Da ‘Pescolocascio’… a Montecassino con David Herbert Lawrence


Print Friendly, PDF & Email

.

Studi Cassinati, anno 2017, n. 4
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
> Scarica l’articolo in pdf
.

di C. Jadecola

.

Era quasi il finire degli anni Sessanta del secolo scorso quando mi capitò di leggere L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence, fino a qualche anno prima al bando in tutta Europa per via degli espliciti riferimenti a situazioni di natura sessuale, in cui si racconta la storia di una nobildonna, Lady Chatterley, consorte di un uomo di pari rango reduce della Prima Guerra mondiale, nel corso della quale era rimasto paralizzato, che aveva una relazione con un certo Mellors, un guardiacaccia, il tutto ambientato in un distretto industriale dell’Inghilterra del nord.

E fu proprio questa localizzazione che mi tornò alla mente quando, tempo dopo, agli inizi degli anni Settanta, dovevo scrivere un articolo per il mensile «Ciociaria settanta»1 nel contesto di un’inchiesta dal titolo Viaggio nell’altra Ciociaria che aveva come tema la valle di Comino.

D. H. Lawrence e la moglie Frieda von Richtofen.

D. H. Lawrence e la moglie Frieda von Richtofen.

Ma perché? Perché il tema che dovevo sviluppare era Picinisco e siccome Lawrence era stato da queste parti il riferimento mi sembrò compatibile con ciò che volevo raccontare, ovvero quello che ritenni essere l’unico fatto nuovo che caratterizzava una realtà per il resto immutata nel tempo: un albergo di nuova costruzione sul colle Santa Croce.

Tale novità, ma soprattutto la sua collocazione, mi suggerì di scrivere quello che poi scrissi: «Aleggia su Picinisco la storia d’amore fra Costanza Chatterley ed il guardiacaccia Mellors narrata da David Herbert Lawrence in quell’appassionante romanzo che molti anni fa provocò clamorosi processi e scandali altrettanto clamorosi ma nel quale oggi tutti riconoscono un classico della letteratura inglese del Novecento: Lady Chatterley’s lover, da noi L’amante di Lady Chatterley. Non è frutto di fantasia o, almeno, non completamente. In uno dei suoi numerosi soggiorni italiani, infatti, Lawrence venne anche qui, a Picinisco, in compagnia della moglie, la baronessa Frieda von Richtofen, alla ricerca di ispirazione e di un clima salubre – fu nel 1919 e lo scrittore inglese soggiornò in contrada Serre presso l’amico Orazio Cervi, come mi informa Vincenzo Arcari, autore di una pubblicazione su Picinisco,e niente esclude che scrivendo poi la vicenda erotico-sentimentale di Costanza Chatterley egli non abbia tenuto presente questi luoghi incontrati nel suo peregrinare ed anche certi tipi umani come il guardiacaccia Mellors.

4 Jadecola 2

Picinisco. Il Diana Park Hotel in uno schizzo del tempo.

«Nella zona, in territorio di Settefrati, un tempo vi erano delle miniere. Ebbene, anche da Wragby Hall, ‘la vecchia casa lunga e bassa’ che ‘sorgeva su un’altura, nel mezzo d’un vecchio parco di querce’, dove il romanzo è ambientato, si vedevano a breve distanza il fumaiolo della miniera di Tevershall con le sue nubi di vapore e di fumo e, nella lontananza umida e velata della collina, il villaggio di Tevershall, spoglio e disperso che cominciava quasi alle porte del parco…’.

«E poi, anche a Picinisco è possibile incontrare un ‘vecchio parco di querce’ proprio poco discosto dall’abitato, come Wragby Hall, al centro del quale sorge un grosso complesso alberghiero, con piscina e campo da tennis, voluto dall’ing. Carlo Alberto Mancini e che solo le difficoltà derivanti dalla chilometricità del nome hanno impedito che si chiamasse ‘Parco delle mille querce’ lasciando propendere verso il più orecchiabile ‘Diana Park Hotel’»2.

Che Lawrence si fosse ispirato ad uno scorcio di Picinisco per l’ambientazione del suo romanzo più noto fu, allora, solo una mia fantasia, ripeto del tutto priva di fondamento, che, tuttavia, ebbe il suo peso quanto meno nelle relazioni con l’appena ricordato ing. Mancini, che da uomo colto e di mondo quale era, ne apprezzò lo spirito anche in relazione a quella sua iniziativa turistico-alberghiera che, posta sulla strada per Prati di Mezzo, era destinata a supporto logistico di questa stazione sciistica a quel tempo sulla cresta dell’onda.

