Studi Cassinati, anno 2005, n. 4
di Luigi Serra
Prima dell’avvento della tecnologia moderna, che fa grande impiego dei motori elettrici, la forza motrice per il movimento delle macchine era data, specialmente nel Cassinate e nelle zone limitrofe, dai corsi d’acqua, lungo i quali venivano ubicati i vari opifici, compresi i mulini. Questa forza naturale, non trasferibile nello spazio, ha portato ad un sviluppo economico lungo il corso dei fiumi, si vedano per tutte le industrie sorte nel tempo ad Isola del Liri. Specialmente i mulini, che richiedono una forza motrice limitata rispetto alle grandi industrie, sono stati localizzati, anche per servire meglio la popolazione sparsa sul territorio, sui ruscelli e nei luoghi più impervi, che in alcuni casi potevano essere raggiunti solo dai muli o addirittura esclusivamente dalle persone a piedi, che trasportavano i cereali da macinare sulle spalle. Uno di questi casi esisteva a Sant’Andrea del Garigliano, dove un mulino era stato costruito in uno stretto vallone alle spalle del centro abitato, lungo un piccolo corso d’acqua.
Questa situazione, oggi del tutto scomparsa, nel Cassinate è rimasta vitale fin dopo la seconda guerra mondiale, con lunghe attese e spostamenti di diversi chilometri per i contadini residenti in posti dove i mulini non c’erano. La conduzione del mulino dava al mugnaio, proprietario o affittuario che fosse dell’opificio, una certa agiatezza.
Anche l’Abbazia di Montecassino aveva i propri mulini nei suoi territori, generalmente datti in affitto. Dai registri contabili conservati nell’Archivio dell’Abbazia emerge che verso la metà del 1500, quando la rifioritura anche economica del monastero era ormai consolidata, i monaci avevano 4 mulini in Cassino, più mulini – anche se non è dato conoscerne il numero – a Sant’Elia e San Giorgio, uno a Piumarola, al quale nel 1581 se ne aggiungerà un altro, uno a Santa’Angelo, ecc. Diversi erano anche mulini posseduti negli altri territori, come: Cocuruzzo, Cetraro, San Pietro Avellana, ecc.
Generalmente i fitti erano stabiliti in tomoli di grano per cui, contrariamente a quanto avviene con la moneta – il cui potere d’acquisto varia nel tempo per effetto dell’inflazione – i dati sono più facilmente confrontabili. Però, quando questo abbraccia diversi secoli, il confronto diventa ugualmente alquanto incerto a causa della consistenza dei mulini – soggetti a potenziamento, a decadenza, ecc. – ed ai contratti di affitto che, al momento del rinnovo, portavano spesso ad una forte variazione del fitto, a volte in aumento ed altre in diminuzione. Comunque i 4 mulini di Cassino nel 1540 rendevano annualmente tomoli 1.215 di grano e nel 1567 tomoli 1.110; erano quelli che rendevano di più, seguiti da quelli di San Giorgio1.
Nel 1567 i quattro mulini di Cassino erano tutti affittati a Bartolomeo Vicalvi di San Germano e Antonio di Fabiano da Vallerotonda, che rispondevano in solido dei fitti dovuti al monastero in quanto, almeno di fatto, erano in società.
Nel 1806 i Francesi occuparono il Regno di Napoli, abolirono il feudalesimo, soppressero gli ordini religiosi e ne confiscarono i beni. Anche Montecassino venne coinvolto dal ciclone e i suoi beni furono venduti all’asta dal governo, fra questi anche i mulini che il monastero aveva in Cassino.
I due mulini che erano fittati a Luigi Bologna per 1.400 tomoli di grano – pari a 2.800 ducati – vennero messi all’asta il 28 dicembre 1807; l’asta, partita da un prezzo base di 1.400 ducati, si concluse con l’aggiudicazione a Carlo De Filippis per 70.000 ducati.
Nel manifesto che annunciava l’asta fu indicata una rendita di 1.400 ducati, poi riconosciuta errata, dove si scambiò la quantità di grano (tomoli), prevista nel contratto di fitto, con il relativo valore (ducati). Ma, a meno che non sia stata una cosa voluta, si fece confusione anche tra la rendita annua dei due mulini ed il loro valore capitale, dove, per ogni bene, il secondo supera sempre, e di gran lunga, la rendita.
