Montecassino e Cassino tra la fine del 1798 e l’inizio del 1799*

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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 1-2
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di d. Luigi Tosti

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L’articolo di Chiara Mangiante sul dipinto di Raffaello a Montecassino ci offre l’occasione per ripercorrere i fatti accaduti in coincidenza del doppio transito dell’armata repubblicana francese nella badia e nella sottostante città di San Germano, attraverso la ricostruzione degli avvenimenti offerta da d. Luigi Tosti, monaco cassinese tra i più importanti storici d’Italia. Il passaggio delle truppe del gen. Championnet, il francese che saccheggiò Montecassino «da saraceno» in «quarantott’ore d’infernale dimora», dette inizio a un lungo e duro periodo per l’abbazia, protrattosi per tutto il secolo, in cui soffrì per le disposizioni, le norme, i provvedimenti adottati dai vari regimi che si susseguirono. Le leggi sull’eversione della feudalità emanate nel cosiddetto decennio dei napoleonidi (1806-1815) portarono nel 1807 alla soppressione del monastero cassinese che dopo tredici secoli, «non per ferocia di barbari, non per furia di guerra, ma per trovata di nuovi legislatori, perì», mentre nel 1810 l’abbazia venne privata della giurisdizione ecclesiastica, sancendo così la dissoluzione della Diocesi. Dopo il 1815, con la restaurazione borbonica, Montecassino riacquisì la sua personalità giuridica e la giurisdizione ecclesiastica ma dal 1848 si trovò nel turbine della reazione borbonica con alcuni suoi monaci relegati in celle monastiche o addirittura carcerarie (i fratelli Pappalettere) oppure minacciati di tali provvedimenti di restrizione (d. Luigi Tosti). Dal 1861, con l’Unità d’Italia, anche il nuovo regime sabaudo adottò una politica di soppressione delle corporazioni religiose diretta a colpire, espropriandoli, i beni della Chiesa. L’applicazione dei «decreti giacobini» adottati con leggi del 1866 e 1867 portarono alla revoca della personalità giuridica delle corporazioni religiose e all’incameramento di un terzo dell’asse ecclesiastico immobiliare, con i monaci cassinesi che riuscirono a conservare la badia ma solo «occupandola come custodi di un bene dello Stato». Poi a metà del XX secolo, il 15 febbraio 1944, Montecassino conobbe la quarta distruzione della sua ultramillenaria storia e infine il 24 ottobre 2014 il territorio della storica Terra di S. Benedetto è confluito nella circoscrizione ecclesiastica sorana che ha assunto la nuova denominazione di Diocesi di Sora, Cassino, Aquino, Pontecorvo (gdac).

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«…Intanto i francesi nel dicembre del 1798 impossessatisi delle alture d’Itri e della munitissima batteria di S. Andrea, con subito moto volsero per Lenola e Pastena, e tardi giunsero nella [p. 12] valle del Liri, per tagliare la ritirata a de Bourcard. Ottennero Sora, Isola, Arpino, poi campeggiarono Aquino, minacciando S. Germano. In sull’annottare del giorno 29 dicembre furono visti dodici cavalieri presso l’antico teatro inseguire alcuni artigiani di S. Germano, i quali presi, vennero condotti agli alloggiamenti d’Aquino, per ottenere notizia del paese e del numero delle milizie che lo guardavano. Assicurati della facilità del conquisto, il dì appresso [p. 324] una mano di dragoni colle spade sguainate apparvero presso S. Germano inseguenti alcuni fuggitivi dell’esercito Borbonico, e quella povera gente, che abbandonando la città, cercava in altri luoghi un ricovero … Questi dragoni entrano finalmente S. Germano, e poiché il palazzo badiale è il più grande edificio, e locato nella estrema parte meridionale della città, a questo vennero difilato quei cavalieri. Entratane la corte, uno di loro affissò ad una finestra l’abate Cassinese D. Marino Lucarelli1, uomo grave di anni, e reverendo per dolci e temperati costumi; e lo sforzò con grida e terribili minacce a scendere nella corte. Arresesi il venerando Prelato, temendo di peggio; il francese gli appuntò al petto, l’arma da fuoco, e villanamente frugandogli la persona, minacciandolo di morte, chiedevagli quanto si avesse di prezioso. Questo fatto chiarì tutti di qual razza fosse la presentissima invasione francese [p. 13] … Tuttavolta gli alloggiamenti furono preparati, e gli ospiti non indugiarono a venire, e un fragore di moltissimi tamburi ne annunziò l’arrivo.