Se non era stato per L’amante di Lady Chatterley, in realtà, però, questi luoghi a Lawrence qualcosa avevano pur detto se, durante quella sua permanenza, egli trasse proprio da questi scorci quello stimolo che fu determinante per portare a termine un lavoro cui aveva messo mano per la prima volta almeno sei anni prima, La ragazza perduta: la storia di Alvina, una ragazza inglese di buona famiglia, che gradualmente scredita la sua posizione sociale legandosi a Ciccio, «un sudicio sonatore d’organetto italiano»3 che cercava di sbarcare il lunario lavorando in una compagnia di girovaghi, il quale, allo scoppio della Prima guerra mondiale, è costretto a lasciare l’Inghilterra per far ritorno in patria.

Alvina ne condividerà la sorte seguendolo nel suo paese d’origine, Picinisco, dove, le aveva detto Ciccio, era proprietario di «un pezzetto di terra antica e mezzo incolta, lasciata in eredità a sua madre dal vecchio Francesco Califano, che era stato un forte lavoratore. Questa terra faceva parte dell’intera proprietà e veniva lavorata da due zii, Pancrazio e Giovanni. Pancrazio era lo zio ricco che aveva fatto il modello e costruito la ‘villa’. Giovanni non era gran che»4.

Ma com’è che Lawrence e sua moglie Frieda capitarono da queste parti?

Orazio Cervi.

Orazio Cervi.

Il tutto nasce dalla ‘vocazione’ della nostra gente alla ricerca di che sopravvivere in terre anche molto lontane, costi quel che costi. Ovvero, disposti a far tutto pur di dare un senso ad una vita che, restando qui, non avrebbe alcun senso. E allora si parte. Si parte e si scopre, tra l’altro, che anche le fattezze del proprio corpo sono una qualità da poter sfruttare in una Londra tardo vittoriana dove pittori e scultori mostrano di apprezzare molto quelle di questi giovani giunti dall’Italia.

Tra gli altri, ce n’è uno in particolare che riesce a farsi strada. Si chiama Orazio Cervi ed è arrivato da Picinisco, una terra di montagna e di fatica ai confini con l’Abruzzo e lontana dai grandi centri, dov’era nato, alle Serre, nel 1854 e dove poi sarebbe morto, 88 anni dopo, nel 1942. E fra queste due date, oltre quelli dei luoghi natali, scorci del Nord Europa, Parigi e, appunto, Londra.

«Forte dei suoi sedici anni emigrò, in compagnia di un amico e di una scimmietta, per suonare l’organetto nelle strade del Nord Europa»5. Anni dopo, quando aveva venticinque anni, lo troviamo a Parigi, dove abitava al numero 13 di Rue de la Grande-Chaumière e faceva già il modello dal momento che è in tale veste che risulta registrato quale testimone alle nozze di due conterranei di Gallinaro, Ferdinando Apruzzese e Maria Carmela Caira, lei non solo modella ma anche fondatrice della Académie Carmen operativa a Parigi tra il 1898 e il 19016.

Poi, da Parigi a Londra, dove, «notato per la sua ‘figura esile’ ed altera’»7, posa per artisti come Frederic Leighton, John Everett Millais, Lawrence Alma Tadema e sir William Hamo Thornycroft, tra le cui opere modellate su Cervi si ricordano The Mower (Liverpool, National Museums) e The Sower (Londra, Kev Gardens).

Infine, il ritorno a Picinisco dove, appunto, nel 1889 nel suo villaggio di origine si era fatto costruire una «villa» in stile vittoriano compatibilmente agli usi locali.

Picinisco. 'Villa Cervi' verso la metà degli anni '90 del secolo scorso.

Picinisco. ‘Villa Cervi’ verso la metà degli anni ’90 del secolo scorso.

Di questa sua nuova residenza Orazio ne aveva sicuramente parlato ai suoi amici inglesi, così come aveva parlato loro del suo paese natale e delle sue montagne, tant’è che la figlia dello scultore Hamo Thornycroft, Rosalind, di recente divorziata, desiderando allontanarsi per qualche tempo dall’Inghilterra insieme ai suoi figli, non aveva escluso di poterlo raggiungere. Orazio, però, che ben conosceva le abitudini degli inglesi, si preoccupò subito di far sapere all’amica che forse la sua casa non era adatta per ospitarla e lo fece giusto in tempo perché questa potesse incaricare Lawrence, che stava per partire con Frieda per il suo primo viaggio postbellico in Germania e in Italia, di verificare la situazione e di riferirle.