L’aggiudicazione venne chiusa allo spegnimento della terza candela ed al migliore offerente. Le altre condizioni prevedevano che il pagamento, da farsi con titoli del debito pubblico, sarebbe avvenuto entro 6 mesi con rate mensili uguali: la prima rata da versare subito e le altre da garantire dietro il rilascio di cambiali. Se l’aggiudicatario non avesse pagato tre rate, oppure solo quella iniziale, o ancora non avesse consegnato le cambiali a garanzia delle successive, il demanio avrebbe venduto, in un’altra asta, i mulini “a suo danno e rischio”2; se fosse stato moroso di due rate i mulini sarebbero stati messi sotto sequestro fino al pagamento di quanto scaduto; se la morosità avesse riguardato una solo rata, diversa da quella iniziale, si sarebbe passato all’azione esecutiva con la cambiale scaduta.
Il 12 febbraio 1808 il De Filippis, ancora prima di perfezionare l’acquisto con il demanio, cedette i due mulini a Palmerino monaco di Pignataro Interamna – allora chiamata Pignataro di San Germano – il quale chiese ed ottenne dalla direzione del demanio che venisse apprestata una planimetria dei mulini ed accuratamente precisati tutti i diritti connessi: descrizione degli stessi, corso del fiume, canali, costruzioni, ecc. La direzione del demanio mandò da Napoli il proprio architetto Luigi Gasse che in pochissimi giorni, con l’ausilio del capo contabile della ricevitoria del distretto residente in Arpino e la presenza del compratore, procedette a tutti i rilievi del caso3.
Il primo mulino, chiamato della Porta degli Abruzzi, si trovava nei pressi del convento di San Domenico (presso l’attuale carcere giudiziario) ed era alimentato dalle acque del fiume Majuri, che poi proseguendo per un canale, arrivavano anche al secondo mulino; le acque del fiume venivano prelevate solo in parte attraverso un portellone. Dal portellone partiva un canale artificiale formato da un muro verso levante, mentre l’altra sponda era costituita dalla strada per Caira, che scorreva, del resto come oggi, ad una quota superiore a quella dell’acqua. Dalla parte del muro si vedevano ancora i resti di un altro muro, costruito in precedenza e poi crollato, e terminante con i merli come se fosse un castello.
Spesso i muri dei canali crollavano e venivano subito riedificati, magari riconoscendo all’affittuario un abbuono per i giorni in cui il mulino restava fermo. A volte, per far arrivare subito l’acqua al mulino, al fine di riprendere al più presto la macinazione, si costruiva una palizzata provvisoria, per proceder poi con calma alla ricostruzione del muro vero e proprio; anche lungo questo canale c’era una palizzata provvisoria di circa 85 palmi, come c’era uno spiazzo dove accumulare il limo di espurgo.
Fino ad una cinquantina di anni fa l’operazione di espurgo dei canali (forme) e degli imbotti dei mulini era una cosa abituale che gli interessati compivano con una certa frequenza.
Più a valle il canale aveva i muri da ambo i lati ed esisteva anche un secondo canale di riserva, per l’accumulo dell’acqua da utilizzare quando scarseggiava quella del fiume: era un modo per avere una certa continuità nella macinazione4.
Il fabbricato del mulino era a forma di parallelogramma, costituito sicuramente del solo piano terreno e vi si poteva accedere da due strade diverse; c’erano due coppie di macine, una per la molitura del grano e l’altra per quella degli altri cereali. Ciò, oltre ad accelerare la lavorazione mettendo in moto ambedue le macchine, se l’acqua era sufficiente ad azionarle, evitava che dopo la macinazione degli altri cereali, passando a quella del grano, la farina contenesse residui dei primi; a meno che, con l’impiego di tempo e fatica, non si sollevasse la macina superiore per ripulire quella inferiore dai residui. E l’operazione si sarebbe dovuta compiere più volte al giorno.
La relazione ci offre una descrizione abbastanza dettagliata, con l’indicazione dei proprietari dei terreni ubicati ai lati del canale, l’esistenza di ponti e se erano in muratura oppure di tavole, se erano caduti, del numero degli archi, come quello presso il Palazzo Corte che ne aveva due, ecc. L’ingresso a questo palazzo storico allora era senza portone e nei pressi c’era un portello, che consentiva la deviazione di una parte dell’acqua per azionare un frantoio adibito alla molitura delle olive.
Dopo aver costeggiato l’osteria Vertechi, il canale giungeva al mulino di Porta Napoli, che aveva ugualmente due coppie di macine, con le stesse funzioni del primo. La costruzione era su due piani: al piano terra c’erano due locali, uno per la sede del mulino e l’altro ad uso stalla; al piano superiore, dove si accedeva con uno scalone in legno – ma c’era anche una scaletta in pietra – c’erano ugualmente due camere con il focolare ed il forno per il pane.
