Fanciulli italiani martiri in Francia

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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 3
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di Costantino Jadecola

«Pretore per circa dodici anni in provincia di Caserta, ove la tratta è fiorentissima»1, il giudice Raffaele Maietti, nel fare questa esperienza, aveva avuto modo di toccare con mano un fenomeno delinquenziale particolarmente sviluppato nel circondario di Sora, così come, del resto, in altre realtà del territorio italiano, e fonte notevole di guadagno per i soggetti senza scrupoli coinvolti: la tratta dei minori portati a lavorare nelle vetrerie francesi. Una triste pagina della nostra storia alla quale la pubblicistica locale si è talvolta interessata senza però penetrare nel cuore della gente – ma non è l’unico caso – al punto, cioè, da farne un riferimento, ancorché in negativo, da inserire nella più complessa vicenda vissuta nel tempo dal territorio.

A tal proposito ho avuto occasione di imbattermi un articolo pubblicato da «Illustrazione Popolare»2, dal quale ho mutuato il titolo, nel quale il giudice Maietti, un personaggio importante nella storia della Magistratura italiana se è vero che a Roma è intitolata a suo nome la strada sulla quale si affaccia il carcere di Rebibbia, il giudice Maietti dicevo riferisce della sua esperienza fatta in Alta Terra di Lavoro e, in particolare, a Roccasecca, dove questo triste fenomeno era piuttosto sviluppato.

La storia è nota o, almeno, dovrebbe esserlo: le vetrerie francesi necessitano, oltre che di manodopera adulta, anche di bambini da utilizzare, nel contesto di un ambiente molto simile all’inferno, nella sua estrema visione, per una pluralità di lavori i più penosi dei quali erano quello del gamin, ovvero del bambino addetto a prendere dal forno con una canna di ferro il vetro liquefatto e a porgerlo all’operaio, e quello del porteur che era incaricato di prendere dall’operaio il lavoro già fatto e portarlo in un altro forno.

Fanciulli italiani lavoratori di una vetreria in Francia.
Fanciulli italiani lavoratori di una vetreria in Francia.

«Talvolta, questo si comprende, il bambino sbaglia, non afferra bene l’oggetto, il quale cade e si rompe, ed allora viene esposto, non soltanto agli insulti, agli improperi, ma anche alle percosse crudeli dell’operaio stesso. Questi porteurs sono in gran parte inferiori ai 13 anni e devono afferrare a volo e portare da un forno all’altro circa 1000 bottiglie al giorno!»3. Beninteso, tenendo presente che il tutto si svolge in un ambiente dove talvolta la temperatura raggiunge i 1.400 gradi Farheneit.

Insomma, uno sfruttamento infinito della persona molto al di là del limite dell’umano – «la sete era tale e tanta, nella vetreria, che bevevamo due bottiglie d’acqua ognuno di noi ogni ora, e la sete non finiva mai!», dichiarerà una delle vittime – gestito con il terrore e talvolta aggravato addirittura dal doppio turno di lavoro continuativo: dodici ore più dodici ore.

Ma il brutto è che, usciti da questo infermo, non è che poi questi bambini vivessero, diciamo, in tranquillità nella normalità di una vita familiare. Neanche per sogno. In poche parole passavano da un inferno a un altro, da un incubo a un altro. Cessato il terrore in fabbrica, iniziava, infatti, il terrore “domestico”, attuato non solo con minacce ma anche con percosse e non disgiunto da condizioni di vita decisamente inadeguate a chi talvolta era appena uscito dalla cosiddetta età infantile: un “giaciglio” di paglia per “dormire” in un camerone umido e sporco dove, ovviamente, non mancava una mini fauna facilmente intuibile, un tozzo di pane, di certo non fresco di forno, la mattina e una “minestra” molto liquida la sera, dalla quale, si badi bene, il negriero aveva tolto la parte solida per sé. «Una zuppa al cui confronto la broda nera degli Spartani era un cibo delizioso», dirà l’on. Teofilo Rossi che poi aggiunge: «Questi ragazzi sono mantenuti così malamente che io ho potuto accertarmi che un incettatore con due franchi al giorno ne manteneva 13!