E così fu. David Herbert e la moglie Frieda, soggiornarono in casa Cervi secondo alcuni per due settimane a partire dal 5 dicembre 1919, secondo altri tra il 10 e l’11 dicembre e la vigilia di Natale e secondo altri ancora dal 13 al 22 dicembre.

È certo, invece, che partirono da Roma viaggiando in treno fino a Cassino, da dove in corriera raggiunsero Atina per poi proseguire parte del viaggio su un carro trainato da un asino e parte a piedi e arrivare a destinazione che era ormai notte da tempo. Così come pare che a far anticipare la fine di quella ‘vacanza’ sia stata una violenta nevicata che si sarebbe protratta per tutto il sabato precedente il Natale tant’è che il lunedì successivo i Lawrence si svegliarono nelle prime ore del mattino per muoversi dalle Serre ancor prima del sorgere del sole, raggiungere a piedi Atina e quindi, ma in corriera, la stazione di Cassino dove presero il treno per Napoli. Qui si imbarcarono su un traghetto diretto a Capri riuscendo, però, ad approdare sull’isola solo dopo varie peripezie a causa del mare mosso.

4 Jadecola 5

Orazio Cervi con la moglie Maria D’Agostino e i figli Giovannino, Assunta, Olivia e Giustino in una foto alle Serre del 1930 (Collezione Giustino Ferri; g.c. Luciano Caira).

Durante la ‘vacanza’ in casa Cervi, oltre a farsi un quadro della situazione che lo scrittore utilizzerà come sfondo nel racconto delle vicende capitate alla ‘ragazza perduta’, i Lawrence non tralasciarono di visitare le zone più prossime alla loro dimora nonché Atina, Picinisco e Villa Latina che meriteranno anch’essi adeguata attenzione nel dipanarsi nella storia di Alvina e di Ciccio ancorché con ‘nomi d’arte’: Atina, infatti, sarà «Ossona», Picinisco, «Pescolocascio» e Villa Latina, «Casa Latina». E già il 16 dicembre lo scrittore sarà in grado di poter onorare l’impegno preso con Rosalind scrivendole in questi termini: «Si tratta di luoghi incredibilmente primitivi. Attraversi il grande letto di pietra di un fiume, poi, su una tavola, un fiume ghiacciato, quindi scali sentieri impraticabili, mentre l’asino arranca dietro con il tuo bagaglio. La casa è composta al piano terreno da una cucina che sembra una spelonca; gli altri vani sono una cantina per il vino, un locale per il grano ed un altro locale ancora; al piano di sopra ci sono tre camere, ed un piccolo granaio per le pannocchie di granturco … Tutto deve essere cucinato in modo zingaresco nel camino su un fuoco di legna e si mangia seduti su di una panca davanti al fuoco di una cupa cucina con il cibo sulle ginocchia … Le galline vagano per la casa, l’asino è legato alla porta, fa i suoi bisogni sulla soglia e raglia con la testa fuori. Gli abitanti del luogo vestono abiti da briganti con sandali di pelle e le gambe fasciate con bende bianche strette da cinghie di cuoio (in pratica, le ciocie, nda); le donne una specie di corpetto svizzero e camicie bianche con maniche ampie – molto affascinanti – parlano un dialetto del tutto incomprensibile e per niente in italiano. Il paese è distante due miglia e si raggiunge con un’arrampicata a picco mancando una strada qualsiasi.

«Al momento c’è un gran trambusto di cornamuse sotto la finestra, una specie di ballata selvaggia ululata, assolutamente astrusa: è la serenata di Natale. Adesso ci sarà tutti i giorni, fino a Natale (nel romanzo al riguardo si parla del «lagno d’una zampogna, e [di] una voce acuta d’uomo che per metà cantava e per metà gridava una breve strofa, al termine della quale si levava lo squillo lacerante di uno strumento di canna»8, nda)

Poi la chiusa: «Penso che qui ti divertiresti; ma che dire dei bambini? È fuori della loro portata. Non c’è niente che si avvicini ad un bagno: devi lavarli in una grande pentola di rame, in cui cuociono il cibo per il maiale».

