stampano le scenografie e le partiture musicali, i libretti, i programmi di sala.

Il Seicento, in generale, fu un secolo di grande fermento “teatrale” per la terra ciociara, susseguendosi tante pubblicazioni di opere, e qualche messinscena. Per esempio, nel 1603, viene pubblicata la tragedia Costanza. Trionfo del martirio di S. Sebastiano, scritta da Orazio Silvestri, nativo di Pofi e canonico di S. Maria in Cosmedin di Roma. Nella premessa, l’autore ci informa che avrebbe voluto pubblicare anche una sua tragicommedia, dal titolo Gioseppe, ma che al riguardo sorsero difficoltà tali da farlo desistere.

Al ramo della famiglia Colonna, duchi di Paliano (e Tagliacozzo), sono state dedicate, nel corso del secolo, diverse opere teatrali. Per esempio Marcantonio Colonna fu il dedicatario della commedia Cleria (1609) di Giovanni De Nobili e del carro musicale intitolato Il trionfo della fatica (1647), scritto da un anonimo che si firmò Poeta Inesperto (e con musiche di Filiberto Laurentij). Tale spettacolo carnevalesco fu rappresentato in Roma proprio per iniziativa di Marcantonio Colonna. Ai duchi di Paliano vennero dedicate altre opere: Il novello Giasone (1671), dramma per musica recitato nel teatro di Tor di Nona; Il Pompeo (1683), dramma per musica di Nicolò Minato, già edito a Venezia nel 1666 come Pompeo Magno; Li cavalieri dell’Iride (1684), libretto esplicativo – una sorta di programma – di una celebre mascherata, realizzata per iniziativa di Lorenzo Onofrio Colonna, e ripetuta a Roma due volte sul finire del carnevale di quell’anno; il dramma per musica, Il silenzio di Arpocrate, scritto da Nicola Minato e rappresentato in Roma nel 1686 nel teatro fatto costruire dal Gran Contestabile Colonna, e dedicato a Laurentia de la Cerda Colonna, all’epoca principessa di Paliano; La notte, il giorno ed il merito (1688), cantata per tre voci dedicata alla principessa Lorenza de la Cerda Colonna, destinataria anche della serenata Amor per amore di Silvio Stampiglia, noto in Arcadia come Palemone Licurio, e musicata da Giovanni Bononcini nel 1696. Infine, ricordiamo Il Cristo giudice: si tratta di una tragedia sacra, pubblicata nel 1698, ma che venne rappresentata presso la basilica dei SS. Apostoli in Roma a spese di Marcantonio Colonna sul finire del Cinquecento16.

Un altro dedicatario illustre di opere drammatiche a stampa fu il cavalier Giuseppe Cesari di Arpino, celebre pittore attivo a Roma nel Seicento. In realtà, l’interesse del Cavalier d’Arpino per il teatro fu anche di natura pratica, avendo egli, come apprendiamo da alcune lettere dedicatorie premesse alle opere sottoelencate, partecipato, in qualità di anfitrione o di scenografo, alla rappresentazione di alcune di esse. Al suo nome sono legate: Maggia damore (1609), favola pastorale di Matteo Pagani, la quale costituisce un caso estremo di mescolanza di generi, stili e linguaggi (infatti, alcuni personaggi parlano in versi, altri in prosa, altri in continua alternanza), e nella cui dedica leggiamo che il Cesari diede vari trattenimenti nel suo palazzo romano; La selva incantata (1626), commedia boschereccia del medesimo autore, che dichiara di aver avuto l’idea di quest’opera mentre collaborava con il cavalier d’Arpino (del quale si dice allievo) e con Francesco de Cuppis all’allestimento scenico della Catena d’amore; Il giuoco di fortuna (1627) di Guido Casoni, opera in cinque atti e condita con qualche aria musicale; L’innocente principessa (1627), tragicommedia di Francesco Miedelchini, con scena boschereccia rappresentata in una selva lontana di Salerno, e con alcuni inserti dialettali; Le disgratie di Burattino (1628) “commedia ridicolosa e bella” del sig. Francesco Gattici; Il fulminadonte fedele (1633), tragicommedia di Matteo Pagani, il cui frontespizio è inciso con amorini ed arme del dedicatario, il cui nome è scritto su un cartiglio insieme a quello degli altri celebri arpinati, Cicerone e Mario (l’autore ci fornisce notizia della recita de La vedova, un’altra sua commedia, in casa di Giuseppe Cesari).

Il cepranese Antonio Vitagliani pubblicò nel 1644 Gli amanti intromessi, commedia in un prologo e cinque atti in prosa. Sul frontespizio è riportato che quest’opera venne stampata in Ceprano, ma è più plausibile, in assenza di altre opere ivi stampate, che in realtà la commedia fosse stata edita a Roma.

