Esperia 1860: cafoni e galantuomini in lotta per la terra


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Studi Cassinati, anno 2010, n. 1
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di Fernando Riccardi


Nel 2011 si festeggerà alla grande (e con enorme sperpero di denaro pubblico) il 150° anniversario dell’unità d’Italia.
Un numero consistente di storici e di intellettuali ha firmato un manifesto con il quale si chiede una rievocazione più rispondente alla realtà storica.
Dubito fortemente che la cosa venga recepita. Per quel che mi riguarda quell’appello l’ho già fatto mio. E non certo da oggi.
Ciò non vuol dire, come pure qualcuno pensa, cullare nostalgie restauratrici o disconoscere l’unità della nazione.
Significa, invece, vedere gli accadimenti nella loro reale evoluzione, facendo parlare carte e documenti che molto difficilmente mentono. Precisato ciò, e di questi tempi è più che mai doveroso, veniamo al nostro argomento.
Garibaldi, sbarcato in Sicilia, aveva radunato attorno a sé un un gran numero di contadini e di braccianti agricoli.
Risalendo velocemente lo Stivale in direzione di Napoli quella massa di persone si infoltiva sempre di più.
Perché quei contadini siculi, calabresi e lucani presero a seguire così in tanti il generale? Per quale motivo lasciarono le famiglie e i focalari incamminandosi verso l’ignoto? In gran parte era povera gente, analfabeta, abbrutita da anni di duro lavoro.
In molti non avevano mai messo il naso al di fuori del loco natio. Eppure, ciò nonostante, avevano deciso di compiere il grande passo.
E tutto ciò per una cosa sola: la terra.
Quella terra che non avevano mai posseduto, che apparteneva sempre ad altri e sulla quale avevano versato litri e litri di amaro sudore. Per la terra volevano combattere e persino morire. Per la terra erano disposti a prendere ordini da quei soldati venuti da lontano che parlavano una strana lingua.
Garibaldi, del resto, era stato molto chiaro: la terra sarebbe stata ridistribuita e ogni contadino avrebbe avuto il suo bel pezzo da coltivare.
Finalmente si sarebbe potuto lavorare e sudare sulla propria terra. Una rivoluzione epocale che fece breccia nel cuore duro di quella povera gente. Il sogno di una vita stava per trasformarsi in realtà. Di Garibaldi ci si poteva fidare. Tutto il resto contava assai poco. Che si facesse pure l’unità l’Italia. La cosa era indifferente o quasi.
Il generale aveva promesso loro la terra ed essi lo avrebbero seguito pure all’inferno se fosse stato necessario. Figurarsi poi a Napoli. Un’impresa da ragazzi.
E in effetti Garibaldi, quasi senza colpo ferire, viaggiando in treno come un turista, il 7 settembre del 1860 fece il suo ingresso nella capitale del sud.
Il giorno prima il re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia di Baviera si erano spostati, via mare, nella munita fortezza di Gaeta.
Il più, dunque, era fatto. La partita era vinta. Tutto si era svolto rapidamente, secondo le più rosee previsioni. Adesso si doveva solo passare all’incasso. I contadini avevano seguito numerosissimi il generale. Lo avevano portato a Napoli in trionfo. Ora le promesse dovevano essere mantenute. Quella rivoluzione doveva essere messa in atto.
Ognuno avrebbe avuto il suo pezzo di terra, sarebbe stato padrone del suo lavoro.
E, invece, quelle promesse rimasero solamente tali. La terra fu ridistribuita ma neanche un acro toccò ai contadini del sud. Si dissolse la proprietà ecclesiastica, sparirono le terre demaniali ma i “bracciali” rimasero a bocca asciutta.
Erano stati ingannati ancora una volta, presi in giro, gabbati alla grande. Furono i signori, i galantuomini, i già ricchi borghesi a beneficiare di tutto quel ben di Dio. Furono essi ad accaparrarsi le terre del meridione diventando ancora più ricchi. Altro che rivoluzione, altro che terra ai contadini. Per loro non restava che fame, miseria e disperazione. E se prima non se la passavano bene ora stavano di gran lunga peggio.
Non potevano andare più a fare la spiga o a raccogliere legna sulle terre demaniali che erano state usurpate dal “signor padrone”.
