Roccasecca 1872 – L’assassinio del sindaco Paolozzi


Print Friendly, PDF & Email

 

Studi Cassinati, anno 2003, n. 3

di Fernando Riccardi

Lapide apposta nella chiesa di S. Francesco

Roccasecca 26 maggio 1872: il sindaco Serafino Paolozzi in compagnia del segretario comunale Clemente Delli Colli si sta recando verso la “borgata” di Caprile, percorrendo la pedemontana che, in leggero declino, collega Roccasecca a Castrocielo.
Scopo della passeggiata, sono solo due chilometri di strada, è la celebrazione di un matrimonio civile.
Serafino Paolozzi è una persona di grande autorità e prestigio; appartenente ad una ricca famiglia di possidenti, ha ricoperto la carica di sindaco fin dal 1860, anno dell’unificazione della nazione italiana. Il padre Giambattista (1784-1845) era “proprietario” come si diceva all’epoca, mentre Maria Speranza, la madre, apparteneva ai Coarelli, una delle più “cospicue” famiglie di Roccasecca.
Dal matrimonio era scaturita una “caterva” di figli, ben dieci, conformemente al costume dell’epoca: oltre a Serafino, il terzogenito, abbiamo Giocondo, morto subito dopo la nascita, Carolina, Giuseppe, Giacinto, Paolina, Luigia, Tommaso, Marianna e Cristina. L’unione fra i Paolozzi e i Coarelli non era determinata soltanto dall’esigenza di preservare l’invidiabile posizione patrimoniale ma anche dall’esistenza di un preciso “feeling” ideologico.
Serafino apparteneva ad una stirpe palesemente liberale; non a caso, pur essendo fra i “primi”, i Paolozzi erano sempre rimasti ai margini della vita politica e amministrativa del paese, con l’unica eccezione del decennio francese (1806-1815), quando il notaio Pietro Paolo (1763-1827), nonno di Serafino, era stato sindaco per ben due anni di seguito, nel 1812 e nel 18131.
Dopo il 1815, con la restaurazione borbonica, i Paolozzi tornarono nell’ombra e non ricoprirono più cariche pubbliche.
Nel 1860, mutate le cose, Serafino fu eletto primo cittadino, carica che mantenne senza interruzioni fino al 1872.
I Coarelli, per conto loro, non erano stati da meno; nel “palmarès” di famiglia potevano vantare una antica tradizione di avversione alla monarchia e di attività sovversiva2. Anch’essi quindi potevano, a buon diritto, essere annoverati nella schiera dei “liberali” di Roccasecca.
Ma ormai è tempo di tornare ai fatti.
Nel procedere verso Caprile, all’altezza del luogo attualmente chiamato “la cabina” per la presenza di un traliccio dell’energia elettrica, proprio là dove confluiva un viottolo proveniente dalla campagna sottostante, ancora ben visibile nonostante la presenza di una folta vegetazione, il sindaco e il segretario comunale incontrano una persona ferma ai margini della strada, con in spalla un fucile da caccia.
Questo particolare, come gli altri che seguiranno, lo si è ricostruito prestando fede al racconto della signora Aurora Fusco che ricorda quanto narratole dalla nonna.
Dopo aver salutato l’uomo, si trattava a quanto pare di un Tanzilli, il sindaco Paolozzi gli chiede cosa stesse facendo lì fermo.Senza scomporsi più di tanto, il tizio risponde: “Sto aspettando che passi un tordo”.
Finite di pronunciare quelle parole l’uomo imbraccia il fucile e spara ripetutamente contro il povero sindaco che stramazza al suolo.
Il sangue versato da Serafino Paolozzi fu così copioso da imbrattare l’attonito segretario che non poté far niente per impedire il misfatto.
Fin qui il racconto della Fusco.
Per vedere però se la testimonianza orale, tramandata nel tempo e conservata nelle pieghe della memoria a così grande distanza dagli eventi (sono trascorsi 130 anni) si basava su dati di fatto concreti, occorreva cercare conferma nei documenti.
La qualcosa si è puntualmente verificata.
Spulciando nel “Liber Mortuorum”3 della chiesa di Santa Margherita, di Roccasecca centro, si è potuto constatare che Serafino Paolozzi effettivamente fu ucciso (“interfectus fuit”) il 26 maggio del 1872, all’età di cinquant’anni, lungo la strada di Caprile (“in platea oppidi Caprili”), a colpi di arma da fuoco (“ictu sclopi”).
Dall’atto di morte stilato dal sacerdote Antonio Belli, si apprende che il Paolozzi spirò a distanza di qualche ora per le ferite riportate, dopo aver ricevuto i conforti religiosi dall’arciprete di Caprile don Bernardo Notarangeli.
Il curato conclude la registrazione specificando che Serafino Paolozzi fu tumulato nella chiesa di San Francesco (“sepultus fuit in ecclesia S.ti Francisci”).
La testimonianza della Fusco dunque combacia alla perfezione con quanto rinvenuto nel libro parrocchiale.
Un’altra conferma inequivocabile al racconto è giunta dalla consultazione del registro degli atti di morte del comune di Roccasecca dell’anno 1872 dove, al num. 69, è attestata proprio l’uccisione del sindaco Serafino Paolozzi che riportiamo nei passi più salienti.