L’alatrese Eleuterio Rozzi, frate cappuccino, nel 1665, pubblicò l’argomento del Cappuccino scozzese, tragedia rappresentata dai convittori del Collegio Clementino di Roma nelle vacanze di carnevale. Il testo completo fu stampato nel 1673 ad opera del fratello dell’autore, Francesco, il quale, nella “Protesta” anteposta alla fabula, dichiara di averla avuta «casualmente». Il soggetto di questa tragedia era stato ripreso da La Pazienza premiata, ovvero il Cappuccino scozzese, scritta da Pietro Piperno e poi data alle stampe solo nel 1700 a Napoli.

Da documenti conservati presso l’Archivio storico comunale della città di Atina apprendiamo che: «si faceva a gara anche tra i mediocri letterati per comporre drammi e darli alle scene. Così nel 1655 troviamo, senza alcun dubbio, trasformata a teatro l’ampia sala di giustizia dei Cantelmi, tanto che nelle memorie storiche cittadine è ricordato che Pietro Antonio Bologna, versatissimo nelle leggi, ma molto di più nelle belle lettere, oltre a molte sue eroiche composizioni formò L’Opera della Cilinda che poi con soddisfazione generale fece rappresentare nel teatro di Atina».

Probabilmente ad Anagni, fin dal XV sec., in occasione delle celebrazioni liturgiche e processionali in onore di Santa Uliva, il 3 giugno, si svolgevano rappresentazioni sacre, ispirate alla vita e al martirio della fanciulla vergine venerata in città.

Il Convento dei cappuccini a Monte San Giovanni Campano fu sede di allestimenti di sacre rappresentazioni fin dalla prima metà del 1600. Esiste infatti un documento d’archivio nel quale sono registrati i fastosi festeggiamenti in occasione del transito della statua della Madonna del Suffragio nella città ciociara nel 1632. Frate Modesto da Maenza, che all’epoca era il guardiano del convento, scrisse la cronaca di quell’episodio, non mancando di sottolineare che fu anche recitata una rappresentazione della morte e resurrezione di Lazzaro, della quale egli stesso era l’autore. Più o meno negli stessi anni, fu attivo il musicista Giovan Tomaso Cimello, poliedrica personalità di artista rinascimentale, apprezzatissimo maestro anche a Napoli, e autore non soltanto di un trattato teorico di musica, ma anche di madrigali, ballate e canzoni.

Di impianto molto “teatrale” era l’ufficio della Natività che si celebrava presso la Cattedrale di Ferentino nella prima metà del Seicento e di cui resta traccia in un bellissimo antifonario del 1625. Del pari, nella medesima cattedrale e negli stessi decenni veniva celebrata una Passio a più voci per la crocifissione e morte di Gesù.

Anche presso la corte dei Buoncompagni, stabilmente residente nel castello di Isola di Sora, è possibile rintracciare esempi di quella magnificenza di forme, che furono la caratteristica dell’epoca barocca e degli spettacoli di corte durante il corso del Seicento. Due esempi sono giunti a noi sotto forma di scenario. Si tratta di due tragedie, recitate nel palazzo ducale. La prima è il Ciro, rappresentata per Ugo Buoncompagni e pubblicata a Roma dagli eredi dell’editore Corbelletti nel 1659, anno in cui venne anche recitata a corte. L’autore della tragedia non è noto ma dovette sicuramente ispirarsi ad Erodoto, benché molte influenze provengono anche da particolari romanzeschi. Nell’edizione a stampa è riportato anche l’elenco dei nomi dei signori recitanti, con i relativi ruoli sostenuti. Tra gli altri vi appaiono il marchese Gregorio Buoncompagni, che di Ugo era il figlio, e Francesco Buoncompagni. È evidente che per la corte recitassero membri della nobiltà o comunque persone vicine alla corte medesima. Anche il coro, che dovette intervenire negli intermezzi e nel prologo, era composto da giovanetti provenienti dalle famiglie nobili di Sora: i Buoncompagni stessi, i Ranaldi, i Silvestri. A quest’ultima famiglia apparteneva anche Carlo Silvestri, uno degli interpreti, che sicuramente fu molto versato anche nell’arte del canto17.

FOTOGRAFIA

L’anno dopo, 1660, in occasione del carnevale, sempre nel palazzo di Ugo Buoncompagni, viene portato in scena il Costantino, “attion tragica”, dedicata agli sposi Giovanni Battista Borghese e Eleonora Buoncompagni (figlia di Ugo). Anche per quest’altra tragedia abbiamo solo il “ragguaglio”, ovvero il racconto suddiviso scena per scena, che fu edito a stampa a Roma. Rispetto al libretto del Ciro, l’edizione è più ricca. Innanzitutto, segnaliamo che sul frontespizio appare lo stemma di Isola Liri, con il motto «Amplexa non demersa». Lo scenario ci conserva anche: la dedica (non datata) che gli Accademici Assicurati fecero ai coniugi Borghese; l’argomento, che riporta in sintesi la fabula; due componimenti poetici, anonimi come il resto delle cose che sono contenute nel libretto, uno dedicato «all’eccellentissimo signor principe Borghese», l’altro «all’eccellentissima signora principessa Borghese», all’epoca della messinscena in attesa di un erede. Inoltre, mentre nel Ciro la struttura è più vicina alla tragedia cinquecentesca (gli intermezzi, per esempio, raccontano una sola storia), qui c’è una maggiore varietà: tre cori, struttura degli intermezzi che sono tutti diversi e ispirati a stili e storie differenti. Tuttavia, la scenografia era impostata a guisa di prospettiva fissa e gli attori sono per lo più gli stessi della precedente prova, quasi come se avessero creato una vera e propria compagnia di corte18.

