Lo statuto di S. Germano dell’abate Tommaso I – 1285/88


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Studi Cassinati, anno 2001, n. 1

di Emilio Pistilli

L’attività normativa nella Terra di S. Benedetto
Con la formazione della società urbana, a partire già dal sec. XI, le comunità locali riuscirono ad ottenere dai loro signori forme di garanzia nell’organizzazione sociale che presero il nome di Privilegi, carte di libertà, statuti, costituzioni, inquisizioni, sentenze, destinate a regolamentare lo sfruttamento delle acque, la sorveglianza contro i danni compiuti dagli uomini o dagli animali alle piante, l’amministrazione della giustizia, la sorveglianza contro gli incendi, ecc. In particolari periodi storici, infatti, come l’imminenza di guerre o la necessità di tenere a freno la popolazione in stato di agitazione, fu necessario concedere condizioni privilegiate per il buon ordinamento della vita civile e per garantire i diritti essenziali della per- sona, riorganizzando la vita amministrativa della signoria, ed emanando norme di polizia locale. Afferma il Salvioli che il signore, vescovo o abate, nei suoi domini era signore e giudice, poteva promulgare leggi e bandi in forma di sentenze o come statuti locali ed i suoi dipendenti dovevano rispettarli1.
Questa attività normativa fu molto intensa presso gli abati di Montecassino, soprattutto nel sec. XIII. L’abbazia di Montecassino è la signoria ecclesiastica del Medio Evo che ne concesse il maggior numero. Ma c’è da presumere che già dai secoli precedenti si avessero esempi di tali concessioni; infatti nelle sentenze pro- nunciate dall’abate Bernardo I contro le università di S. Vittore, S. Pietro Infine, Bantra, S. Elia, Vallerotonda, si legge: “Inspecto privilegio ipso a predecessoribus nostris concesso”. Possiamo, inoltre, supporre che ogni castello avesse il suo privi- legio più o meno ampio2. Fuori della Terra di S. Benedetto gli statuti furono emanazione delle stesse universitates civium, anche se spesso confermati dai signori feudali. Furono passati per iscritto al tempo degli Angioini, ma la loro origine era sicuramente quella degli ordinamenti longobardi3.

 

Privilegi e Carte di libertà
Sono giunti sino a noi solo 12 privilegi e precisamente quelli di Traetto, Suio, Cervaro, Casal di Castellone in Puglia, nel territorio della città di Troia, Piedimonte, Pontecorvo, S. Angelo in Theodice, Atina, Fella, in Calabria, S. Germano, S. Pietro in Monastero, S. Apollinare, S. Ambrogio. I suddetti privilegi furono rilasciati dall’abbazia per accattivarsi le popolazioni passate da poco sotto il suo dominio (Suio, Traetto, Atina) e per accattivarsi quelle più ribelli (S. Germano, Piedimonte, Pontecorvo, S. Angelo in Theodice) conce- dendo loro moderazione ed esenzioni dal pagamento di tributi vari, di prestazioni di “servizio”, garanzia del rispetto dei diritti essenziali della persona; diritti, questi, che nel Medio Evo erano stati soppressi dai signori del tempo4.
Le signorie locali avevano ridotto gli uomini a oggetti: nessun atto della loro vita poteva essere fatto senza il consenso del proprio signore.
Le Carte di libertà furono una reazione al passato, che aveva imposto norme ed aveva circoscritto la libertà dei cittadini. Restituire ad essi alcune libertà fu una mossa strategica da parte dei signori: allentando i freni si poteva contare su un mag- gior appoggio della popolazione5. Esse, come già detto, dichiaravano la demanialità delle acque, dei corsi d’acqua, dei monti, pascoli, pianure, vie, mura castellane; affermavano il diritto del mona- stero a tagliare gli alberi per le proprie necessità. Inoltre dettavano le norme per la cessione e derivazione delle acque pubbliche; per la costruzione di mulini, frantoi e balcatoi; per il dissodamento e la cultura di terre boscose (caese); per le attività di caccia e pesca; per la riscossione del plateatico; per l’uso di pesi e misure; per il pagamento degli adiutori e della “procuratio” all’abate per la visita annuale ai castelli, anche se non veniva effettuata; per lo “jus affidandi” dei forestieri nella Terra di S. Benedetto; per la facoltà di libera disposizione dei beni da parte dei dipendenti; per il pagamento della terziaria; per la confisca dei beni delle persone che si trasferivano fuori della Terra; per le attività di vendita; per il rinnovo venti- novennale dei contratti e carte di franchigia; per la successione ereditaria; per la pre- stazione dei servizi e dei redditi dovuti al monastero dagli eredi; per la condizione giuridica e le alienazioni delle terre delle chiese parrocchiali. L’abate Bernardo I Ayglerio (ab. 1263-1282) raccolse molti di tali documenti – o Inquisizioni Generali – nel suo Regesto I del 1273, edito da A. Caplet nel 1890[6].