Dapprima un cento soldati a cavallo entrarono in città, e si affilarono nella piana del mercato, poi un trecento fanti cenciosi, scalzi, e moribondi per fame e per freddo presero alloggio nel convento dei Francescani2, ed il generale di brigata Maurizio Matthieu con molti aiutanti ed officiali venne al palazzo della Badia, e tosto, tolto a guida un monaco, salì al monistero con molti uffiziali del genio, per torre dalla biblioteca le carte topografiche del regno, le quali non rinvenute, fruttarono agl’impauriti monaci un torrente di contumelie. E quella fu la prima volta, che s’intesero nella solinga Badia le voci di forestiera ferocia.

Tornato il Matthieu in S. Germano, fu messo in grande scompiglio tutto il palazzo badiale per la improntitudine e la violenza degli ospiti, che mangiando e bevendo, si facevano ognor più terribili nel richiedere anche l’impossibile. Venne la notte e dormivano que’ crapulanti ma era desto il generale travagliato dalla sete dell’oro. Mandò chiamando il vecchio abate, il quale come gli fu innanzi, con piglio da masnadiere disse: recassegli sei mila ducati; dargli tempo a raccoglierli sole tre ore. Spose l’impaurito prelato: essere le arche vuole di danaro, corto il tempo per uscirne in procaccio. Ma terribili minacce e l’uscio sul viso ruppero le parole all’abate, che strettosi a consiglio con pochi monaci, tra danaro vivo, e carte di banco raccolse, Dio sa come, le sei migliaia di ducati, e mandò al generale in quella stessa notte. Il dì trentunesimo di dicembre que’ primi soldati [p. 14] della brigata di Matthieu, ripresi meglio gli spiriti, poichè non avevano armati nemici a combattere, si dettero ad ogni più sfrenata gozzoviglia. Era un continuo assidersi e levarsi dalle molte mense ricoperte di cibi. Uffiziali e soldati, e con essi femmine da bordello smodatamente mangiavano e bevevano; e divenuti temulenti di cibo e di vino, farneticando rompevano e spezzavano i vasi e le stoviglie, e rubacchiavano or questa or quella cosa di argento da furfanti. E mentre costoro lascivando crapulavano, altri fratelli d’arme, andavano attorno per la città, entravano le case deserte, e predavano; ed ove incontravano alcuno, come se quella fosse l’opera la più giusta e secondo natura, lo dispogliavano delle vesti, e se ne vestivano … Alle tre ore della sera giunse in S. Germano il tenente colonnello, aiutante di campo di Mack3, Andrea Pignatelli con un corriere di gabinetto e due trombetti, per negoziare un armistizio4 col generale Championnet5. Costui il dì primo del 1799 giunse in S. Germano con due mila soldati, capo della colonna francese, di cui conduceva l’avanguardia il partito Matthieu, coi generali di brigata Bonamì, Berthier, Mcdonald, i quali tutti presero stanza nel palazzo badiale, e degl’inermi e pacifici ospiti con subite ire, e con ferocia d’inchieste fecero pessimo governo [p. 15].

 … [L’abate Lucarelli] fu tratto alla presenza di Championnet, che con certa scrittura alla mano, disse: Essere in quella ordine del Direttorio di Parigi dovere la Badia di Montecassino dare nello spazio di sole tre ore cento mila ducati all’esercito francese: indugiante o riluttante, morte all’abate, esterminio al monistero. Se veramente il Direttorio pensasse a Montecassino non so … Alcuni vecchi religiosi tentarono con umili rimostranze torcere l’animo dello Championnet da quello immoderato consiglio; ma colui infocando per bestiale fervore, li cacciò di camera, minacciando e svillaneggiando quelle sventurata ma veneranda canizie. Allora fu nel monistero fatto assai pietoso: per quitare le sfrenate voglie de’ chiedenti e salvare l’abate, si tolse dalla Chiesa quell’argento, che avanzava del già dato al principe per le necessità dello Stato; croci, incensieri e due grandi statue di argento raffiguranti i santi Benedetto e Scolastica si calarono in S. Germano per contentare la volontà de’ francesi. Ma, come furono tratte dai penetrali della basilica que’ due santi simulacri, fu un grande scoramento: que’ vecchi monaci, a cui tornava più amaro il presente, perchè soccorsi da più grande memoria di passata quiete, quasi vedevano in quelle statue, che uscivano dalle sante mura, la dipartita e l’abbandono dei santi protettori che rappresentavano. Rimasero dolentissimi, e coi sguardi accompagnavano questi ultimi avanzi delle antiche ricchezze, che non erano più per tornare. Nè voglio lasciar [p. 16] con silenzio che tra le cose preziose mandate al generale francese fu anche il famoso dipinto di Raffaello6, rappresentante la sacra famiglia: così que’ monaci disperati di salute, ponevano in mani sanguinose e ribalde quel monumento di arti, che la mano del divino Urbinate condusse in seno alla pace, e sotto la ispirazione dell’eterno Bello.