Certo egli aveva bisogno di braccia possenti, di una torma di cenciosi contadini per far fruttare le sue proprietà.
Un pezzo di pane nero e una misera brodaglia ci sarebbe sempre stata per chi era disposto a spezzarsi la schiena sulla terra del padrone. Forse si era trattato solo di un sogno. Forse quel generale di rosso vestito venuto ad offrire la terra ai cafoni del sud non era mai esistito. Adesso bisognava tornare alla dura realtà, riprendere la misera vita di un tempo, senza prospettive e senza speranza.
Quel sogno era stato bello ma ora tutto era svanito. Bisognava tornare a spellarsi le mani zappando le zolle del padrone. O forse no. Un’altra strada c’era. Quello non era stato solo un sogno. Quelle promesse le avevano sentite in tanti. E in tanti avevano indossato la camicia rossa. Non si poteva tornare alla vita grama di un tempo. Non era giusto. Essi, in fin dei conti, volevano soltanto un misero pezzetto di terra.
Garibaldi aveva dato la sua parola e per un cafone la parola vale quanto un contratto. Adesso avevano cambiato le carte in tavola e quella parola era stata calpestata. Ma per loro valeva sempre. La terra era la loro stessa vita. E se non si riusciva ad averla con le buone allora avebbero tentato con le cattive. In un modo o nell’altro l’avrebbero ottenuta. Di tornare alla grigia esistenza di un tempo proprio non se ne parlava.
E se combattendo per Garibaldi non avevano cavato un ragno dal buco, ora si cambiava strategia. Da questo momento avrebbero lottato solo per se stessi. Per se stessi e per la terra. E guai a chi avesse osato attaversare loro la strada. Come recita la Bibbia terribile è l’ira del mansueto.
Così, più o meno, dovettero andare le cose in quel travagliato inizio di decennio post-unitario. Moltissimi, accecati dalla rabbia, stracciata la camicia rossa, presero schioppo e pugnale e se ne andarono in montagna a combattere.
Da garibaldino a brigante, dunque, e spesso e volentieri si trattò di un viaggio senza ritorno.
Carmine Crocco Donatelli, nato nel 1830 a Rionero in Vulture, fu il più audace tra i briganti post-unitari. Ogni anno, da maggio a settembre, a Brindisi di Montagna, un paesino immerso nel verde dei boschi, a pochi chilometri da Potenza, si tiene uno spettacolo di una bellezza sconvolgente ideato dal genio inimitabile di Rambaldi.
“La storia bandita” – questo il nome della rappresentazione alla quale prendono parte, tra giochi di luci e sensazionali effetti speciali, centinaia di attori e figuranti – ricostruisce la triste epopea di Carmine Crocco1.
Anch’egli, come tanti contadini dell’Italia meridionale, aveva creduto alle promesse di Garibaldi e lo aveva seguito.
Poi, però, quando tutto svanì, non avendo altra scelta, si trasformò in brigante. Un brigante terribile, astuto, capace di tenere testa alle preponderanti forze piemontesi che tentavano in tutti i modi di ridurlo all’impotenza.
E alla fine ci riuscirono. Crocco fu catturato e imprigionato.
Morì nel 1905 nel carcere di Portoferraio, sull’isola d’Elba, senza mai più rivedere le verdi terre della Lucania. Quelle terre per le quali tanto si era battuto.
Quella di Crocco non fu una storia isolata. Sarebbe sbagliato restringere a questo unico fattore la causa scatenante del brigantaggio post-unitario, un fenomeno assai complesso contraddistinto da un coacervo inestricabile di motivazioni politiche, ideologiche, sociali, culturali, religiose e di costume.
È indubbio, però, che la mancata distribuzione delle terre ai contadini del sud fu tra le principali. Basterebbe approfondire questo aspetto per dare un contributo importante alla fedele ricostruzione di quel pezzo di storia patria.
E, invece, da più parti, ancora si insiste nel considerare il brigantaggio un fenomeno meramente delinquenziale. Un errore marchiano e imperdonabile.

La “reazione” di Roccaguglielma
Tale premessa era indispensabile per introdurre un accadimento molto controverso che è stato variamente interpretato.