Purtroppo, nonostante i riferimenti ad analoghi atti dei suoi predecessori, l’abate Bernardo non ci fornisce indicazioni per risalire ad essi e all’epoca della loro reda- zione. Tuttavia egli non si fermò alle sole Inquisizioni Generali ma andò oltre regolando i diritti di plateatico, di transito sui fiumi Rapido, Liri, Garigliano, di macinatura dei cereali e delle olive. Tali diritti erano riscossi da sempre in via consuetudina- ria, ma fu necessario metterli per iscritto perché non fossero più contestati. Nel 1273 furono emanate 7 inquisizioni, contenute nel Regesto II dell’abate Bernardo7. La prima riguarda i diritti di plateatico: “Inquisitio facta in civitate S. Germani et omnibus castris et locis abbatiae Cas. de universis et singulis iuribus debitis officio cellariatus Cas. ratione plateae de hiis que venduntur sive emuntur, in locis predic- tis”. La seconda inquisizione riguarda i diritti di passaggio attraverso scafe sui fiumi Rapido, Liri e Garigliano. Il diritto era riservato sia alle merci che alle persone che vi passavano. Le scafe erano piccole imbarcazioni per l’attraversamento dei fiumi. La loro atti- vità iniziava all’alba e terminava verso il tramonto, gli imbarchi avvenivano in posti diversi: sul Gari, presso S. Angelo in Theodice, sul Liri, presso S. Apollinare e Giuntura, sul Garigliano, presso S. Ambrogio. Il titolo dell’inquisizione è il seguente: “Inquisitio facta in Abbatia Cas. de iuribus debitis officio Cellerariatus Cas; ratione pedagii ab hiis qui transitum faciunt per scafas existentes in fluminibus Liris, Garigliani et Rapidi ad supradictam Abbatiam spectantibus, ac etiam de hiis que trasferuntur super scafas praedictas8”. Le restanti inquisizioni trattano dei diritti di macinatura dei cereali e delle olive nell’ambito del territorio di S. Benedetto, diritti di balcatoi, diritti di cottura nei forni esistenti nel territorio cassinese.

 

Statuti
Possiamo definire gli Statuti con Luigi Fabiani: «Con il termine ‘statutum’ o ‘statuta’ le carte cassinesi indicano non solo il complesso di norme che gli abati e- manavano per regolare alcuni aspetti della vita municipale e della diocesi, ma anche alcune disposizioni particolari chiamate anche ‘constitutiones’, ‘decreta’. Gli statuti cassinesi sono regolamenti di polizia urbana e rurale, o di polizia ecclesiastica»9. Numerose furono le università (gli odierni comuni) che, sottoposte alla giurisdi- zione Cassinese, ebbero gli Statuti; ma va precisato che gli abati cassinesi non concessero mai agli abitanti del territorio sottoposto di auto regolamentarsi con propri statuti, almeno fino al secolo XIV10. Oggi possediamo solo tre statuti, due in materia municipale, quello di Pontecorvo e quello di S. Germano (ma quest’ultimo riguardava tutti gli altri centri abitati della Terra di S. Benedetto), uno in materia ecclesiastica, che regolava i rapporti tra l’ab- bazia e la chiesa capitolare di S. Germano. Del primo ci è giunto solo un frammento composto da 17 capitoli, anonimo, pubblicato nel 1940 dall’Inguanez11.