I duchi Buoncompagni di Sora, oltre ad essere stati gli unici ad utilizzare la loro residenza isolana per delle rappresentazioni tragiche o coreutiche, furono dedicatari, nel corso del secolo, di varie opere teatrali a stampa. Alla già menzionata Eleonora Buoncompagni (figlia di Ugo e sorella gemella di Gregorio), viene dedicata la pubblicazione della Rappresentazione della gloriosa Passione di N. S. Giesù Christo (1672); tre anni più tardi è dedicataria della tragedia di Mario Cevoli L’Ormondo (1675). Sempre nel 1672, gli Accademici Sfaccendati, in occasione della villeggiatura estiva al Monte Cavo della principessa mettono in scena la favola drammatica per musica La sincerità con la sincerità, overo Il Tirinto. Il testo è firmato collettivamente dagli Sfaccendati, ma può essere opera di Giovanni Filippo Apolloni o di Filippo Acciaioli; la musica (la cui partitura è conservata presso la Biblioteca Estense di Modena) fu composta da Bernardo Pasquini. Eleonora fu dedicataria anche de Il Coraspe redivivo (1683), opera tragicomica di Maria Antonia Scalera Stellini d’Acquaviva, che si segnala sia per essere opera di una donna (cosa alquanto insolita nel panorama dell’epoca), sia perché vi sono evidenti riferimenti alla provenienza geografica della principessa. Infatti uno dei personaggi, la serva Licetta, si esprime in dialetto ciociaro; e inoltre vi appaiono un principe e una principessa di “Soria”.

A Giacomo Buoncompagni, dei duchi di Sora e marchese di Vignola, fu dedicato l’oratorio Le due fughe gloriose (1689), dialogo sacro dato nella venerabile confraternita della Misericordia di Orvieto e composto dal maestro di cappella della cattedrale della città umbra, Leone Alberici (che era anche Accademico Humorista).

Tra le Rime, pubblicate nel 1697 da Giovan Battista Grappelli, Accademico Infecondo e tra gli arcadi noto come Melanto Argenteo, dedicate a Gregorio Buoncompagni, vi è un oratorio a quattro voci, La beata Lucia da Narni, musicato da Giovan Battista Mariani.

Un altro nome illustrissimo del Seicento sorano è quello di Cesare Baronio, intimo sodale di Filippo Neri, e attivissimo presso l’Oratorio19. L’“incontro” tra Baronio e il teatro non si esaurisce nella frequentazione dell’oratorio, e quindi dell’ascolto di questi “drammi” da parte del Venerabile. Infatti gli Annales sono stati fonte di ispirazione per alcune opere teatrali. Dalla monumentale opera del cardinale Cesare Baronio vengono tratti gli argomenti di: Eugenia, recitata nel seminario romano nel 1669; Mauritius, oratorio latino di insolito argomento storico, eseguito il venerdì di Quaresima del 1692; Teodora, opera recitata nel Seminario romano durante il Carnevale del 1694; Il distruttore de dei, o vero il Costantino incoronato, recitata sempre nel Seminario romano nel 169720.

In generale, possiamo dire che il Settecento è stata un’epoca di fiduciosa apertura alla ricerca: il Barocco del secolo precedente viene superato sulla scorta dei valori positivi dell’Arcadia prima e dell’Illuminismo dopo. Il teatro sperimenta tutti i generi: mentre la tragedia mantiene per diverso tempo i legami con i modelli seicenteschi, la commedia di intreccio si evolve nella commedia di carattere. L’affermazione definitiva della classe borghese e il cosmopolitismo, che permette la circolazione e la traduzione dei maggiori autori drammatici del periodo, si rispecchiano nelle pratiche sceniche21. Sul fronte squisitamente scenico, se in epoca barocca era stato l’universo prospettico della scena, con le sue magie illusionistiche e meccaniche, a focalizzare l’attenzione teorica e la sperimentazione pratica, permeando di sé l’immaginario letterario e artistico, nel Settecento la riflessione critica sembra prediligere la problematica dell’attore, il cui mestiere ha ormai acquisito l’attributo di “arte” ed appare come il nodo cruciale della comunicazione estetica teatrale. Avendo presente la funzione di trait d’union che l’attore esplica fra l’autore e lo spettatore, si persegue l’analisi di come avviene la trasmissione del testo letterario, di come si producono le reazioni del pubblico, di cosa in fin dei conti succede nel momento magico e irripetibile della comunicazione teatrale.