Circa tre quarti di secolo dopo questi “momenti di gloria”, quando intorno alla “villa”, «entro i confini del muricciolo di pietra c’era stato un giardinetto»9 che, però, i polli, le oche e l’asino avevano distrutto, il suo “status” appare decisamente peggiorato. Abbandonata a sé stessa e quasi del tutto sepolta dalla vegetazione, conserva, tuttavia, «a dispetto del tempo e dell’incuria, il suo aspetto imponente, che la distingue dalle altre costruzioni del territorio circostante»: lo scrive, in un interessante articolo – il cui titolo dice tutto: La ragazza perduta, la casa anche – Anita Monti che, peraltro, incuriosita, non manca di dare una guardatina all’interno della “villa” «dopo essersi aperto un varco tra le erbacce. Traversata la soglia, il corridoio conserva il pavimento in pietra, le tracce di attrezzi agricoli e residui di granaglie: in fondo ‘la scala di legno grezzo’ è rimasta la stessa dai tempi di Lawrence. La cucina, a destra, conserva le pareti scure, il soffitto bellissimo a volta e una credenza degli anni venti fatiscente, le finestre con le sbarre, incassate nei muri. Lo stesso interno che fa pronunciare ad Alvina ‘ragazza perduta e stupita’: ‘È una stanza bellissima’. Sul pavimento lercio, tracce di utensili smaltati, gli stessi, forse, che Pancrazio offre ai suoi ospiti per la permanenza nella sua villa.

«Salite le scale, percorse da un passamano che ha conosciuto tempi migliori, su un ballatoio si affacciano due stanze, una con il camino, costruito, come attestano le lettere e il romanzo, durante la permanenza dei coniugi Lawrence, Alvina e Ciccio»10.

Al di là di ciò che si è detto, nel racconto di Lawrence, tornano anche altri scorci dei nostri luoghi e certi aspetti dei nostri costumi che vennero fissati allora dallo scrittore.

Decisamente originale la descrizione di quella pianura «che si addentrava tra le montagne come un golfo, in una gola di ripidi pendii» nella quale, a un certo punto, il treno, proveniente da Roma, si addentrò e «apparve una città»11, Cassino, che appena dopo si manifestò con «il grande piazzale deserto dietro la ferrovia dov’erano in attesa due grossi autobus piuttosto sudici e una fila di carrozze scoperte»12. C’è da giurare che almeno uno dei due fosse della Sacsa, la società che da cinque anni gestiva il collegamento con Sora attraverso la valle di Comino con vetture costruite dalla Casa Sauer (Svizzera)13, e del quale poi si serviranno Alvina e Ciccio per raggiungere Ossona; per la cronaca, l’altro autobus, invece, era «diretto a Mola»14.

Mentre «il sole era già basso sulle cime delle montagne e le ombre si allungavano sulla pianura»15, una volta che la corriera è partita e corre ormai «lungo la strada bianca e diritta, che tagliava il terreno coltivato, salendo verso l’interno montuoso», ecco che l’attenzione dei passeggeri viene attratta da ciò che scorgono a margine della strada dove «i contadini ravvolti nei mantelli e le donne con le lunghe gonne e i corpetti bianchi dalle maniche larghissime, camminavano conducendo lungo la proda erbosa le mucche o le capre, o guidando asinelli stracarichi. Le donne avevano sul capo fazzoletti a colori vivaci…»16.

Né meno pittoresco è il racconto di Lawrence sul «mercato di Ossona», allora come oggi, di lunedì. «Nella luce dell’alba le montagne erano meravigliose, color verde cupo e malva e rosa, e il terreno duro di gelo risonava sotto i passi. Da tutte le strade scendevano a frotte i contadini diretti al mercato, le donne coi loro abiti migliori, alcuni di seta grossa e pesante, i corpetti dalle maniche bianche arricciate, le gonne verdi, lavanda, rosso scuro, e i fazzoletti variopinti in capo; gli uomini ravvolti nei mantelli, silenziosamente calzati con sandali di pelle dalla punta sottile; e asinelli carichi, carri pieni di gente, una mucca ritardataria.