Lo Statuto di S. Germano
Fu emanato dall’abate di Montecassino Tommaso I tra il 1285 e il 1288 con la partecipazione dei baiuli di S. Germano ed altri notabili della Terra di S. Benedetto. Lo Statuto, vista la ripresa delle ribellioni, nacque con la preoccupazione di voler tutelare gli interessi dei cittadini, “Ad temeritatem et audaciam quorundam abbatialium cohercendam et ipsorum nocendi facultatem refrenandam…12”. Naturalmente nell’emanare lo Statuto l’abate dovette ribadire antiche norme consuetudinarie dovute al monastero, rimaste però inosservate durante l’ultimo periodo della dominazione sveva. Tale Statuto è costituito da una serie di norme espresse in 74 articoli, ognuno dei quali stabilisce la pena per il trasgressore, ordina il risarcimento del danno e dichiara il bisogno di credere al giuramento dell’accusatore, al beneficio del quale andava, spesso, una parte della pena in denaro spettante al padrone del fondo. In un primo tempo dovette essere impostato con atto d’imperio a tutte le comunità locali – è Luigi Fabiani che lo arguisce13 –, successivamente fu trasformato in uno statuto tipo, che le Università delle terre e castelli cassinesi dovettero adottare e fare osservare a tutti e chiederne ogni anno (dal I maggio alla festa di S. Pietro) la conferma all’abate sotto pena del pagamento di una multa di 4 once d’oro. Tutto ciò è avvalorato dal fatto che i capitoli 73-74 sono aggiunti da mano posteriore14. Lo statuto è nel Regesto II dell’abate Tommaso e fu trascritto anche nel terzo esemplare del Regesto II dello stesso abate dopo le Inquisizioni, tra i vari documenti copiati in epoche successive15. È ancora inedito, se si esclude la trascrizione fatta da Luigi Fabiani16; qui lo si riporta integralmente con l’aggiunta di una proposta di traduzione. Si presenta come regolamento di polizia municipale, urbana, rurale, annonaria e di mercato: non contiene alcuna norma di diritto privato, penale o processuale; la materia trattata è quella degli statuti della bagliva. Nei vari articoli vengono citate norme relative alla vita dei campi, alle merci, al prezzo, alla vendita delle carni e del pesce, alla disciplina dei beccai, alla vendemmia, alla viabilità, ai cittadini, all’approvazione annuale degli statuti. Analizzando i vari articoli possiamo avere una visione ampia e veritiera della vita nella città di S. Germano nel secolo XIII: troviamo che il popolo cassinese «eleggeva i forestieri, cioè i campari per la denunzia del danno dato ed i “catapanos sive superstites” ai quali era devoluta la sorveglianza sulla vendita dei viveri e sui loro prezzi. Dallo statuto e dai documenti troviamo varii artigiani, sembra non riuniti in corporazione, calzolai, osti, beccai con proprie botteghe: i contadini sono servi lega- ti al suolo, soggetti agli ordini dei patroni delle terre ed angariali obbligati a dati lavori campestri, ad arare, zappare, vendemmiare, potare, a fare lavori di scavo e simili. Questo il piccolo mondo comunale che ci è illuminato dallo statuto.17» Il bisogno di regolamentare la vita urbana, sia nella gestione del mercato (settore prezzi), che sulle norme igienico-sanitarie per i prodotti alimentari, è un problema serio sin dal Medio Evo. I primi 22 articoli dello Statuto riguardano i danni ed i furti arrecati nel settore agricolo, e decretano, nei confronti dei contravventori, multe che andavano da un carlino ad un augustale. Se qualche uomo o donna fosse stato trovato a raccogliere o rubare uva, fichi o altri frutti in luoghi altrui, senza permesso, veniva multato (Art.1); la multa era raddoppiata se il fatto fosse avvenuto di notte. Quest’ultima formulazione, “de nocte duplum”, è ricorrente nello statuto di S. Germano, e non senza motivo. Nel Medio Evo, infatti, in un mondo in cui la luce artificiale non esisteva, la notte era conside- rata piena di pericoli e minacce, il tempo della tentazione, del diavolo. La legisla- zione medievale era molto severa con i crimini commessi di notte; ad una certa ora le porte della città, dei castelli, delle chiese erano chiuse onde prevenire tali inconvenienti18. La durata del giorno era regolata dalla luce del sole: la debole fiammella di una lucerna ad olio poteva consentire solo poche ed indispensabili operazioni; col calare delle tenebre tutte le attività umane si arrestavano, le porte delle case si sprangavano; all’esterno restava solo l’abbaiare dei cani e il canto sguaiato di qualche ubriaco. Il furto dei frutti dai campi veniva punito in maniera molto articolata: se si veniva