Anche nel corso del Settecento, nel Basso Lazio la vita teatrale e più in generale dello spettacolo fu abbastanza vivace. In ambito ecclesiastico ancora molti uffici liturgici si segnalano per l’impianto “spettacolare”. Per esempio, come attestati da documenti conservati presso l’Archivio diocesano di Veroli, si celebrano uffici per le principali feste del calendario liturgico: l’Officium in Nativitate Domini (nella chiesa di San Leucio), caratterizzato da particolari (seppur brevissimi) scambi dialogici, che concludono ogni vocalizzo antifonario e alleluiatico; un ufficio processionale per la Domenica delle Palme (nella chiesa di San Paolo); una ricchissima celebrazione per il giovedì, venerdì e sabato santo (nella Cattedrale).

2 Teatro2Anche in ambito laico la città di Veroli fu particolarmente attiva, essendo stata sede di alcune rappresentazioni teatrali. Nel 1701 nel Teatro del Magistrato della città, viene messa in scena l’opera scenica del nobile verulano Francesco Giovardi, Il morto regnante, overo la forza delle stelle, dedicata ad Annibale Albani, che fu anche data alle stampe, tre anni più tardi, in Anagni. Giovardi, che morì appena trentaquattrenne, fu autore di altre opere drammatiche, purtroppo molte delle quali da lui stesso date alle fiamme per scrupoli di carattere morale. I titoli di alcuni manoscritti riconducono infatti a lui: Il principe smarrito, La margherita, La donna costante, I saggi deliri. Sicuramente reperibile presso la Biblioteca Giovardiana di Veroli è il manoscritto de Il freno delle passioni, da Francesco dedicata alla sua città natale e molto probabilmente messa in scena più o meno all’inizio del Settecento. Il figlio, Vittorio Giovardi, monsignore e pastore arcade nonché fondatore dell’omonima biblioteca cittadina, scrisse nel 1726 una Notizia del nuovo teatro degli Arcadi aperto in Roma, in cui racconta con dovizia di particolari e con la riproduzione di numerosi sonetti, l’inaugurazione di questo teatro, sede degli incontri dei pastori arcadi di Roma.

I temi pastorali erano già presenti in un’opera di Pirro Nocchiaroli Verulano, Accademico Elisio. L’opera in questione è una Cantata a tre voci, risalente al 1722. L’Accademia degli Elisi fu fondata sul finire del Seicento a Veroli; vi si iscrissero teologi, canonici, avvocati, medici, letterati; e fu presieduta anche dal citato Francesco Giovardi. La Cantata del Nocchiaroli fu recitata – come apprendiamo dal frontespizio del libretto pubblicato a Roma nella Stamperia della Camera Apostolica – «nello Studio del Signore Auditore Emilio Ricciardi, in occasione dell’Accademia solita farsi da Signori studenti per chiudere il Rotino per le vacanze autunnali li 20 settembre 1722». Nocchiaroli compose, dunque, i versi di una storia pastorale, pienamente ascrivibile, tanto per l’argomento quanto per lo stile, al gusto tipicamente arcadico.

In occasione dei festeggiamenti pubblici per l’elezione al soglio pontificio di Clemente XIII, nel 1758, il marchese Andrea Felice Campanari organizzò la recita del componimento drammatico Il merito, di cui era autore l’abate Nicolò Faidoni, pastore arcade e maestro di lettere dei figli dello stesso marchese. Faidoni scrisse anche altre opere: un dialogo pastorale, dei sonetti, delle canzoni, e una scena teatrale di impianto pastorale, tutte opere manoscritte reperibili presso la suddetta biblioteca di Veroli. Un’altra opera di Faidoni, interessante anche perché realizzata scenicamente presso il seminario verolano, è La Veturia (titolo al quale fanno riferimento anche alcuni epigrammi in latino conservati manoscritti). Dal frontespizio apprendiamo che, all’epoca di questo “spettacolo” (1765), egli ricopriva, nel medesimo seminario, la carica di maestro di eloquenza. Non a caso La Veturia fu una specie di “reading poetico” ante litteram, composto e recitato in pubblico «per esercizio dei signori convittori ed alunni studenti di Rettorica» del seminario.

Nel 1787, nel palazzo del marchese Francesco Maria Campanari viene realizzata la rappresentazione musicale La gara fra le quattro virtù cardinali, con la musica di Annibale Valvani, maestro di cappella della chiesa di Sant’Andrea, su libretto di G. Mastrantoni, per festeggiare il giorno dell’ingresso nella cattedrale di Veroli del nuovo vescovo, Antonio Rossi22.