Tutta la rete dei canali a servizio dei due mulini, che a volte si dividevano in due rami per riunificarsi dopo, si aggirava sui 3.200 palmi di lunghezza, pari a circa 850 metri odierni.
Allegata all’atto notarile originale dovrebbe trovarsi anche la planimetria che, invece, manca nella copia delle documentazione fatta il 21 settembre 1906, quando non c’erano macchine copiatrici e le copie venivano fatte a mano da appositi amanuensi5.
Versata la prima rata il 14 marzo 1808, il giorno 27 dello stesso mese Palmerino Monaco venne immesso nel possesso dei mulini dal ricevitore del demanio per il distretto di Sora – di nome Manente – ma residente in Arpino, il quale inviò al signor Torre di Cassino un bando, oggi diremmo manifesto, da affiggersi in città, in modo che tutti, a cominciare dall’affittuario dei mulini, venissero a conoscenza del nuovo possessore.
Seguirono gli altri versamenti, fino al completo pagamento del prezzo dei due opifici secondo il seguente prospetto
Date
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Importi |
14 marzo 1808
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23.350,00 |
13 giugno
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23.325,00 |
26 agosto
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11.700,00 |
13 Settembre
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4.650,00 |
16 Settembre
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1.100,00 |
21 Settembre
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2.000,00 |
23 Settembre
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1.550,00 |
1 ottobre
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575,00 |
12 ottobre
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1.325,00 |
10 gennaio
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1809 425,00 |
30 gennaio
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0,50 |
Totale
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0.000,50 |
Da rilevare l’andamento irregolare dei pagamenti, sia per quanto riguarda le scadenze che gli importi; il saldo del debito andò ben oltre la scadenza, prevista in sei mesi. Tutti i versamenti furono eseguiti con titoli del debito pubblico, espressamente richiesti dalla legge, salvo i 50 centesimi finali, corrisposti con una polizza del “Banco di Corte” e forse da riferire alle spese. Il pagamento dei beni confiscati con titoli del debito pubblico avvenne anche nel 1866, quando vennero soppressi di nuovo gli enti religiosi ed i loro beni venduti all’asta. Lo Stato ha sempre urgente bisogno di incassare in moneta sonante quello che prevede di conseguire con la vendita, che abitualmente richiede diverso tempo e, per essere completata, anche diversi decenni. Infatti il governo francese nel Regno di Napoli emise già nel 1807 un prestito forzoso di 1.200.000 ducati, “seguito subito da un altro prestito di 1.470.000 contratto in Olanda”6.
Comunque, saldati i pagamenti, il 2 febbraio 1809 si procedette alla stipulazione dell’atto notarile in Napoli, nella sede dell’intendenza di finanza, dinanzi al notaio Emmanuele Caputo, dove il compratore Palmerino Monaco fu rappresentato dal figlio Giuseppe Monaco, residente in Napoli e qualificatosi dottore (probabilmente medico), che sottoscrisse l’atto in rappresentanza del padre. Alla stipula presero parte anche tre testimoni, i rappresentanti del governo ed un giudice ai contratti.
I due mulini, con tutte le pertinenze costituite soprattutto dai canali, vennero venduti liberi e franchi da ogni peso, ipoteca, ecc., dove fra i primi vennero esclusi espressamente “i legati per messe, per altre opere pie, ecc.”
In questo atto di vendita c’è anche da rilevare che all’asta, alla quale Palmerino Monaco forse non prese neanche parte, i mulini furono aggiudicati a Carlo De Filippis il quale, però, non versò nulla di suo e solo dopo un mese e mezzo li cedette a Palmerino Monaco, che ne pagò l’intero prezzo allo Stato. Probabilmente il De Filippis partecipò all’asta con il proposito di trasferire ad altri quanto si sarebbe aggiudicato, oppure, essendo sorte per lui delle difficoltà, per non incorrere nei rischi previsti per il compratore inadempiente che non avesse versato nemmeno la prima rata (vendita in suo danno), preferì trovarsi un compratore che avesse adempiuto al contratto. Nulla è dato sapere, perché nell’atto pubblico mai sarebbe stato scritto quanto intercorso tra Carlo De Filippis e Palmerino Monaco.