sorpresi a rubare con recipienti o grembiule o fazzoletto (cum aliquo vase, sinu vel mappata), oltre alla restituzione del maltolto si era soggetti al pagamento di un tarì (art. 1); se invece il furto avveniva sine aliquo vase, sinu vel mappata, al solo scopo di mangiarli, l’ammenda si dimezzava (10 grana – art. 2); infine non si era molto tolleranti con coloro che coglievano frutti nei terreni altrui perché non ne ave- vano di propri: la multa era di un tarì (art. 3). Ben tre articoli per impedire il furto di frutti dagli alberi: è evidente che si trattava di un bene importante, e ciò è comprensibile se si tiene presente che a quei tempi la produzione, senza i metodi moderni di coltivazione, senza l’uso degli anticrittogamici e senza alcuna protezione nei confronti dei voraci predatori dell’aria, doveva essere piuttosto scarsa. Del resto i nostri anziani ricordano ancora come, in tempi abbastanza recenti, fosse diffuso il furto (talvolta vero e proprio saccheggio) di frutti novelli. È da considerare, infine, che i frutti degli alberi venivano conservati, spesso per essiccazione, come riserva alimentare per i mesi successivi, e ciò contribuiva a rendere meno pesante la penuria alimentare che costituiva il problema più sentito in quel lontano medioevo. I raccolti di olive, di grano e di legumi, invece, dovevano essere piuttosto diffusi se il raccoglierne a terra senza autorizzazione del proprietario poteva costare l’ammenda di 10 grana (artt. 4 – 5). Riguardo alle olive va considerato che la loro qualità non corrispondeva a quella attuale, frutto di elaborate selezioni; pertanto è lecito supporre che la resa in olio non doveva essere abbondante il rapporto attuale è di circa kg. 4 di olive per 1 litro di olio -, mentre la conservazione sotto sale o calce doveva costituire una discreta riserva per tutto l’anno. L’olio che se ne ricavava, però, aveva un valore quasi sacro, legato come era anche all’illuminazione domestica e all’uso come unguento sui traumi o sulle scottature, oltre che come condimento. Mentre i primi cinque articoli si riferiscono ai furti nei campi, i successivi 6, 7 e 8 prevedono pene per i danneggiamenti agli alberi da frutto (mezzo augustale) ed ai campi coltivati (10 grana). Una popolazione prettamente rurale, oltre ad essere molto legata ai beni agricoli, lo era anche per gli strumenti di lavoro, la cui presenza era indice di ricchezza e prosperità; dunque non potevano mancare sanzioni circa l’appropriazione indebita di strumenti di lavoro, come l’aratro o simili (Art. 9); va rilevato, al riguardo, che, oltre la pena pecuniaria di dieci grana, è previsto anche il risarcimento in giornate lavorative (in tot et tantis diebus, quot ipsum aratrum tenuerit). Interessante risulta anche l’art. 10, sul divieto di accendere fuochi prima del 15 agosto, festa dell’Assunta, senza il permesso del Rettore, salvo l’incendio di sterpaglie, nei propri terreni, in previsione dell’aratura; qui la pena è salata: un augustale, oltre il risarcimento al danneggiato. L’art. 11, inoltre, punisce l’inquinamento delle acque potabili (un tarì). È evidente che la tutela delle risorse naturali e dell’ambiente era molto sentita, cosa non molto presente nella società attuale. I successivi articoli, fino al numero 23, sono volti a tutelare la proprietà agricola da danneggiamenti da parte di estranei o di bestie altrui. Riguardo a queste ultime si fa distinzione se trattasi di pecore e capre (un grano per ogni capo trovato al pascolo abusivo, fino ad un massimo di cinque capi, oltre tale numero un tarì – art. 18) o di maiali (due grana per capo fino ad un massimo di 5 capi; se di più un tarì – art. 19) o di pollame (il proprietario del terreno potrà ucciderlo, mentre il proprie- tario delle bestie pagherà alla Curia un grano – art. 21); tutte le bestie trovate in pascolo abusivo potranno essere sequestrate e portate al Rettore, mentre il loro proprietario dovrà pagare un augustale alla Curia (art. 20). In quest’ultima serie di articoli appare estraneo l’art. 15, che impone a tutti gli abitanti del territorio cassinese, se possessori di terreni, di piantare ogni anno alme- no trecento cavoli e cento agli (de caulibus ad minus centinaria tria et de aleis centinarium unum), sotto pena di due tarì da versare alla curia. Tale imposizione, per quanto possa apparire strana, fa comprendere che ortaggi come cavoli ed agli erano di scarso valore commerciale, pertanto prevaleva la tendenza a non coltivarli. Seguono ben 25 articoli che regolano la vendita e la