«In cima al passo, nel mezzo dell’antica cittadina, il mercato era bello, in quella gelida mattina soleggiata. Tra gli alberelli nudi che rizzavano sulla radura, alta sopra la valle profonda, stavano sparsi i buoi, le mucche, le pecore, i maiali, le capre, alcuni in piedi, altri sdraiati. Qualcuno aveva acceso grandi fuochi di sterpi, e gli uomini vi si affollavano intorno per sfuggire alla fredda aria azzurrina. I somari carichi venivano alleggeriti delle verdure, dai minuscoli carretti usciva ogni specie di merce, stivali, pentole, utensili di stagno, cappelli, dolciumi e mucchi di grano, fagioli e sementi. Alle otto di quel mattino di dicembre il mercato era nel suo pieno fervore, e vi era una gran folla di robusti montanari, tutti contadini e quasi tutti in costume, con cappelli e acconciature d’ogni foggia»17.

Era, invece, una domenica mattina, «poco prima di Natale», quando i protagonisti del romanzo si recano per la prima volta a «Pescolocascio»: «Il villaggio era meraviglioso, costruito sul ciglio d’una altura nel mezzo dell’ampia vallata. Sotto la strada maestra si stendeva la valle con le sue colline accavallate e i due fiumi chiusi tra le pareti delle montagne in uno spazio abbastanza ampio e tuttavia prigionieri. La neve luccicava al sole. Ma le cavità più profonde erano scure». Poi, al ritorno, «ridiscesero passando accanto alle case distrutte dal terremoto», quello, per intenderci, della Marsica del 13 gennaio 191518.

È marzo ormai quando Alvina decide di andare da sola a Casa Latina per impostare delle lettere: «Dove erano case la strada diventava deprimente. Perché le case avevano l’aria sordida, sudicia e sgangherata che hanno senza eccezione tutte le case affacciate sulle strade maestre italiane. Erano mal dipinte di verde, e tutte a chiazze, come lebbrose. Quei muri le davano un senso di paura, ma Pancrazio le disse che tutto dipendeva dal solfato di rame sparso sulle viti rampicanti»19.

I riferimenti, naturalmente, non finiscono qui perché, negli ultimi tre capitoli de La ragazza perduta, di tracce riferite al territorio è possibile scovarne ancora: dai non dimenticati «carri e due ruote» al carrettiere che «emetteva strani suoni all’indirizzo»20 dell’animale che trainava il carro per spronarlo; dalla «grande padella rotonda piena di brace che pareva una pozzanghera di fuoco»21, i nostri bracieri, alla classica panca posizionata di fronte al camino:«una specie di sedile di legno con schienale voltato verso la stanza»22 che creava una situazione che anche Lawrence ebbe occasione di sperimentare: «sebbene davanti al fuoco fosse molto caldo, dietro si gelava»23. E, poi, il materasso «imbottito di foglie secche di granturco, di quelle che ravvolgono le pannocchie»24 e le ghiande «grandi e belle» che «costituivano una messe preziosa, in quel paese dove il maiale ingrassato era quasi oggetto di venerazione»25.

I riferimenti non finiscono qui. Tra gli altri, non può ignorarsi, in ultimo, quello alla stazione di Cassino in Mare e Sardegna (dicembre 1921) e dal cui contesto si capisce che la situazione non è nuova per Lawrence visto che è già passato da queste parti almeno a dicembre del 1919 quando si era recato a Picinisco o, se volete, a «Pescolocascio»26. Scrive: «… Metà del viaggio è già passata. Ma guarda, ecco là il monastero sul suo alto colle! In un momento di follia propongo di scendere e di passare la notte a Montecassino per vedere l’altro amico nostro, il frate che sa tanto del mondo, pur vivendone fuori. Ma la a-r (l’ape regina, cioè Frieda von Richthofen, nda) rabbrividisce pensando al freddo terribile che deve esserci d’inverno nel massiccio monastero di pietra affatto privo di riscaldamento. Perciò l’idea è scartata e alla stazione di Cassino scendo soltanto per provvederci di caffè e dolci. Ci sono sempre cose buonissime alla stazione di Cassino: d’estate grossi gelati, frutta e acqua ghiacciata, d’inverno dolci squisiti che completano magnificamente un pasto»27.

Ma chi è «il frate che sa tanto del mondo, pur vivendone fuori»?

Don Bernardo Paoloni.

Don Bernardo Paoloni.

Lawrence ne fa cenno anche in un altro suo lavoro, Libri di viaggio e pagine di paese, dove, nella ‘Introduzione’ alle ‘memorie della Legione straniera’ di Maurizio Magnus28 parla, appunto, di un «Don Bernardo» la cui figura rimase impressa nella sua mente: «un frate alto, con una bella tonaca nera, giovane, di bell’aspetto, cortese, venire avanti con un rapido sorriso. Aveva press’a poco la mia età, e i suoi modi parevano vivaci e controllati, quasi fosse ancora uno studente. Ci si sentiva come in collegio, tra compagni»29.