Solo trenta mila ducati si potettero raccogliere per rattenere le furie del francese da qualche fatto più violento. Malcontento, e dopo avere costretto colle armi in pugno l’abate a segnare del suo nome carte di cambio di enorme quantità in denaro, sciolse la briglia lo Championnet a quei suoi soldati, che, sotto colore di volersi approvigionare, misero tutto a sacco nel palazzo badiale. Così dopo quarantott’ore d’infernale dimora, eruppe fuori quel generale, per andare ad osteggiare il Mack presso Capua [p. 17] … sanguinoso documento n’ebbe il Macdonald presso Capua e Cajazzo, ove con generoso sforzo respinti dal Roccaromana, forte ed onorato cavaliere, feriti i generali Matthieu e Roisgerard, di ben cinquecento soldati, tra morti feriti e prigioni, fu scemo l’esercito francese. I feriti erano trasportati in S. Germano, e la loro vista accendeva nei popoli la speranza di rilevare la regia causa [p. 18]».

Dopo che il generale transalpino aveva «condotta S. Germano alle nuove forme di governo repubblicano», i «cittadini si acconciarono alle nuove costituzioni repubblicane», con a capo dei «municipalisti» un tal Nacci, e «levarono l’albero della libertà». Quindi seguirono cinque mesi in cui «alle minacce» di Championnet «tennero dietro le violenze» nei confronti dell’abate, dei monaci, della popolazione locale. Poi «nell’afflitta S. Germano» iniziò la reazione «per lo insorgere delle masse» le quali «sotto il manto di amore alla parte regia si davano ad ogni sorte di ribalderia». A un «disordine di ogni cosa pubblica e privata si venne» per cui si decise che «scegliesse il popolo sei cittadini, ai quali fosse confidato il giudizio della ragione civile e criminale; le masse che volevano difendere il principe si componessero sotto la disciplina delle soldatesche regolari; deponessero le armi in pubblici luoghi, da prendersi solo nei bisogni del comune; si arrolassero trenta uomini d’arme in compagnia condotta dall’antico capo della squadra baronale, i quali vegliassero alla quiete pubblica». Nel frattempo in tutto il Regno «dal fango del trivio, dal lezzo delle prigioni e delle galee eruppero i Capi masse» i quali «si dissero salvatori della patria, teneri soccorritori all’infortunato principe; e con questi titoli sul labbro, col sangue, colla rapina, e con nuove perfidie immolavano alle furie cittadine la patria già disonestata per mani forestiere e nemiche. Fra Diavolo, Pronio, Sciarpa, Mammone» e «tra questi capi il ferocissimo, o meglio bestia, era il Mammone, che lordava di sangue questa ultima parte del reame che si unisce allo stato pontificale; il quale in tutte le terre, che pendevano impaurite dai suoi cenni, aveva non indegni satelliti. S. Germano era tra queste, e soggiaceva ad un garzone di ferraro, che dal difetto di un occhio chiamarono Moliterno» un «plebeo, basso di animo, ignorante ma ardimentoso». Tuttavia «quello ch’ebbero fatto i generali francesi facevano i capi-masse sull’infelice badia, smungendola e divorandola, perocchè nel palazzo badiale di S. Germano avevano stanza, e grasso il vivere, e facevano un petulante ed irragionevole richiedere di danaro, che dicevano necessario al mantenimento della parte regia; ma che poi non serviva ad altro che a sodisfare, se fosse stato possibile, le ingordissime loro voglie» mentre «della città facevano pessimo governo: taglieggiavano i ricchi, imprigionavano, uccidevano». «L’abate Cassinese, ove vedeva alcuno infelice nelle mani di que’ ribaldi frapponeva l’autorità sue … ma questi pietosi uffici non valsero a strappare dagli artigli di que’ forsennati quel caporale della squadra baronale, che volevasi porre alla condotta dei trenta armati per la quiete pubblica e che avrebbero infrenato l’impeto bestiale delle masse. I regi dissero quell’armigero fautore di repubblica, e mille voci si levarono contro di lui: Muoja; e senza forma di giudizio, sordi alle preghiere del venerando prelato Cassinese, que’ masnadieri, che si vantavano rilevatori del trono e dell’altare, trucidarono e poi denudarono in pubblica via quello sciagurato, chiedente prete e confessione, che non ebbe». Un’altra volta «avevano le imbestiate masse designato a morte un gentiluomo di S. Germano, che chiese ed ottenne pietoso ricovero dai monaci nella Badia. Del che avuta notizia i regi, salirono al monistero e coi pugnali in mano minacciosi si sparsero in esso, cercando lo sciagurato, che non visto fu salvo. Quell’armento di belve anelanti al sangue, e di sangue lorde non è a dire come e quanta trepidazione mettesse nei pacifici monaci».