«Alla menoma lagnanza, alla più piccola mancanza, alla più semplice osservazione sulla qualità o sulla quantità del cibo, questi piccoli martiri vengono battuti in modo terribile, perché gli incettatori, come tutti i negrieri, credono nell’assioma del soprastante agli schiavi nella Capanna del zio Tom: Battere uno schiavo è nutrirlo!»4.

Guai, poi, ad ammalarsi: al “lavoro” si andava comunque, semmai con il conforto di colpi di frusta. Mentre i giorni di festa si “festeggiavano” andando in giro per la città a raccogliere mozziconi di sigari sempre per conto del negriero, che te li pagava con qualche spicciolo a seconda della quantità, oppure a chiedere l’elemosina sempre per conto dello stesso. Insomma, un ambientino di quelli che alla lunga e specialmente a una certa età poteva anche portarti ad avere problemi di salute molto seri, come tubercolosi, enfisemi polmonari o pleurite.

Ma come comincia questa tratta? Non è da escludere che ad inventarsela siano stati proprio gli stessi compaesani emigrati in Francia e che, dunque, sono a conoscenza di questa esigenza delle vetrerie di utilizzare i bambini. Beninteso, tutti i bambini del mondo ad eccezione di quelli francesi, ben consapevoli del danno che potrebbe loro derivare da questo genere di lavoro.

Ed ecco allora apparire sulla scena la vergognosa figura dell’incettatore, più propriamente il mercante di schiavi, o “negriero”, che dir si voglia, generalmente quanto di peggiore e di meno umano si possa immaginare. «Di regola generale questi incettatori sono persone che hanno avuto nei loro paesi questioni di coltelli e di furto e taluni di essi sono reduci dalle galere. L’avvocato Scelsi5 ne ha conosciuto uno che aveva scontato in Italia oltre 20 anni di galera per omicidio! E sono questi che debbono essere i tutori, che debbono sostituire nell’affetto e nelle cure i padri e le madri di fronte a questi poveri bambini!»6.

Così, con l’opportunità di fare un salto al paese, si ha l’occasione di salutare parenti ed amici ma soprattutto trovare qualche compare propenso ad entrare nel giro e genitori disposti a vendere i propri figli in cambio di «una vita di agi, di ricchezze, davanti a cui, in contrapposto delle miserie locali, s’inebriano gl’ingenui fanciulli, in modo che, quando non sono i genitori, che cedono per le promesse cinquanta lire a semestre, sono i ragazzi che con pianti e preghiere e moine persuadono le teneri madri a mandarli».

Ed a quei tempi non ci voleva poi tanto per illudere i poveri genitori, prospettando una vita migliore per i loro bambini.

A proposito di incettatori, vediamo il caso riferito dal giudice Maietti di cui fu protagonista un certo Testa, «quel Testa» che, «in poco tempo, raccogliendo giovanetti in Colle S. Magno e Caprile di Roccasecca per la questua in Inghilterra raggruzzolò oltre quindicimila lire. L’esempio è estremamente contagioso. Contadini ed operai agiati lasciavano tutto per dedicarsi alla tratta. Onde una concorrenza feroce in patria e in Francia. Altri vi si piegavano per necessità. Partiti per le vetrerie, non vi erano ammessi senza fanciulli; e, o ne compravano di seconda mano in Francia dai grossi fornitori, ovvero tornavano in Italia ad incettarne. Ricordo un Pasquale Della Valle, fabbro, buon uomo, che mi scongiurava con le lacrime agli occhi di lasciarlo partire con un carico; mi opposi. Partì solo, ma la merce, sempre italiana, la comprò a Parigi. Seppi che li trattava bene i fanciulli.

«Questo lavoro dei fanciulli italiani è un affare eccellente per gl’imprenditori francesi. Alcuni di loro interdicono l’ammissione in fabbrica ad uomini adulti senza almeno due ragazzi. Altri soppressero addirittura gl’intermediari e mandarono agenti proprii a reclutare la merce».