macellazione delle carni ed altri cinque sulla vendita dei pesci. All’articolo 25 si prescrive l’obbligo di vendere merci che richiedano un peso o una misura (pane, vino, carni, frutta, ortaggi) solo con la licenza dei catapani (o sovrintendenti) che sono nominati in ogni università. Una figura importante, dunque, nel commercio locale del medio evo, e che ritroviamo spesso nei documenti dell’epoca, è il “catapano”, detto anche acatapanus o superstitis (superstes); il nome deriva «dal linguaggio bizantino in cui nel secolo X e successivi aveva significati molteplici. Talora indicava il supremo comandante militare, o supremo governatore di provincie, e talora anche il capo di qualche servizio o ufficio statale. Dopo la fine della dominazione bizantina in Italia, il termine rimase ad indicare soltanto un funzionario amministrativo e giudiziario locale incaricato della sorveglianza del commercio e del mercato.19». Suo compito era quello di vigilare sulla qualità delle merci, sui prezzi, sulle modalità di vendita, sui sigilli apposti dalla Curia sui pesi e sulle misure. Aveva potere discrezionale sulla variazione stagionale dei prezzi, ma non il potere di sta- bilire l’ammontare delle multe, che erano già indicate nel nostro statuto. Purtroppo non ci è dato sapere con quali criteri veniva nominato il catapano, né in quale ceto sociale fosse individuato; tuttavia è facile presumere che provenisse da ambienti vicini a quello del commercio, vista la perizia di cui doveva dar prova in tale ambito. Tornando al nostro statuto troviamo l’obbligo ai mercanti ed agli ortolani di usare i “rotoli di ferro” (pari a gr. 890) marcati con il marchio ed il sigillo della Curia cassinese (mercatos et signatos merco et signo curie casinensis – art. 27). La quantità delle carni da macellare veniva disciplinata in relazione ai tempi ed alle esigenze (secundum quod tempus exigit et requirit – art. 28 e art. 48) secondo norme non presenti nello statuto, mentre potevano essere poste in vendita solo al peso di un rotolo intero, o metà o un terzo o un quarto (art. 29). Negli articoli da 30 a 39 si definiscono i prezzi delle varie carni differenziandoli a seconda della qualità (si bene pingues oppure si macilentes), dell’età della bestia, della stagione. Naturalmente spettava al catapano stabilire tali caratteristiche. Nell’art. 40 si stabilisce che le carni vengano vendute senza teste e piedi (sine capite et pedibus); questi naturalmente possono essere venduti a parte al prezzo di un terzo di meno. La macellazione deve avvenire alla presenza del catapano o, in sua assenza, di due persone oneste (duorum proborum virorum – art. 41): non ci sono noti, però, i criteri per individuare tali “probiviri”. Le carni di qualità diverse devono essere esposte in macelleria (in buczaria) in contenitori diversi (art. 42) sì da non trarre in inganno il consumatore: la contravvenzione a tale norma comportava la bella multa di due tarì. In caso di carenza di carni in macelleria si consentiva la vendita, ai tavernieri del territorio, di un quantitativo massimo di due rotoli (art. 43); ciò per evitare che i cittadini ne rimanessero sprovvisti. A quest’ultimo proposito va ricordato che per la mancanza di adeguati mezzi di conservazione – l’unico mezzo conosciuto era l’essiccazione con salatura – la vendita della carne poteva avvenire solo per un tempo limitato e dopo una capillare informazione: dunque non trovare la carne in macelleria dopo l’attesa macellazione significava restarne sprovvisti per un tempo rilevante. Nel nostro statuto, come si vede, è costante la preoccupazione di un’adeguata tutela del cittadino. In tale ambito rientra anche la norma che prevede la vendita di carni malate o di animali morti solo a pezzi interi e fuori le mura della città (extra portam – art. 44), con l’autorizzazione del catapano. Tale divieto viene ripreso all’art. 46 in cui si fa espressa menzione di animali morti o di maiali con la tenia: carnes morticinas seu sorsomerias; quest’ultimo termine, sorsomerius, non si riscontra nei vari dizionari di latino medievale, ma è rimasto in uso tra la gente delle campagne locali fino a tempi recenti: infatti è stato un vecchio contadino del Cassinate a spiegare che il sursumiégliö (voce dialettale) è un maiale affetto da tenia. Considerato che il medioevo fu l’epoca dei privilegi non poteva mancare qual- cosa di simile nella normativa del commercio: l’art. 45 infatti prevede che i macellai facciano uno sconto di due denari su ogni rotolo di carne alla curia cassinese