Anche ad Anagni vi furono spettacoli nel Settecento. Risale al 1727 una raccolta di componimenti, recitati in Anagni in lode di Ferdinando Campanari da Veroli, “Maestro Baccelliere minore conventuale”, in occasione del «celebre Quaresimale dal medesimo predicato in questa cattedrale». Tra queste opere vi è un’egloga pastorale, recitata il 22 aprile, in cui due pastori ernici (il manoscritto riporta anche gli interpreti: il canonico Magno De Magistris e il dottor Giuseppe Petrelli, Accademici Riuniti) rievocano la fervente predicazione di San Gregorio grazie alla quale molti peccatori furono redenti e si incamminarono sulla strada della fede e della carità.

Nel corso del Settecento, anche la vita culturale della città di Frosinone fu vivacizzata dall’attività di personaggi appartenenti all’Arcadia. Tra essi, molto importante fu il già menzionato Giovan Battista Grappelli, il quale fu autore di numerosissimi libretti di oratori e melodrammi. Tra questi è necessario segnalare almeno L’esiglio di S. Silverio papa, e martire, pubblicato a stampa nel 1705. Si tratta di un oratorio a quattro voci, la cui musica fu composta dal maestro Girolamo Gavalotti, incentrato sulla figura di papa Silverio, che di Frosinone è compatrono23.

Non lontana dall’attuale provincia di Frosinone, ma protagonista della vita culturale del Basso Lazio, fu la città di Priverno (all’epoca Piperno). Nel 1738, Giacomo Borelli, che era maestro e lettore di filosofia e teologia morale della scuola del Collegio dei Padri della Dottrina Cristiana di Roma, organizzò un’accademia di belle lettere presso la chiesa di S. Nicola. Il recital, tenuto dagli scolari di quella scuola, fu dedicato a papa Clemente XII in occasione delle festività per la nascita ed epifania di nostro Signore.

Pietro Gabrielli, patrizio romano, e principe di Prossedi, Roccasecca e Pisterzo, dovette essere, ai suoi tempi, un assiduo frequentatore dei teatri di Roma, e in particolare del teatro di Tor di Nona. Infatti, l’architetto Felice Giorgi, che di quel teatro fu l’ideatore e il costruttore, nel descrivere la propria opera in un libretto apparso a Roma nel 1795, dedicò il lavoro proprio al principe di Roccasecca, «uno dei primi acquirenti dei Palchi [… ] capo di simili compadroni», del quale ricorda che «per i lumi non ordinarj che avete nell’architettura […] vi compiaceste di approvare, e sostenere il disegno, che io mi feci un dovere di presentarvi prima di por mano alla fabrica».

Ricca e intensa fu la vita teatrale nei territori del sorano. Procedendo in ordine cronologico, diciamo innanzitutto che per le nozze di Vincenzo Giustiniani, principe di Bassano, con Maria Costanza Buoncompagni, figlia di Gregorio, nel 1706 gli Accademici Erranti diedero nel Teatro del palazzo di Bassano una rappresentazione de Il lino generoso, o vero La tirannide vinta dal valore, melodramma di Giacomo Badiale, promotore dell’Accademia dei Pellegrini di Roma, rappresentata e pubblicata una prima volta nel 1699. Come si afferma nella premessa, l’azione racconta di un re che smette i panni del “padre”, per vestire quelli del “tiranno”: l’insegnamento che ne viene è che bisogna sempre avere una giusta misura in tutte le imprese. Se Il lino generoso venne indirizzato principalmente alla signora Maria Costanza, un’altra opera fu invece dedicata al di lei sposo: Il maritaggio d’amore, epitalamo per musica, messo in scena a palazzo Giustiniani in occasione degli sponsali, a cura della medesima Accademia, e stampato nel 1705. Si tratta di una riscrittura della favola di Amore e Psiche già immortalata da Apuleio.

2 Teatro3Durante il XVI sec., ad Alvito, nel palazzo ducale era stato edificato un teatro di corte, nel quale venivano dati spettacoli musicali, coreografici e drammatici per il diletto della corte e dei cortigiani. Qui è interessante segnalare l’attività di ballerino del duca Francesco Gallio24. Costui, infatti, nel 1721 partecipò, in veste di danzatore e insieme con altri rappresentanti dell’alta nobiltà del suo tempo, ad una straordinaria rappresentazione presso il collegio Clementino di Roma. In quell’occasione fu organizzata una Festa accademica di lettere e d’arme, sotto gli auspici del principe e cardinale di S. Susanna, Giuseppe Pereira De La Cerda, consigliere di stato dei reali di Portogallo. La festa, della quale l’opuscolo riporta un succinto, ma esaustivo, “Ragguaglio”, fu animata dal fiore della nobiltà meridionale legata in qualche modo alla corona portoghese, e, oltre ad una fastosa e magnificente scenografia (che doveva richiamare la Gloria e l’Onore della nobile casata reale), comprese sinfonie, orazioni, recitazione di componimenti poetici in italiano e in latino, balli a solo e in gruppi, tornei di spade e picche, giochi di bandiere, per concludersi poi con una cantata a tre voci di impianto allegorico in cui compaiono le personificazioni della Nobiltà, della Religione e della Virtù.