Uno di quelli “adescati” a Fontana Liri, racconta: «Io ero scalzo; prima disse (il negriero, nda) che mi avrebbe comprato le scarpe a Cassino; arrivati qui, disse che le avrei avute a Napoli; arrivati a Napoli sulla carretta, eravamo 24, ci imbarcò per Lione, senza scarpe; colà mi mandò alla fabbrica con le scarpe di legno e così rimasi. Spesso sui piedi nudi cadevano pezzi di vetro bollente, o sul petto o in faccia».

L’incettatore Antonio Fraioli, ad esempio, “gestisce” un bel gruppo di ragazzi ma è costretto a dormire «sul pane per non lasciarlo prendere ai ragazzi». Pane, peraltro, che «compra ogni dieci giorni e ne distribuisce un pezzo al giorno» mentre «le lenzuola le cambia ogni settantacinque giorni».

Uno dei ragazzi comunica al Sindaco di Fontana Liri che il suo “incettatore”, Francesco Frezza, «tratta bene due di noi perché sono grandi; noi siamo piccoli, non possiamo parlare perché ci bastona. Da quando partimmo da Lione, stiamo morendo di fame. Scrivete al console che il Frezza ci ha cambiati di nome, non abbiamo a chi ricorrere perché siamo piccoli. Lavoriamo la notte e il giorno dobbiamo andare al bosco a prendere la legna; le pulci ci mangiano».

Altri intercettori, riferisce un’altra vittima, sono Vozza e Carlesimo, «i nostri padroni [che] se la intendevano col fattorino postale e con i gendarmi francesi che venivano a guardare la fabbrica».

Emilio Zeppa, uno degli “ospiti” della pensione gestita da Angelo Marsella e da sua moglie, il 22 novembre 1898 scrive al padre: «Ignudi e stracciati ci vergogniamo di uscire la domenica; la sera Angelo Marsella non ci dà che mazzate. Siamo in mezzo al fuoco, ammalati e pezzenti. Se non andiamo un giorno a lavorare, mazzate».

Nella stessa pensione ci sono anche i fratelli Paolo e Angelo Proia. Quest’ultimo avrebbe riferito al pretore Maietti, che suo «fratello Paolo la notte per la debolezza orinava nel letto. Marsella e la moglie schifavano mio fratello e lasciavano il letto tale e quale, puzzolente, e mio fratello la notte era costretto a ricoricarsi in quel letto, che era in un pianterreno umido».

Lo stesso Paolo, tornato in Arce, dichiarerà al pretore: «costretto a lavorare dodici ore di continuo davanti alla fornace; non avevo altra camicia da cambiare quando ero sudato. Il sudore asciugato mi produsse dei dolori alla schiena. Un giorno caddi svenuto. Quando rinvenni, il caporale mi obbligò a riprendere il lavoro. Svenni di nuovo e mi portarono all’ospedale». Il medico francese diagnosticò uno stato di marasma gravissimo. Dopo cinque mesi uscito dall’ospedale di Francia, il medico di Arce lo dichiara inguaribile! Marsella, invece, scriveva al padre dandogli «ottime notizie».

Donato Vozza nel 1806 era giunto a San Denis, forse da Casalvieri, con tredici fanciulli, “di proprietà” sua e del Carlesimo, anche questo un cognome di Casalvieri, che vennero subito sistemati presso la vetreria Legras. D’accordo col proprietario, lui stesso li accompagnava ogni giorno al lavoro, si sentissero in forze o no, e lui stesso li sorvegliava per tutta la durata del lavoro, ottenendo un compenso che superava le mille lire al mese. “In contropartita”, «la stanza dove i ragazzi dormivano era in un pianterreno senza mattoni, umidissimo, la cui porta dava in un corridoio, senza altra aperura da cui venisse la luce tranne un foro nel soffitto». Quando, finalmente, «in seguito all’inchiesta delle autorità francesi il Vozza coi piccoli fu stanato di là, la portinaia raccontò che in un anno non aveva mai visto entrare in quella casa né carne né pane; si compravano solo croste di pane. I ragazzi affamati erano mandati nei giorni di mercato a raccogliere tutta la roba che si gettava nella fogna del mercato, e mangiavano tutti i residui di commestibili che trovavano, torsoli, ecc., per le vie, nei rigagnoli. La mattina dai padroni avevano croste di pane e a mezzogiorno minestra (come disse il Polese) schifosa di erbe cotte. E quando i ragazzi si riposavano un poco, Vozza e Carlesimo li maltrattavano ferocemente insieme con gli operai francesi che li insultavano sputando loro in faccia e torturandoli con le canne roventi».