ed ai suoi ufficiali; la pena, in caso di omissione, è di un tarì. Gli articoli da 49 a 53 regolano la vendita ed il prezzo dei pesci. Da essi si possono desumere varietà di pesci dalla difficoltosa identificazione (anticulus, squamus e barius, art. 51) e varietà marine (trella: triglia, surella: suro, palumbus: palombo, tenca: tinca, sarda). Queste ultime possono destare perplessità dal momento che la città di S. Germano sorgeva a circa quaranta chilometri dal mare, e quaranta chilometri in quell’epoca costituivano una bella distanza; al riguardo si puó congetturare che si disponesse di un sistema di scambi commerciali abbastanza agevoli, magari lungo il fiume Garigliano, che nel passato era navigabile20; ma è  più facile ritenere che il nostro statuto, formalmente destinato alla città di S. Germano, fosse, in realtà, esteso a tutta la Terra S. Benedicti, che includeva una buona fascia costiera a ridosso della foce del Garigliano. Ciò che appare strano è la mancanza di riferimenti a pesci di acqua dolce: è nota la pescosità delle acque del Gari-Garigliano fin dai tempi di M. T. Varrone21. Gli articoli da 53 a 59 regolano l’attività delle taverne: l’obbligo di utilizzare solo le misure ufficiali contrassegnate dal sigillo della Curia (art. 54), l’obbligo di vendere il vino solo dopo l’apprezzo del catapano (art. 55), l’obbligo di chiudere la taverna e il divieto di vendere vino dopo il terzo suono delle campane (artt. 56, 57), che di solito annunciava l’inizio della messa, il divieto di tenere aperto l’esercizio nei giorni di domenica e di festività principale prima dell’inizio della messa solenne (art. 58), il divieto di svolgere giochi d’azzardo nelle taverne, con la sola eccezione del vino (art. 59); altre limitazioni, non precisate nello statuto, erano stabilite per la vendita di carne, vino e pesce nel periodo della vendemmia (art. 53). Non potevano mancare norme che regolassero l’attività lavorativa nei giorni di festività religiose, in cui era consentito solo effettuare lavori urgenti e improcrastinabili, quali la vendemmia, la raccolta delle messi o la cura della canapa (art. 61); né potevano mancare gravi sanzioni per le bestemmie (un augustale – art. 64). Ad attenuare i privilegi, di cui si parlava più su, interviene l’art. 62 che fa ricadere sotto i dettami dello statuto anche i Rettori, con le loro famiglie ed i loro ani- mali, sottoposti al giudizio del Vicario cassinese. Gli articoli da 65 a 68 tornano sulla tutela ambientale vietando di estrarre sabbia dai fiumi fuori dei luoghi stabiliti o di gettare letame o rifiuti nei fiumi e sulle strade; obbligano, inoltre, i cittadini a ripulire dalle erbacce le vie adiacenti alle loro proprietà e a spazzare ogni sabato le piazze in prossimità delle proprie abitazioni. Per attuare in maniera concreta la salvaguardia dell’ambiente una norma imponeva, ad ogni università o villaggio della Terra di S. Benedetto, di inviare ogni mese una guardia forestale (foristerius) ad ispezionare il territorio per riferire, ogni quindici giorni, su eventuali danni procurati da uomini o animali (art. 71). Tanto prevalente interesse per la difesa del territorio è ben spiegabile se si pensa che le popolazioni del passato affidavano tutta la loro esistenza ad un ambiente il più possibile benigno: ogni guasto ecologico poteva essere riparato solo dalla stessa natura e nei tempi da questa stabiliti. I mercati si svolgevano nella città ed erano luoghi di scambio, di vendita, di compera, ma allo stesso tempo anche luogo di incontro. Le taverne, antico luogo di ritrovo, erano il centro sociale per eccellenza, il punto focale dove si attingevano notizie, leggende, miti anche dalle terre più lontane22. Anch’esse dovevano seguire delle norme ben precise; ad esempio: restare chiuse dopo il terzo suono delle campane, eccetto casi eccezionali (prevista la multa di 2 tarì) e nei giorni di domenica, di festività principale, degli apostoli, della messa solenne (1 tarì). Nelle taverne era proibito il gioco d’azzardo, eccetto con il vino; i contravventori pagavano 1 tarì di multa, il doppio se ciò avveniva di notte. Nella Terra di S. Benedetto era uso scambiarsi aiuti durante i lavori manuali, specialmente nei campi: tale usanza si è perpetuata fino ai nostri giorni ed è venuta meno con l’introduzione dei mezzi meccanici nei lavori agricoli. La mancanza di scambi manuali era pagata con una multa di 1 Tarì. Lo statuto si conclude con alcuni articoli di carattere giuridico che esulano dall’intento di questo lavoro.