Quanto a quest’ultimo, incidentalmente c’è da aggiungere che, dopo il Congresso di Vienna e la fine dell’era napoleonica, con il conseguente ritorno ai monaci del loro patrimonio, egli entrò in rapporta di affari con l’Abbazia. Ed alla Masseria Tartari, ricadente nel territorio del castello di Piumarola, esiste ancora una casa, salvatasi dall’ultima guerra, nel cui atrio del secondo piano è murata una statuina, che sembra un pupazzo, e che gli abitanti del posto attribuiscono proprio a Palmerimo Monaco, il quale dovrebbe essere scomparso nel 1825, in quanto dall’anno seguente il conto appare intestato ai suoi eredi.
Persone che appaiono nell’atto e negli allegati
Onorato Gaetani, Duca di Laurenzana, di Napoli, consigliere di Stato ed intendente della provincia di Napoli: è presente alla stipula dell’atto per conto del Fisco;
Nicola Gaetani, padre del suddetto: viene solo citato per la migliore identificazione del figlio;
Francesco Ruggì d’Aragona, di Napoli, direttore del demanio per la provincia di Napoli: interviene alla stipula dell’atto per conto del fisco;
Matteo Ruggì, marchese, padre del suddetto: viene solo citato per la migliore identificazione del figlio;
Giuseppe Monaco, dottore, di Pignataro di San Germano: interviene alla stipula dell’atto in nome e per conto del padre;
Palmerino Monaco, di Pignataro di San Germano: compratore dei mulini;
Giovanni Monaco, padre del suddetto: viene citato solo per la identificazione del figlio;
Luigi Bologna: affittuario dei due mulini;
Carlo De Filippis: aggiudicatario dell’asta e cessionario dei mulini a Palmerino Monaco.
Luigi Gasse, di Napoli: architetto dell’amministrazione generale del demanio;
Benedetto Manente: direttore distrettuale del demanio;
Francesco Saverio Brunone: testimone nella stipula dell’atto;
Francesco Pascale: testimone nella stipula dell’atto;
Antonio Caputo: testimone ed estensore dell’atto per conto del notaio;
Giuseppe Pucci, di Napoli: giudice ai contratti;
Emmanuele Caputo: notaio;
Luigi Palumbo: conservatore dell’archivio notarile di Napoli, per la firma della copia fatta il 31 gennaio 1906;
Vincenzo Romanelli: attuario nella copia dell’estratto dell’atto pubblico ?;
Raimondo De Gennaro: intendente della provincia di Napoli; è citato nel verbale di aggiudicazione dell’asta;
Augusto Turgis: segretario generale nel verbale dell’asta;
Signor Torre di San Germano: attacchino del bando di consegna dei mulini a Palmerino Monaco;
La Mura: funzionario del ministero delle finanze che attesta il versamento della somma di 70.000 ducati;
Giuseppe Gagna: come sopra;
Nicola Riccardi: capo contabile della ricevitoria del distretto di Sora con ufficio in Arpino;
Vertechi: proprietario di terreni lungo il canale dei mulini;
Riccardi: altro proprietario di terreni lungo il canale,
Vertechi: proprietari di una osteria, senza specificare se sono gli stessi di cui sopra.
Alfonso Petrone: Archivista dell’Archivio Notarile di Napoli che firma per il conservatore;
Giuseppe Tisci: vice cancelliere del Tribunale di Napoli che legalizza la firma di Alfonso Petrone.
1 Archivio di Montecassino, Libri mastro segnati “I 1539-41”e “1567 Y”.
2 La vendita in danno comporta la rivendicazione dall’inadempiente del minor ricavo rispetto a quanto da lui dovuto, ed il versamento allo stesso dell’eventuale maggior ricavo dalla nuova asta.
3 Da notare la celerità dell’espletamento della pratica, specialmente se si fa riferimento ai mezzi di comunicazione di quasi due secoli fa. L’architetto ricevette l’incarico il 3 dicembre 1808, si recò a Cassino ed il 14 dello stesso mese scrisse per l’assistenza al ricevitore del distretto di Sora, con ufficio in Arpino; il 16 dicembre iniziò i rilievi, che portò a termine entro tre giorni, per cui il 18 dicembre 1808 tutto era completo. Dai documenti consultati non è dato sapere la data della relazione che, comunque, deve essere stata compilata subito dopo.
4 Specialmente nei mesi estivi l’acqua scarseggiava sia perché la portata delle sorgenti diminuisce, sia perché era richiesta anche dall’irrigazione dei campi. L’accumulo avveniva generalmente di notte, oppure sospendendo di giorno la macinazione fino ad avere un accumulo sufficiente a muovere i macchinari.
5 Sono grato ad Antonio Maria Vallerotonda per la copia di questo atto.
6 Luigi Serra, Storia del debito pubblico italiano, pag.52.
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