Ma quanto incassa, lo schiavista? Per ogni ragazzo che porta in vetreria prende dai trenta ai quaranta soldi al giorno ma incassa ancor di più se più tempo vi restano e imparano il mestiere. A fronte di tali entrate, le uscite sono minime: quella miseria da dare ai genitori ogni sei mesi, e di norma per non più di tre anni, e poi un ambiente in cui disporre «un posto per un giaciglio comune dei ragazzi», un tozzo di pane la mattina e il solito liquido, detto minestra, la sera.

Significativa la testimonianza di Giuseppe Polese: «Eravamo non ricordo quanti: a Napoli non ci volevano far partire. Vozza e Carlesimo fecero certi imbrogli, lo stesso fecero in Francia, perché lì esigono l’età. Da Parigi alla Plaine di Saint-Denis andammo a piedi. Nella vetreria Legras io fui collocato in un fosso dove l’operaio soffiava il vetro rovente; era troppo faticoso, riuscii ad abbandonarlo, ma fui messo ad altro lavoro faticosissimo, a soffiare la pasta rovente, ma vi ero obbligato con palettate dagli operai francesi. Ferito alla testa, scottato in parecchie parti, fui addetto al trasporto: 1400 viaggi al giorno, per un 400 metri, ma anche lì, sempre percosse. Il mio salario era di lire 50 al mese, ma lo riscuoteva il Vozza che sapeva il francese e mi dava mezza lira la domenica, pane duro la mattina, minestra di cavoli la sera. Quando ci coricavamo sulla paglia ci facevan levare la camicia per non farla consumare. Una mattina, il compagno Francesco Fraioli non voleva andare a lavorare, perché non si fidava: fu obbligato dal Carlesimo ad andare. All’officina si accorsero che stava male e a mezzanotte un commesso della fabbrica lo riportò moribondo: portato all’Ospedale morì lo stesso giorno. Noi compagni lo accompagnammo al cimitero e gli portammo dei fiori. La cassa ed il trasporto lo pagammo noi, compagni. Poco dopo anche l’altro Fraioli, Felice, non si fidava di lavorare. Ma Vozza veniva all’officina e l’obbligava a lavorare; e due operai francesi con le canne roventi lo torturavano mentre seduto in un fosso teneva fra le gambe la forma in cui si soffiava la pasta rovente ed egli doveva aprirla e chiuderla».

Oltre Francesco e Felice doveva esserci un terzo fratello Fraioli, di nome Paolo, che fu obbligato da Vozza a scrivere al padre in questi termini: «Mio fratello Felice sta male e il padrone l’ha portato all’ospedale per farlo guarire, ma con molto dispiacere vi annunzio che è una malattia di polmoni. Se avete altre notizie non le leggete, io lo vado a trovare il giovedì e la domenica». A margine dello scritto di Paolo, Vozza scriveva di proprio pugno: «Vi do questa notizia che vostro figlio sta male e il medico ha obbligato di portarlo all’ospedale. Non vi credete che non vi sono andato a trovarlo, perché gli ho voluto più bene di voi e se guarisce ve lo rimando. Non leggete altre notizie. Non credete che io sono trascurato. Io sono andato a chiamare tre volte il medico, che me lo assicurato tanto bene».