Intanto man mano che l’esercito sanfedista del cardinal Ruffo si avvicinava sempre più a Napoli7, le truppe francesi iniziavano a lasciare le terre del Regno di Napoli anche perché richiamate in Italia settentrionale dall’avanzata della coalizione austro-russa. A S. Germano i regi predisposero dei baluardi a difesa della città avendo scovato chissà dove «certi cannoni rugginosi abbandonati» che trasportarono e «coricarono su mucchi di pietra», così «ruppero un ponticello, trascinarono sulla via che mette in città una quercia, e si credettero chiusi ed inaccessibili». Tuttavia quelle si rivelarono solo delle «balorde fortificazioni» perché finirono per stimolare l’«ira» dei francesi. Per di più «quel fabro, detto Moliterno, che si faceva capo degl’insorti regi, satellite di Mammone, dopo avere eccitato la plebe con promesse di vigorosa difesa, raccolto quanto potè di danaro, che nell’esercizio della capitananza ne aveva ammassato non poco, ma sempre per amore del re, fuggissene con tutti i regi, ed abbandonò la città con que’ cannoni di che dicemmo poc’anzi. Allora fu generale lo scoramento, e la città fu un deserto tutti riparavano ai monti. Vecchi, donne, fanciulli, piangendo e dando un addio alle mura domestiche affrettavano il passo, che debolezza del sesso, o di età, ed il carco della roba che si recavano sulle spalle ritardava. I cherici anche si dettero alla fuga, ed aperte le porte delle Chiese, pareva che Iddio le avesse abbandonate agli umani sacrilegi. Ma quelle che veramente muovevano a pietà grande erano le monache benedettine di S. Scolastica, e le Cappuccinelle … Benedette dall’abate, ed accommiatate nel Signore, pigliavano l’erta dei monti e mestamente guardavano alle abbandonate loro celle, in cui era per irrompere sozza e furiosa soldatesca».

E di lì a poco tempo arrivarono i soldati francesi. C’era una «nebbia densissima, che come bianco lenzuolo ricopriva la valle» ma ad un tratto un «lontano rombo come di tuono s’intese nella valle: era il trarre dei francesi cannoni, indiritti alla misera S. Germano. A quel terribile rimbombo, si precipitarono gl’indugi: tutti fuggirono, seco recando alcune preziose reliquie, e qualche cosa della suppellettile della Chiesa, e una triste certezza non dovere più rivedere quelle mura, che tenevano come casa paterna. Presero i più nascosti sentieri dei monti che vanno verso tramontana, e convennero nella terra di Terelle, piccolo castello che giace altissimo sul fianco di monte Cairo, abitato da buonissima gente, che veramente ritrae tutta la innocenza e la beatitudine patriarcale. E qui, se è cosa di cielo l’ospitalità sulla terra, e santissima la conoscenza verso benefattori non debbo tralasciar in silenzio il nome dei Jannarelli e dei Grossi onestissime famiglie, che al vedere que’ poveri monaci grami e raminghi, precorsero le loro richieste; aprirono le porte delle loro case, li accolsero come fratelli, e per buona pezza durarono negli ufficî della più amorevole ospitalità».