Ancora per tutto il corso del Settecento i Buoncompagni furono dedicatari di opere a stampa. Risale al 1718 il dramma per musica Il Massimo Puppieno, dedicato a Maria Giulia Buoncompagni Ottoboni, duchessa di Fiano. A donna Anna Buoncompagni Salviati viene dedicato il dramma per musica Lucio Papirio, andato in scena al teatro di Pesaro nel carnevale del 1721. Invece è del 1730 L’Elenia, dedicato a Teresa Buoncompagni Barberini, principessa di Palestrina: questo dramma, che ripercorre le mitiche vicende di Teseo e Arianna, si segnala per essere opera di una donna, Luisa Bergalli.

2 Teatro4Ad un’altra Buoncompagni, la principessa Ippolita Buoncompagni Ludovisi Rezzonico, viene dedicato L’Americano, composto di intermezzi per musica a quattro voci, che fu rappresentato nel Teatro alla Valle appartenente alla famiglia Capranica nel carnevale dell’anno 1772. L’anno prima, ancora un’opera di intermezzi a quattro voci, cantata nel Teatro della Pace in occasione del Carnevale, viene dedicata alla principessa Ippolita La donna vendicativa e l’erudito spropositato.

A Isola di Sora nacque e fu intellettualmente attivo Gaetano Marsella, personaggio, che il pur completo Dizionario storico biografico del Lazio si limita a descrivere come «letterato […] autore del dramma in musica Il Pausania […] dedicato a Carlo di Borbone re delle Due Sicilie». In effetti, consultando i cataloghi delle biblioteche italiane è reperibile unicamente questo suo dramma per musica, dato alle stampe nel 1738, presso la stamperia di Stefano Abbate di Napoli25. È un’opera della quale è impossibile stabilire il destino pubblico (se sia stata effettivamente musicata e poi portata in scena almeno una volta), benché dalla premessa al testo appare chiaro che si tratta del primo lavoro pubblicato da Marsella26. In ogni caso il Pausania aderisce perfettamente alle prescrizioni che il Muratori aveva formulato per restaurare l’«antica dignità» della tragedia, tant’è che come lo stesso Marsella afferma nei componimenti che accompagnano il dramma, l’intendimento suo è quello di offrire al sudditi del re una dilettevole scuola di buoni costumi e una lezione morale sull’esempio di un eroe antico.

Nel 1757, «l’umilissimo, obbligatissimo servo e suddito» Filippo Cossa pubblica le Rime per le felicissime nozze dell’eccellentissimo signore don Antonio Buoncompagni Ludovisi duca d’Arce coll’eccellentissima signora D. Giacinta Orsini dei duchi di Gravina. Si tratta di un opuscolo nel quale sono raccolti sonetti, canzoni e finanche un carme in latino, scritti e sicuramente pubblicamente declamati in occasione delle nozze, che per certo nacquero sotto il segno di una comunanza anche intellettuale, atteso l’impegno culturale della famiglia Buoncompagni, e considerata anche la circostanza che la duchessa Orsini partecipava all’Arcadia con il nome di Euridice Ajacidenze.

Risale alla metà del Settecento (benché il libretto relativo non rechi alcuna data), il resoconto di un saggio letterario che fu dato in pubblico per tre giorni dagli scolari delle classi prima e seconda del Collegio dei gesuiti di Sora. Il periodo è deducibile dal fatto che la triplice performance pubblica fu dedicata a mons. Antonio Correale, che fu vescovo della città di Sora tra il 1748 e il 1764. Questa “tre giorni” di recite propose al pubblico: nella prima giornata opere in prosa (per lo più dissertazioni che trattavano il «miglior modo di comporre latinamente negli stili oratorio popolare, oratorio accademico, istorico, epistolare»); nella seconda, opere poetiche (con declamazioni da Virgilio, Orazio, Catullo, Tibullo e Ovidio); nella terza, un saggio di composizione, inframmezzato a recite di componimenti poetici e di retorica.

Quando Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, sposa Maria Teresa d’Austria, nel 1767, il maestro di cappella dell’Elettoral Corte di Sassonia, Adolfo Hasse detto il Sassone, compone la musica della festa teatrale Partenope, su testo di Pietro Metastasio, che fu rappresentata nel Burgtheater di Vienna. Il libretto scenico, stampato quello stesso anno quale strenna natalizia, venne dedicato a Vittoria Sforza Buoncompagni Ludovisi, duchessa di Arce.