Poi, dopo la morte di Felice, Vozza scrive un altro paio di volte a Fraioli padre, qualificandosi, però, nella prima lettera (14 maggio) come Paolo: «Vi fo sapere che mio fratello Felice è passato all’altra vita, ma non vi pigliate pena perché gli hanno fatto tutto quello che serviva. Era una malattia fulminante chiamata polmonea. Voi, non credete a quanto dicono: ha avuto tutta l’assistenza, ma invano perché così è piaciuto al Signore. Mi avete mandato a dire che volete venire qua, ma vi dico che ai confini della Francia non vi fanno passare». Il giorno dopo, invece, come Donato Vozza scrive: «Vi vengo a dare tristi notizie: che fossero queste le ultime! Il vostro figlio Felice è partito per l’altra vita. Non è stata colpa di nessuno. Cominciò una febbre, una specie di tisi, poi è finita in polmonea. Non pensate che vostro figlio fu abbandonato, perché fu assistito molto bene. Il medico l’ho fatto venire tre volte. Alla terza volta, mi ha forzato di mandarlo all’ospedale ed io col vostro figlio Paolo lo abbiamo accompagnato in carrozza. Informatevi bene da qualunque persona che era presente. Non vi scoraggiate che anche io perdetti una sorella che aveva quattro anni. Ci vuole pazienza, perché tutti dobbiamo morire». Nella stessa lettera c’è poi un post scriptum del figlio di Donato, Domenico, che invia a Fraioli un biglietto da dieci lire come «regalo».

Qualcosa del genere era anche accaduto per il bambino Antonio Capuano al cui papà sempre Vozza scriveva: «L’ho dato ad una monaca che lo tratta a casa sua meglio di un signore. Tiene la trippa (la pancia) grande. Il medico dice che la malattia la tiene da quando era piccolo. Ma non credete che sia malato».

Il reverendo Mancone, barnabita, che fu in Francia l’angelo consolatore di questi ragazzi, nella sua deposizione disse che il povero piccolo Capuano «mentre era moribondo mostrava con gioia una moneta da dieci soldi, che gli avevano regalata nell’ospedale, dicendo che non ne aveva mai avuta alcuna, e presente anche il Paulucci de’ Calboli il ragazzo disse che sempre quando chiedeva da mangiare, il Vozza lo percuoteva».

Nella squadra di Donato Vozza c’era anche Benedetto Scappaticci, che, essendo affetto da tubercolosi, si rifiutava di lavorare. Allora «il Vozza lo accompagnava alla vetreria a colpi di cinghia, lasciandogli sulle carni le impronte, che poi furono misurate e trovate eguali alla cinghia; alla vetreria il ragazzo riceveva calci nell’addome dagli operai francesi, e tali maltrattamenti che ne impazzì. Il Vozza si rifiutò di pagargli il rimpatrio, ciò che il console esigeva, rimproverandolo di avere portato dall’Italia il ragazzo florido di salute; il Vozza lo trattenne, contando di poter presto rimetterlo alla vetreria e risparmiare la spesa del rimpatrio. Aggravatosi il ragazzo, l’ambasciatore ingiunge al Vozza di rimpatriarlo; ma questi si squagliò. Una monaca della Villette, visto il fanciullo aggravatissimo, ne parlò con la pia signora che soccorreva tutte queste sventure, Maria Sofia, ex regina di Napoli. Questa si recò alla Pline de St-Denis, e, visto il ragazzo nel sozzo tugurio, lo ritirò, e quindi, a sue spese, lo fece rimpatriare».

Maria Sofia di Baviera, l’ultima regina del Regno delle Due Sicilie.
Maria Sofia di Baviera, l’ultima regina del Regno delle Due Sicilie.

Intanto il Vozza scriveva al padre del ragazzo: «Voglio sapere se è arrivato; se ha fatto un felice viaggio, e per mio regalo gli dò cinque lire (!); io sono andato dal console per farlo rimpatriare; non sono andato alla stazione perché non sapevo l’ora della partenza».

Il disgraziato ragazzo si trovava, invece, a Genova, in manicomio.

Quando Vozza tornò per l’ennesima volta in Italia intenzionato ad adescare altri ragazzi venne finalmente arrestato su segnalazione dell’Ambasciata italiana in Francia e tempo dopo la stessa fine fecero sia la moglie che il figlio Domenico.