Tutto lascia supporre che possa trattarsi di don Bernardo Paoloni30, un dinamico monaco scienziato che lasciò traccia di sé nel campo meteorologico -in particolare sullo studio dell’elettricità atmosferica per le previsioni a lungo termine- il quale, succedendo all’abate d. Giuseppe Quandel, che ne era stato il fondatore, fu direttore dell’Osservatorio Meteorologico di Montecassino di cui fece in breve tempo uno dei più importanti e attivi centri italiani di ricerca31.

Quanto ad una visita a Montecassino, Lawrence contava evidentemente di farla in occasione del suo soggiorno a Picinisco. «Ma tra i monti il freddo era gelido e c’era la neve; era intollerabile. Fuggimmo più a sud, a Napoli, e a Capri. Nel passare, vidi il monastero, appollaiato lassù, famoso in tutto il mondo; ma era impossibile andare a visitarlo, in quel momento»32.

Montecassino. L'osservatorio meteorologico.

Montecassino. L’osservatorio meteorologico.

Lo farà, però, tempo dopo quando salirà a Montecassino per incontrare il suo amico Maurizio Magnus, un giornalista nordamericano che pensa di rifarsi una vita vestendo l’abito benedettino. Diviso dalla moglie ed in bolletta, tra le poche cose che ha portato c’è il dattiloscritto delle Memorie della legione straniera per la cui introduzione ha pensato all’amico Lawrence che proprio in queste pagine parlerà della sua breve permanenza nel cenobio cassinese dove, tra le altre sensazioni che registra, è soprattutto il freddo che si soffre al suo interno. Del resto, quando vive questa esperienza era gennaio, quando, cioè, inevitabilmente, «tutto il calore dell’estate se n’era andato dalle enormi, immense muraglie di pietra, diventate masse di gelo, le quali ci circondavano»33.

Ma veniamo al suo approccio col monastero.

«C’è un lungo tratto di strada in salita dalla stazione al monastero. Il cocchiere mi parlava. Evidentemente ce l’aveva coi frati.

«‘Una volta’, disse, ‘se si andava al monastero, offrivano un bicchier di vino e un piatto di maccheroni. Ma adesso vi mandano via a calci.’

«‘Davvero?’feci io. – ‘Pare incredibile’.

«‘Vi buttano a calci fuori dal cancello’ vociò.

«Salivamo intorno alla selvaggia montagna; ci lasciammo dietro l’antico castello, l’ultima villa, passando tra alberi e rocce. Non vedemmo nessuno. Tutta la montagna appartiene al monastero. Finalmente, al crepuscolo, svoltando, oltre il bosco di querce, vedemmo il monastero, simile a un’enorme fortezza del sedicesimo secolo che coronava la vicina lontananza»34. Poi, qualche accenno ad alcuni particolari che, nonostante tutto, hanno il sapore dell’attualità: «Salimmo il pendio, sotto l’ingresso immenso, simile a una galleria, ed entrammo nel cortile erboso, cinto, in fondo, da un porticato, con due o tre alberi»35; «Andammo furtivi, in punta di piedi, da altare a altare, per la chiesa buia (…). Scivolammo nel presbiterio ed esaminammo i bizzarri bimbi grassocci degli stalli del coro, scolpiti in legno, tondeggianti (…). Poi scendemmo nella cripta, dove i moderni mosaici brillano di meravigliosi colori, e qua e là con piccoli, affascinanti alberi e uccelli. Ma pareva quasi una scena di teatro»36; «Andammo nel cortile del Bramante, interamente di pietra, col gran pozzo nel mezzo, e i colonnati dei portici tutt’in giro, pieno di sole, allegro, rinascimentale, un po’ troppo adorno, eppure così allegro e gaio (…). Ci arrampicammo nella piccola torre di guardia, che adesso è un osservatorio»37; «Visitammo l’antica cella, sotto il monastero, dove ebbe inizio ogni santità. Visitammo l’immensa biblioteca che appartiene allo Stato, e la biblioteca più piccola che appartiene ancora all’abate»38.