                                                                                                       [continua]


NOTE

* Questo Profilo è frutto di ricerche condotte nell’arco degli ultimi anni anche per impulso degli inviti a partecipare ai cicli di conferenze del Centro di Studi Sorani «Vincenzo Patriarca», presieduto dal prof. Luigi Gulia, al quale rivolgo un ringraziamento di vivo cuore per l’amicizia di cui mi onora e per la stima e l’apprezzamento che ha sempre mostrato verso i miei studi di storiografia teatrale.

  1. Sul primo profilo cfr. G. Aricò, Cicerone e il teatro, in E. Narducci (a cura di), Cicerone tra antichi e moderni, Atti del IV Symposium Ciceronianum Arpinas, Firenze 2004. Sul Cicerone tecnico della recitazione cfr. C. Vicentini, Da Platone a Plutarco. L’emozionalismo nella teoria della recitazione del mondo antico, in «Culture Teatrali», n. 9, autunno 2003. In generale cfr. V. Ruggiero Perrino, Cicerone, critico teatrale e teorico della recitazione, in www.diocesisora.it, 1 novembre 2015.
  2. Cfr. V. Ruggiero Perrino, La spettacolare vita del nazareno Gesù, in AA. VV., Non solo carta, non solo antico. I colloqui di Senecio. In memoria di Emilio Piccolo, Atti del primo convegno di antichistica, Forte di Gavi (AL), 4 ottobre 2014, in www.senecio.it, maggio 2015.
  3. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Giovenale e il teatro del suo tempo, in www.diocesisora.it, 22 novembre 2015.
  4. Cfr. T. Polidoro, S. Severi, Cassino: un giorno il teatro, Cassino (FR) 1982.
  5. D. Romanelli, Viaggio da Napoli a Monte-Casino ed alla celebre cascata d’acqua dell’Isola di Sora, Napoli 1819, p. 142.
  6. Ivi, p. 144. Per completezza, bisogna aggiungere che a Frosinone nel 1965 sono stati rinvenuti resti di un anfiteatro, verosimilmente adiacente alla via Latina, la cui esistenza era già stata ipotizzata decenni prima in base al ritrovamento di una tessera lusoria e a documenti di archivio che lo menzionavano. Purtroppo, i resti sono stati irreversibilmente alterati da costruzioni edilizie; cfr. M. T. Onorati, L’anfiteatro di Frosinone: interventi di scavo e di recupero, in «Terra dei Volsci. Miscellanea», 2, 1996, pp. 122-123. Per quel che riguarda Ferentino, che pure Orazio suggeriva all’amico Sceva come località ideale per soggiorni di riposo e tranquillità (Epistulae, I, 17), Titinio, un commediografo contemporaneo di Plauto, aveva scritto una commedia intitolata Psaltria seu Ferentinas, della quale è sopravvissuto un verso che recita: «Ferentinatis populus res graecas studet». Inoltre, a Ferentino era funzionante un teatro – unico esempio nella zona degli Ernici – edificato tra la fine del I e l’inizio del II sec. d. C., sito nei pressi dell’antico percorso viario del Kardo Massimo, nei pressi di Porta Sanguinaria, e che poteva contenere circa tremila spettatori; cfr. A. Bartoli, Il teatro romano di Ferentino, Frosinone 1963.
  7. Cfr. S. Boynton, Frammenti medievali nell’archivio dell’Abbazia di Farfa, in «Benedictina», 48 (2001), pp. 325-353.
  8. Cfr. M. Inguanez, Il “Quem Quaeritis” pasquale nei codici cassinesi, in «Studi medievali», 14 (1941), pp. 142-149.
  9. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Dal X al XIII secolo: per un nuovo teatro. Il Dramma della Passione di Montecassino, in «Rivista Cistercense», 31 (2014), pp. 97-165.
  10. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Lo spettacolo dei giullari e il Ritmo Cassinese, in AA. VV., Sodalitas. Studi in memoria di Don Faustino Avagliano, Cassino (FR) 2016, pp. 993-1016.
  11. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Giovanni Sulpizio “Verulano” e la rifondazione del teatro, in www.diocesisora.it, 24 maggio 2015.
  12. Cfr. A. Segarizzi, Bibliografia delle stampe popolari italiane della R. Biblioteca Nazionale di S. Marco, v. 1, n. 258, Bergamo 1913; e cfr. M. Sander, Le livre a figures italien depuis 1467 jusqu’a 1530, Milano 1942.
  13. Nato ad Assisi intorno al 1550, cantore nel duomo di Milano tra il 1583 e il 1597, è considerato uno dei più antichi teorici del canto. Di lui fu pubblicata a Venezia, nel 1594, una raccolta di Regole, Passaggi di musica, Madrigali, che nella larga esemplificazione di fioriture, trilli, passaggi, si può considerare un vero e proprio metodo di canto.
  14. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Un balletto alla corte dei Buoncompagni di Sora nel Cinquecento, in www.diocesisora.it, 12 giugno 2015.