Il 6 settembre del 1860 il re Francesco II va a rinchiudersi in Gaeta. Quasi contemporaneamente Garibaldi arriva a Napoli. Quel che resta dell’esercito borbonico (50 mila uomini al comando del generale Ritucci) si attesta lungo il Volturno.
Per qualche tempo la situazione rimane stazionaria. I reparti garibaldini, intanto, iniziano a prendere posizione sull’altra sponda del fiume. Buona parte della provincia di Terra di Lavoro, da Capua a Sora, è saldamente nelle mani dei borbonici.
Solo dopo la battaglia del Volturno (1-2 ottobre) e la sconfitta dei napoletani la situazione comincia, sia pure lentamente, a mutare.
Ancora alla fine di ottobre, però, nella parte alta della provincia, quella a confine con lo Stato Pontificio, la fazione borbonica, giovandosi anche della resistenza di Capua e di Gaeta, continua a farla da padrone.
Non a caso in questa porzione di territorio, l’unica di tutto il meridione, non puó tenersi il plebiscito di annessione al regno sabaudo (21 ottobre).
Nei paesi del comprensorio, comunque, la situazione non è tranquilla. Il partito borbonico si fronteggia aspramente con i comitati liberali che inneggiano a Garibaldi, ai Savoia e al nuovo ordine di cose. Si alternano scaramucce, scontri a fuoco, colpi di mano, con gli uni che prevalgono sugli altri a volte soltanto per poche ore. I soldati napoletani sono pochissimi mentre i sabaudo/garibaldini restano bloccati di fronte a Capua e a Gaeta. Nessuno è in grado di assicurare in maniera stabile il mantenimento dell’ordine pubblico.
In questa atmosfera di diffusa anarchia spesso chi è più risoluto riesce ad avere la meglio. Una situazione siffatta regna anche a Roccaguglielma e San Pietro in Curolis, paesi del comprensorio aurunco, che più tardi, nel 1867, si fonderanno (assieme a Monticelli) in un unico comune che prenderà il nome di Esperia. Qui, tra il 14 e il 15 settembre, si consuma una vicenda i cui risvolti non sono ancora stati chiariti del tutto.
Intanto c’è da dire che esisteva una forte tensione tra i possidenti terrieri e le masse contadine. Già in precedenza, nel 1848 e nel 1857, si erano registrati disordini e sommosse. In quel settembre del 1860, però, l’aria è a dir poco rovente. I contadini imputano ai “galantuomini” di aver usurpato le terre del demanio, quelle terre che dovevano andare al ceto bracciantile.
Sul malcontento popolare, poi, soffia impetuosa la propaganda della fazione clericale e filoborbonica che tenta di soffocare i liberali. Ne viene fuori una miscela esplosiva che ben presto deborda. L’ira dei contadini si rivolge soprattutto contro i Fantacone “odiati perché usurpatori demaniali”2 e i baroni Roselli “perché creditori di parecchia gente”3.
Il 13 settembre i braccianti disarmano la Guardia Nazionale impadronendosi di un gran numero di fucili.
Ma è il giorno dopo che il tumulto scoppia inarrestabile con le campane delle chiese che suonano a distesa chiamando a raccolta i contadini dalle campagne.
La casa dei Roselli viene fatta oggetto di una violenta e fitta sassaiola. Giacinto tenta si salvarsi arrampicandosi su di un tetto ma “fu raggiunto da una fucilata, trascinato giù e decapitato. La testa, con una pipa in bocca, fu esposta in piazza Guglielmo su una delle due colonnine che ora sono all’ingresso del paese, a Caporave”4.
Anche il fratello Vincenzo non sfugge all’ira dei villani: “rimasto a terra privo di sensi venne finito a colpi di pietre”5.
Riesce a farla franca, invece, Giovan Giuseppe che, travestito da donna, scappa in quel di Fratte, l’odierna Ausonia.
“Una caccia spietata ma vana fu condotta contro gli altri esponenti della famiglia Roselli affinché nessun erede sopravvivesse e potesse reclamare i titoli di proprietà e di credito”6.
Il 15 settembre la sommossa si sposta in San Pietro in Curulis dove vengono saccheggiate e depredate le abitazioni dei Fantacone, dei Roselli, degli Alberj, dei Trombetta, dei Petrucci e dei De Santis, tutti facoltosi “proprietari” che avevano fatto appena in tempo a scappare a Pontecorvo.