Ma non solo di questo parla Lawrence. Eloquente, ad esempio, quello sguardo sul variegato mondo «sotto di noi» visto dall’«ultimo baluardo dell’antico mondo». E se qui «eravamo nel Medio Evo», «laggiù erano la democrazia, l’industrialismo, il socialismo, la bandiera rossa dei comunisti e il tricolore bianco, rosso e verde dei fascisti. Laggiù era un altro mondo. E che amaro, arido mondo! Arido come le scorie di carbone sul binario, con le due rotaie d’acciaio»39.

Ma per lo scrittore entrambi quei mondi «erano angosciosi. Ma qui, in vetta alla montagna, era l’angoscia peggiore: il passato, l’amarezza pungente del passato non del tutto morto»40.

.

.

NOTE

1 Fondato e diretto da chi ha scritto questo articolo, era un ‘mensile di attualità, costume e folk ciociaro. Il primo numero uscì a gennaio del 1971. L’ultimo, il numero 18, nel mese di giugno del 1972.

2 Jadecola C., Con realtà verso un’era turistica, in «Ciociaria settanta», a. I, n. 10, ottobre 1971, p. 10.

3 Lawrence D. H., La ragazza perduta, Oscar Mondadori, Milano 1980, p. 467.

4 Ivi, p. 431.

5 Caira L., Orlandi V., Valle di Comino… appena ieri, Edizioni Albatros, Gaeta 1996, p. 141.

6 Erario C., Beranger E. M., Académie Vitti 49 Boulevard du Montparnasse Paris. La storia e i protagonisti (1889-1914), Museo Académie Vitti, Atina 2015, pp. 16-17.

7 Caira L., Orlandi V., Valle di Comino … cit., p. 141.

8 Ivi, p. 460.

9 Ivi, p. 452.

10 Monti A., La ragazza perduta, la casa anche, in «Lazio ieri, oggi, domani», a. II, n. 4, luglio-settembre 1994, pp. 68-69.

11 Lawrence D. H., La ragazza perduta … cit., p. 432.

12 Ivi, p. 433.

13 Jadecola C., La prima volta … in corriera, in «Studi Cassinati», a. XVII, n. 2, aprile-giugno 2017.

14 Lawrence D. H., La ragazza perduta … cit., p. 434.

15 Idem.

16 Idem.

17 Ivi, pp. 455-456.

18 Ivi, p. 466.

19 Ivi, pp. 472-473.

20 Ivi, p. 437.

21 Ivi, p. 439.

22 Ivi, p. 443.

23 Ivi, p. 445.

24 Ivi, p. 446.

25 Ivi, p. 450.

26 Jadecola C., Sprazzi di gloria per una nobile decaduta, in «Studi Cassinati», a. XIII, nn. 1-2, gennaio-giugno 2013.

27 Lawrence D. H., Libri di viaggio, I libri della Medusa. Serie ’80, volume XXIV, Mondadori, Milano 1981, pp. 231-232.

28 Un ringraziamento a Mario Riccardi e Luciano Caira della Biblioteca comunale di Atina per la consueta sensibilità.

29 Lawrence D. H., Libri di viaggio e pagine di paese, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1961.

30 Un doveroso grazie a don Mariano Dell’Omo, O.S.B., per la cortesia e la disponibilità.

31 Nato a Cascia nel 1881 e morto a Perugia nel 1944, dal 1905 era monaco di Montecassino. Responsabile dell’Osservatorio meteorologico dal 1908, nel 1920 fondò la rivista La Meteorologia pratica e, nel 1928, il Servizio Radioatmosferico Italiano. Nominato l’anno dopo da Guglielmo Marconi membro del Comitato Nazionale delle Ricerche, nel 1931 si trasferisce a Perugia, nel monastero di S. Pietro, dove fonda l’Istituto meteorologico. Di lui ha scritto F. Di Giorgio, D. Bernardo Paoloni: monaco cassinese, scienziato nel campo delle radio telecomunicazioni, precursore della meteorologia moderna e della navigazione aerea, in «Studi Cassinati», a. XIV, n. 2. aprile-giugno 2014.

32 Lawrence D. H., Libri di viaggio e pagine di paese … cit., p. 423.

33 Ivi, p. 430.

34 Ivi, p. 427.

35 Ivi, p. 428.

36 Ivi, p. 432.

37 Ivi, p. 435.

38 Ivi, p. 436.

39 Ivi, p. 442.

40 Ivi, pp. 442-443.

.

.

(894 Visualizzazioni)