Contestualmente a tali eventi giungeva al Sindaco di Roccasecca questa lettera, datata Parigi 21 maggio 1898, a firma di Luigi Giorgi, uno dei ragazzi lavoranti nelle vetrerie francesi: «Caro Signor Sindaco ed Autorità di Roccasecca: non fate pratiche per farmi venire perché io sto bene e i nemici vogliono male a Donato Vezza. Se lo avete fatto arrestare cacciatelo (liberatelo, nda) e regalategli qualche cosa». La lettera naturalmente era falsa come avrebbe confermato lo stesso Giorgi nel pubblico dibattimento del successivo 11 ottobre nel corso del quale, oltre a rinfacciare a Vozza i feroci maltrattamenti da lui subiti, ricordava che gli era stato imposto di scrivere quella lettera sotto pesanti minacce.

Né fu più tenero verso Vozza il già ricordato Giuseppe Polese il quale dichiarò che quando il figlio di Vozza, Domenico, venne a sapere che il padre era stato arrestato «ci menava in luoghi solitarii e ci percuoteva. Non potevamo scrivere a Roccasecca perché c’impediva. Io mi feci proteggere da alcuni francesi che mi aprirono la strada al Console: un monaco (il già ricordato Mancone, nda) perorava la nostra causa e ci fece aiutare da una Regina (Maria Sofia di Baviera, consorte di Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, nda). Io, Federico Marinelli, ed altri, fummo ricevuti da questa Regina in casa sua e trattati da gran signori; così scampai la morte perché ebbi anche io la polmonite».

Per avere una precisa idea di quale crudeltà siano temprati gli animi di questi incettatori, basta leggere la lettera che Donato Vozza, ben cosciente dei molti infanticidi commessi indirizza dal carcere al giudice istruttore: «Su semplici anonime (l’arma dei vigliacchi, gelosi, perché non ho voluto pagare loro un migliaio di lire) di aver io trasportato in Francia minorenni e cagionato forse la morte di Antonio Capuano e di Felice Fraioli, mi si arresta e si priva della libertà degli onesti cittadini, che lavorando si procurano l’agiatezza(!). Esclamo con Orazio: Nil conscire sibi, nulla pallescere culpa7.

Dopo avere attaccato e discusso alcune disposizioni, chiude scrivendo: «Non commisi abusi di mezzi di correzione. Il Capuano morì di tumore splenico (milza), il Fraioli di ileotifo e polmonite. Valgano i certificati medici e le testimonianze dei compagni. Se non potettero nulla i farmaci del primo ospedale di Parigi, cosa potevo io contro il dittatore della vita? Non commisi truffe, perché feci il contratto coi genitori avanti il sindaco di Roccasecca. Perciò chiedo alla giustizia un’ordinanza di non farsi luogo e la libertà provvisoria».

Conclusione: una condanna di sei mesi, che ha scontato, una multa di seimila lire, che non ha pagato. In questi mesi, poi, ha fatto un’altra incetta e, dopo sporto appello, è ripartito per la Francia.

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NOTE

1 «Illustrazione popolare», volume 38, 1 gennaio -31 dicembre 1901, pp. 454-455.
2 Edita a Milano dai Fratelli Treves, «L’Illustrazione popolare» nasce il 7 novembre 1869 e dal n. 42 del 15 settembre 1895 diventa «Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie», inizialmente bisettimanale, poi settimanale (dal 15 febbraio 1872).
3 On. Teofilo Rossi di Montelera nella seduta del 27 maggio 1901, in Atti Parlamentari della Camera dei Deputati, Legislatura XXI, p. 4409.
4 Idem.
5 Vice-console reggente il Regio Consolato italiano a Lione.
6 Dal discorso dell’on. Teofilo Rossi di Montelera alla Camera dei Deputati nella seduta del 27 maggio 1901, in Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, legislatura XXI.
7 «Non avere nulla da rimproverarsi, non dovere impallidire al ricordo di qualche colpa» (Orazio, Epistole Libro I, lett. I, v. 61).

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