“Il palazzo Fantacone, dopo il sacco, fu dato alle fiamme. La signora Trombetta, che non aveva abbandonato il paese, perché mai sospettava tanta barbarie, venne mortalmente ferita e sfregiata”7.
Eseguita la rappresaglia i contadini non depongono le armi e i forconi. Organizzati in banda da un tale Benedetto Baris sciamano per le campagne cercando di intercettare i liberali che si erano dati alla fuga. Giungono fino a Pontecorvo costringendo il sindaco di quella cittadina a mettere a loro disposizione un enorme quantitativo di derrate alimentari. Qualche giorno dopo arrivano sul posto alcuni reparti regolari di truppa borbonica con il compito di ristabilire l’ordine.
“Furono tratti in arresto 38 degli autori materiali delle reazioni ai quali Francesco II fece però grazia il 15 ottobre vietando ogni ulteriore procedimento a loro carico”8. Anche il Parisse ricostruisce questa ultima fase: “Sopraggiunta finalmente la truppa regia sembrava dovesse ritornare la tranquillità in paese, ma i soldati fecero causa comune coi reazionari che se ne imbaldanzirono. Sul cadere di settembre la banda aveva divisato di dar opera a più vasta reazione: ‘Hanno a sparire le scarpe’ si gridava, significando che dovevano essere distrutti tutti coloro che calzavano le scarpe, cioè i signori, a differenza dei contadini che portavano ai piedi le ciocie. E già erano sul punto di mandare ad effetto l’eccidio quando un tenente di gendarmeria procedette all’arresto dei delinquenti. Ne furono presi trentotto. Altri si dettero alla latitanza nella campagna romana dello Stato Pontificio. Ma gli arrestati furono rilasciati dopo pochi giorni per ordine del loro legittimo sovrano …”9.
E così i due paesi piombano di nuovo nel disordine.
Nel dicembre del 1860 Salvatore Pizzi, governatore di Terra di Lavoro, invia 200 uomini della Legione del Matese, agli ordini del maggiore Bonaventura Campagnano, a rimettere ordine a Roccaguglielma e a San Pietro in Curulis. I soldati rimangono lì due mesi e catturano un gran numero di reazionari. Viene arrestata anche Giuseppina Guacci, moglie di Nicola, uno dei capi della rivolta, che aveva l’incarico di reclutare volontari per la brigata Lagrange10. Sottoposta a regolare processo, però, rimane assolta.
“Degli altri condannati uno morì di veleno e uno di malattia durante la detenzione. Un reazionario ritenuto per l’uccisione di Vincenzo Roselli, dopo qualche tempo dalla scarcerazione, fu rinvenuto assassinato sulla montagna di Esperia. Col quale delitto si chiude la serie delle rappresaglie per i luttuosi eventi del ‘60”11.

Conclusione
La vicenda di Roccagugliema e di San Pietro in Curulis è, a mio avviso, molto indicativa, al di là del fatto in sé e degli eccessi perpetrati.
Sullo sfondo appare, impalpabile o quasi, il contrasto tra reazionari borbonici e “galantuomini” filo piemontesi.
Ma il dissidio resta sempre defilato, ai margini della vicenda che ben presto acquista una precisa connotazione sociale. Da un lato ci sono gli agiati e facoltosi possidenti del luogo che difendono il loro status privilegiato dai virulenti attacchi del ceto bracciantile. Sul versante opposto si pongono i contadini che tentano la disperata scalata verso le posizioni di privilegio.
E questo conflitto scatena una lotta selvaggia e senza esclusione di colpi.
Ad inasprire ancor di più la contesa il timore che, ancora una volta, i ricchi possidenti finiranno per impadronirsi, anzi per “usurpare”, le terre demaniali. Quelle terre che per una sorta di giustizia sociale dovrebbero andare ai contadini.
Si torna così al punto iniziale del nostro discorso.
Anche ad Esperia la lotta non è tra favorevoli e contrari all’unità della Penisola.
Non è tra borbonici e piemontesi. Ma è esclusivamente una lotta di classe che, proprio per questo, acquista una particolare ferocia. A Esperia come in tutto il meridione.