I prezzi
Da un’analisi attenta dello statuto viene fuori una società agricola e cittadina i cui elementi fondamentali sono: l’allevamento del bestiame, la pesca, il commercio e l’agricoltura. La terra e l’economia agraria sono alla base della vita materiale del Medioevo, di conseguenza attraverso tali risorse si manifestava potenza e ricchezza, sia politica che sociale23. Per caratterizzare meglio l’economia rurale di tale società, e per riassumere, appare opportuno fornire una serie di schemi inerenti la produzione agricola e gli allevamenti con relativo listino prezzi.

Prodotti agricoli di S. Germano

Alberi: viti, fichi, ulivi, meli, peri, querce, olmi.
Ortaggi / cereali: cavoli, aglio, grano, avena, biade, canapa, legumi.

Le multe per furti variavano da 1 Tarì a 1/2 Augustale; se il furto avveniva di notte la multa era raddoppiata.

Allevamento del bestiame /pesci

Animali domestici: cavalli, asini, bovini, polli, galline, gallinacci, porci, capre, pecore, piccioni.
Animali selvatici: cinghiali, cervi.
Pesci: trote, sarde, alici, dentici, lacerti, palombi, tinche, triglie.

Vendita delle carni domestiche

Riguardo al prezzario delle carni lo Statuto di S. Germano è molto particolareggiato, con uno scrupoloso listino prezzi: a seconda della qualità, della freschezza, della tenerezza, vi era un prezzo stabilito dai catapani; chi non lo rispettava pagava multe alla Curia. Quando i macellai uccidevano le bestie era necessaria la presenza di alcuni catapani; se per caso non ci fossero stati, allora c’era bisogno di 2 probi viri; chi non avesse ottemperato era punito con una multa di 1 Tarì. In vendita sul mercato c’erano anche le carni “morticine” o malate, ma queste erano vendute fuori la porta della città ad un prezzo inferiore rispetto alla norma, sempre dietro consenso dei catapani. I prezzi relativi alla vendita di alcuni prodotti agricoli, quali le carni, erano diversi a seconda dell’acquirente: infatti la Curia Cassinese con i suoi ufficiali beneficiava di prezzi inferiori rispetto alla norma; i commercianti che non aderivano venivano multati. I macellai dovevano tenere esposte le carni su contenitori separati, a seconda della varietà; esse venivano vendute al rotolo, marcate e contrassegnate dal sigillo della Curia, altrimenti la pena era di 3 Tarì.
Il rotolo aveva i seguenti sottomultipli: 1, 1/2, 1/3, 1/4
Il rotolo di carne non comprendeva la testa ed i piedi dell’animale: chi li voleva comprare li pagava 1/3 del costo della carne; altrimenti c’era 1 tarì di multa.