Dunque i francesi della colonna del generale Olivier, apprestandosi a uscire dal Regno, ritransitarono di nuovo per S. Germano e vi giunsero «come a città nemica, in cui potevano dare alle vendette libero sfogo», mettendo a ferro e fuoco l’abitato e la badia. A presidiare Montecassino erano rimasti solamente Gio. Battista Federici «grave di anni, e venerando per virtù», e con esso un giovane monaco «maestro dei novizî … di nome Errico Maria Gattola» i quali dovettero subire le angherie, le violenze, i soprusi dei soldati, assistendo alle profanazioni e tentando di salvare gli ultimi beni, quelli culturali della biblioteca e dell’archivio. Quando i francesi se ne partirono del monastero «non rimanevano che le mura: il rimanente, guasto, o bruciato, o rapito». Volgendo lo sguardo dalla sottostante città verso la vetta del monte, si vedeva l’abbazia come «un’ardente fornace, perché il fuoco acceso in mille parti dai francesi mandava una tristissima luce dalle finestre». Pure guardando dal monte si godeva di «più lagrimevole spettacolo» con la città di S. Germano che «tutta divampava e consumavasi». Erano caduti sotto il loro ferro circa centocinquanta cittadini. I soldati francesi non avevano perdonato «a sesso ed età nella sfrenatezza dello loro libidini» abbandonandosi «ad ogni più stupida ferocia». Nelle strade e nelle vie della città si vedevano i corpi delle persone uccise «oscenamente giacere cogli ammazzati animali; e troncato il capo ai cadaveri, alla sanguinosa cervice adattavano teste di porci, ed a questi umane teste; tutto era immerso nel sangue del vino e nell’olio. Furono uccisi anche il primicerio, Tumolini, e l’arciprete, Nunzianti, della collegiata di S. Germano per aver il primo tentato di difendere una sua cognata dalle mire dei soldati e l’altro per aver continuato a esercitare il suo ministero. Due terzi delle case di S. Germano erano state «arse, ed il rimanente stette in piedi per pioggia opportuna che sopravvenne» [pp. 20-35].

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* L. Tosti, Storia della Badia di Montecassino, vol. IV, libro decimo, L. Pasqualucci editore, Roma 1890 (le note a corredo di quest’articolo sono state aggiunte rispetto al testo originario).

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NOTE

1 Don Marino Lucarelli da Aversa, fu abate di Montecassino dal 1797 al 1804.

2 Il complesso fu utilizzato anche come magazzino di grano, avena e munizioni, mentre i soldati transalpini si accamparono anche nel convento di S. Domenico e nella limitrofa chiesa della SS. Annunziata. A distanza di qualche mese i danni provocati non erano stati ancora riparati. Infatti quando nella primavera del 1800 l’abate Lucarelli si apprestò a verificare i danni subiti dai luoghi di culto di Cassino, fu costretto a tralasciare la visita di quei sacri edifici che risultarono inidonei all’esercizio del culto (T. Leccisotti, Stralcio di una visita pastorale (anno 1800), in «Bollettino Diocesano», n. 3, maggio-giugno 1975, p. 217).

3 Karl Mack von Leiberich (1752 -1828), barone, feldmaresciallo austriaco, comandante dell’esercito del Regno di Napoli battuto nella battaglia di Civita Castellana.

4 L’armistizio fu poi stipulato a Sparanise l’11 gennaio 1799.

5 Il generale Jean Étienne Vachier detto Championnet (1762-1800), comandante in capo dell’Armata francese, era stato inviato a Roma a protezione della Repubblica Romana. Il 5 dicembre 1798 sconfisse l’esercito napoletano nella battaglia di Civita Castellana, quindi penetrò nel Regno di Napoli, conquistò la capitale e instaurò la Repubblica Napoletana.

6 Si tratta di Raffaello Sanzio (1483-1520) il grande pittore e architetto nato a Urbino, tra i più celebri artisti del Rinascimento.

7 L’esercito sanfedista o della «Santa Fede» («Armata Cristiana e Reale della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo») fu un esercito popolare costituito dal cardinale calabrese Fabrizio Ruffo per la riconquista di Napoli e del Regno e la cacciata dei francesi repubblicani. Sostenuto anche da contingenti militari russi, austriaci e turchi e da una squadra navale anglo-borbonica, dopo essere partito da Pizzo Calabro il 7 febbraio 1799 riuscì a liberare man mano il territorio e a espugnare Napoli il 13 maggio 1799.

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