  15. In Europa, lo spettacolo, da mero accadimento occasionale, diventa un fatto organizzato e professionale, dando luogo sia all’attività delle prime compagnie di attori girovaghi che alla nascita delle drammaturgie nazionali. In Italia, intanto, anche se i generi teatrali sopravvivono, le forme di spettacolo più caratteristiche del Seicento sono da un lato il melodramma (forma lirico-drammatica che diventa lo spettacolo di corte per eccellenza) e dall’altro lato la Commedia dell’Arte (i cui caratteri essenziali sono il professionismo, le maschere e l’improvvisazione).
  16. Cfr. S. Franchi, Drammaturgia romana, Roma 1988, repertorio di grandissimo interesse, per un approfondimento anche in chiave bibliografica.
  17. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Gli spettacoli a corte nel Seicento: l’esempio di Isola di Sora, in www.diocesisora.it, 5 luglio 2015. Il Ciro non fu composto appositamente per essere recitato a Isola di Sora. Infatti, si ha notizia di una rappresentazione avvenuta presso il Seminario Romano nel 1654. Tuttavia, rispetto alla recita “religiosa”, quella isolana amplifica la magnificenza e lo sfarzo rappresentativo. Si pensi a cosa dovette essere il momento in cui, «nel maggior caldo della rissa, s’apre la prospettiva, si vede il mare dove sorge Nettuno, che accerchiato da Mostri marini, gli sgrida», rispetto alla più scialba comparsa dei personaggi che poi avrebbero dato vita alla fabula sulla scena del seminario.
  18. Dalla dedica premessa al ragguaglio che il Costantino isolano è in realtà la traduzione in versi italiani di un’opera in “metro latino composta”, che era stata recitata a Palermo nel 1653 dai padri della Compagnia di Gesù nel collegio della città siciliana; cfr. ivi.
  19. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Cesare Baronio, l’oratorio e il teatro del Seicento, in www.diocesisora.it, 5 marzo 2016. Col termine “oratorio” si indica un genere musicale d’ispirazione religiosa (ma non liturgica), di impostazione drammatica (ma eseguito senza rappresentazione scenica o mimica), che discende dal madrigale dialogato del primo Seicento. Tuttavia, originariamente l’oratorio era lo spazio in cui si riunivano i membri di una confraternita o di una comunità religiosa per pregare. Con la nascita della Congregazione (appunto dell’“Oratorio”) voluta da Filippo Neri, “oratorio” passò a significare una riunione, comprendente la lettura di libri spirituali o passi biblici e l’ascolto di un sermone, accompagnati da preghiere e dal canto di laudi. Allorché la parte musicale divenne l’elemento caratterizzante di queste riunioni, il termine “oratorio” venne principalmente riferito al genere di drammaturgia musicale destinata a questi incontri. Fu il poeta Francesco Balducci a definire due suoi componimenti poetici per musica, La fede e Il trionfo, “oratorii”.
  20. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Excursus storico del teatro nel Basso Lazio, in www.diocesisora.it, 27 settembre 2015.
  21. L’Italia brilla per il talento comico di Carlo Goldoni e per la passione tragica di Vittorio Alfieri. Il primo vivifica le ormai esaurite istanze della Commedia dell’Arte, aprendo la strada a una commedia priva di urgenze politiche, ma che racconta con estrema profondità la realtà borghese. Il secondo, invece, interviene sulla tragedia con una consapevole vis polemica, che riflette gli ideali dell’Illuminismo. Invece Apostolo zeno, Pietro Metastasio e Raniero de’ Calzabigi sono i promotori di quella revisione che consegnerà il melodramma alla sua forma contemporanea.
  22. Cfr. V. Ruggiero Perrino, Il teatro a Veroli nel Settecento, in www.diocesisora.it, 18 aprile 2016.
  23. Altra figura di spicco dell’Arcadia frusinate fu il sacerdote Antonio Batta (alias Eufenio Euritidio), autore di un poemetto intitolato Capitoli giocosi (1768), nel quale racconta l’origine e l’antichità della città.
  24. Nel 1708, in occasione delle nozze celebrate a Napoli tra il duca Francesco Saverio Ignazio Gallio e la principessa di Acaja e Montemiletto, il celebre musicista Handel compose appositamente una pastorale dal titolo Acis und Galatea, nel cui frontespizio compare appunto il richiamo al paese di Alvito.
  25. L’unica copia attualmente reperibile è conservata presso la Biblioteca dell’Abbazia di Casamari.
  26. Al Pausania fecero seguito pochi altri sonetti apparsi in miscellanee d’occasione. Di lui restano anche otto lettere di un carteggio (sicuramente incompleto) con Ludovico Antonio Muratori; cfr. V. Ruggiero Perrino, Il “fantasma” di Gaetano Marsella e il Settecento a Isola di Sora, in www.diocesisora.it, 26 luglio 2015; e Id., Gaetano Marsella: nuove scoperte d’archivio, in www.diocesisora.it, 19 gennaio 2016.

 

 

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