Tabella dei prezzi
Ragguaglio delle monete e delle misure24

1 libbra di peso = 12 once
libbra napoletana = kg. 0,320
oncia = kg. 0,0267 – 1 oncia d’oro = 30 tarì d’Amalfi = 600 grana
rotolo = kg. 0,890
acino = kg. 0,0000445 = 1 grano
acino (napoletano) = g. 0,0445
augustale d’oro = 1/5 di 1 oncia (kg. 0,00534) fatto coniare da Federico II nel 1231; l’augustale nelle regie zecche era di carati 20 e 1/2 (854/1000) oppure, secondo altri, solo 20 carati (833/1000)
soldo d’oro = 4 tarì
tarì (o tareno) = peso 20 grana; moneta d’oro (poi anche d’argento) di origine araba pari a 1/4 del dinâr d’oro arabo, pari, a sua volta, a 2 carlini napoletani
tarì d’oro (normanno) = 20 acini

 

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Le carni di gallina, polli, piccioni e di altri uccelli domestici e selvatici hanno una variazione di prezzo a seconda del tempo e della richiesta.

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1 – G. SALVIOLI, Storia della immunità delle signorie e giustizie delle Chiese in Italia, vol.II, Napoli 1927.
2 – E. GATTOLA, Accessiones ad historiam Abbatiae Cassinensis, Coleti, Venetiis, 1734, vol. I, pagg. 345-346.
3 – G. RACCIOPPI, Gli statuti della bagliva delle antiche comunità del Napoletano, in Archivio Storico per le Province Napoletane, VI (1881), fasc. I-II.
4 – L. FABIANI, La Terra di S. Benedetto, I, Montecassino, 1968, pag. 384.
5 – G. SALVIOLI, op. cit., II; pag. 269.
6 – Regesti Bernardi I abbatis Casinensis fragmenta, Tipografia Vaticana, 1980.
7 – Regesto II di Bernardo Abate, a. 1273, manoscritto inedito in Archivio di Montecassino.
8 – ibid., pag. 77; G. CHIALVO, Diritti di traghetto in un documento cassinese, estratto da “Il diritto marittimo”, s. l. agosto-ottobre, 1936
9 – L. FABIANI, op. cit. pag. 398.
10 – Ibid.
11 – M. INGUANEZ, “Frammento di uno statuto di Pontecorvo del secolo XIII”, in “Studi di Storia e Diritto in onore di Carlo Calisse” vol. III, 1940, pagg. 121-125.
12 – Statuto di S. Germano, premessa.
13 – Op. cit., I, pag. 400.
14 – Ibid.
15 – Ibid.
16 – Op. cit., I, Appendice, doc. n. 13, pag. 456 sgg.
17 – P. SELLA, Statuto di Cassino degli anni 1285-1288, in “Casinensia”, vol. I, Montecassino, 1929; pagg. 184-185.
18 – J. LE GOFF, La società nell’occidente medievale, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1981.
19 – L. FABIANI, op. cit., pag. 195, nota 57; si veda anche V. FEDERICI, Gli statuti di Pontecorvo, in “Miscellanea Cassinese”, 10, Montecassino, 1932, pag. XXI.
20 – Si ricorda l’invasione dei Saraceni dell’846, quando risalirono il fiume con le loro imbarcazio- ni fino ad avvistare l’abbazia di Montecassino, che fu salva solo grazie all’intervento di S. Apollinare: Chronicon Cass. I, 27.
21 – M. T. VARRONE, De re rustica, III, 4, 5.
22 – J. LE GOFF, cit.
23 – J. LE GOFF, La società occidentale nel medioevo…, cit.
24 – V. DE ROSA, Tavole di Ragguaglio delle misure napoletane comuni e delle consuetudinarie capua- ne con il sistema metrico decimale, Di Bernardo Edit., 1977; N.F.FARAGLIA,  Storia dei prezzi in Napoli dal 1131 al 1860, Napoli, 1878; L. EUSEBIO, Compendio di metrologia universale e vocabo- lario metrologico, Torino 1899, rist. anast. Forni, Bologna, 1967; G. CASTELLANI, in Enciclopedia Italiana, sub voce augustale.

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