Poi, come sovente accade in situazioni del genere, alle motivazioni principali se ne aggiungono altre quali la gelosia, gli interessi personali, i vecchi contrasti, le antipatie pregresse.
Il tutto, però, ruota innegabilmente attorno ad un contrasto di natura sociale fra ceti subalterni, con gli uni che cercano di conservare e di incrementare la loro posizione privilegiata mentre gli altri, dal basso, tentano di intaccare una situazione atavica che ritengono profondamente ingiusta.
Da questa guerra in nome della terra i “bracciali” usciranno letteralmente annientati. Alla fine, dopo dieci lunghi anni di lotta e di morte, i cafoni del sud non solo non conquisteranno un metro di terra ma saranno costretti a fare le valigie e a scappare lontano.
Il drammatico passaggio da brigante ad emigrante non è soltanto un meccanico refrain che si ripete di tanto in tanto ma ciò che realmente accade nell’Italia meridionale nella seconda metà dell’800, da quando i contadini si sono arresi, sono scesi dalla montagna e, deposte le armi, si sono inchinati davanti ai ricchi borghesi.
Quei borghesi che, con la palese connivenza dei nuovi governanti, acquistano una potenza economica, ma anche politica, che mai avevano avuto prima.
Sono essi i veri vincitori del conflitto.
Ma questo, chissà perché, sui libri di storia non c’è scritto.


1 Per chi fosse interessato www.parcostorico.it
2 Francesco Barra: Il brigantaggio in Campania, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Volume CI (1983), p. 85
3 Ibidem
4 Alfonso Parisse: Memorie di un vecchio Castello, Tipografia di Casamari1961, p. 193
5 Ibidem
6 Francesco Barra, op. cit., p. 85
7 Alfonso Parisse, op. cit., p. 194
8 Francesco Barra, op.cit., pp. 85/86
9 Alfonso Parisse, op. cit., pp. 194/195
10 Nel settembre del 1860 il re Francesco II ordina all’ufficiale prussiano Teodoro Federico Klitsche De Lagrange di marciare in direzione degli Abruzzi con reparti di truppa regolare e volontari raccolti cammin facendo per cercare di frenare l’esercito piemontese che, avanzando dall’Italia centrale, rischiava di prendere alle spalle i napoletani attestati sul Volturno. Il colonnello, organizzata una brigata di 4 battaglioni, parte da Itri il 29 settembre. Il giorno seguente la truppa giunge ad Arpino, Isola Liri e Sora dove viene ripristinato il vessillo di re Francesco. Il 5 ottobre Lagrange si incammina per l’Abruzzo. Il 6 giunge a Civitella Roveto dove, su ordine di Garibaldi, si erano portati Teodoro Pateras e Giuseppe Fanelli con 400 Cacciatori del Vesuvio e 300 della Legione del Sannio. Ad essi si erano uniti un centinaio di volontari reclutati dall’industriale arpinate Giuseppe Polsinelli. Nello scontro i garibaldini hanno la peggio e si ritirano a Pescocanale. Decisivo nella vittoria borbonica il ruolo svolto da Luigi Alonzi, alias Chiavone, che aveva partecipato con i suoi briganti alla zuffa. Lagrange, apertasi la strada, continua ad avanzare e giunge senza colpo ferire a L’Aquila. Nel frattempo, però, Cialdini sconfigge al Macerone le truppe di Scotti-Douglas (20 ottobre) con lo stesso generale napoletano che viene fatto prigioniero. Ciò cambia radicalmente il quadro della situazione. Senza la copertura di Douglas la brigata Lagrange rischia di essere presa in mezzo e annientata. E così il colonnello prussiano deve tornare in fretta sui suoi passi. All’inizio di novembre Lagrange è di nuovo a Sora. Quindi, passando per Arce e Isoletta, si inoltra nello Stato Pontificio e, giunto nei pressi di Frosinone, il 6 novembre scioglie definitivamente la sua truppa (Sulla vicenda cfr. Fernando Riccardi: Piccole storie di briganti, Associazione Culturale “Le Tre Torri”, Tipografia Arte Stampa, Roccasecca 2003, pp. 14/17)
11 Alfonso Parisse, op. cit., p. 197.

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