“L’anno mille ottocento settantadue il giorno ventisette del mese di maggio, alle ore sette antimeridiane, in Roccasecca nella casa comunale, avanti di noi Clemente Delli Colli, segretario della comune suddetto …, sono comparsi Giuseppe Renzi, di anni trenta e Pietrantonio Caporicci di anni ventinove, ambedue proprietari in questo comune domiciliati e residenti, i quali, come testimoni di veduta han dichiarato che ieri alle ore due antimeridiane, morì in questa comune nella casa di abitazione del signor Giacinto Paolozzi, sita nella borgata Caprile, alla via Evangelista, Serafino Paolozzi, proprietario celibe di anni quarantotto, nato domiciliato e residente a Roccasecca, figlio di fu Giambattista e di Maria Speranza Coarelli, proprietari e ivi domiciliati”.
Ancora una volta il racconto della signora Fusco trova puntuale conferma.
Anzi dall’atto stilato da Clemente Delli Colli, il segretario comunale che aveva accompagnato il sindaco nel suo tragico viaggio, si apprendono altri interessanti particolari.
In primo luogo che il Paolozzi era celibe e poi che la morte era avvenuta “alle ore due antimeridiane” nell’abitazione di Giacinto, fratello minore di Serafino che, contratto matrimonio con Luisa Tanzilli, risiedeva a Caprile, alla via Evangelista.
La quale circostanza non è di poco conto ed in seguito vedremo perché.
Malgrado una lieve discrepanza sull’età della vittima, oscillante fra i 48 e i 50 anni, i conti tornano.
Così come è esatta l’annotazione del curato Belli secondo la quale il Paolozzi venne sepolto nella chiesa di San Francesco, in località Moscellara.
Una ricognizione effettuata di recente nella chiesa, ancora chiusa dopo il sisma del 1984, ha permesso di rinvenire una lapide marmorea rettangolare di grandi proporzioni, che presenta ai quattro lati fregi circolari a forma di fiore, con una croce nella parte superiore ed in basso una clessidra.
La pietra di marmo, che doveva essere apposta sulla parete di destra della chiesa, vicino la porta di ingresso, in seguito è stata divelta dal muro ed accantonata, per fortuna integra, nell’ambiente del coro, alle spalle dell’altare maggiore.
Anche la scritta, conservatasi perfettamente, conferma l’evoluzione dei tragici eventi; aggiunge anzi un prezioso particolare.
“A Serafino Paolozzi/per senno e prudenza/che per lunghi anni/difficilissimi/amministrò la cosa pubblica/qui in Roccasecca sua patria/con zelo abnegazione disinteresse/che incolpevole/fatto segno a meditata vendetta/proditoriamente/veniva rapito/all’amore dei popoli all’affetto/della famiglia/la madre desolata i dolenti fratelli/e le inconsolabili sorelle/che con lui tutto perderono/Q.L.P./nato il XXI 9bre MDCCCXXIII/ferito il XXV maggio MDCCCLXXII/perdonando l’uccisore/spirava alla prima ora del giorno XXVI”4.
Il sindaco Paolozzi dunque fu “fatto segno a meditata vendetta”.
A cosa ci si riferisce? Alla sua attività amministrativa o a qualcos’altro? E chi fu l’autore dell’efferato delitto consumato in maniera così teatrale alla presenza, per giunta, di un testimone oculare?
Secondo il racconto della Fusco responsabile dell’omicidio sarebbe stato, come già detto, un Tanzilli: però, oltre a ciò, di più non sa aggiungere.
Questa volta si brancola decisamente nel buio.
Per saperne di più sarebbe stato indispensabile recuperare l’incartamento processuale, opera che, malgrado le accurate ricerche presso l’Archivio di Stato di Caserta, non è stato possibile portare a compimento.
Sui circa 300 processi esperiti dalla Corte di Assise di Cassino fra il 1863 e il 1902, conservati presso l’archivio casertano, un’ottantina sono andati irrimediabilmente perduti. Ed il vuoto più consistente riguarda proprio il periodo 1866-1872, quello che a noi interessa più da vicino.
Con ogni probabilità non riusciremo mai a mettere le mani sul processo seguito al delitto che, a quei tempi, dovette suscitare un’eco eclatante se è vero che, ancora oggi, a distanza di così tanto tempo, qualcuno ricorda, sia pure vagamente, la triste vicenda.
L’esecutore materiale del crimine insomma resterà, almeno per noi, misterioso: troppo vaghe, a tal riguardo, le indicazioni della signora Fusco.
A questo punto si potrebbe pensare che la vicenda sia chiusa in maniera definitiva: neanche per sogno.
Undici anni dopo, nel maggio del 1883, Giacinto Paolozzi, colui che aveva accolto nella sua abitazione il fratello morente, mentre percorre la strada che da Roccasecca mena a Caprile, è ucciso, più o meno nello stesso punto dove cadde mortalmente ferito il sindaco Serafino5. Gli autori del delitto sono prontamente assicurati alla giustizia, come si apprende dal faldone processuale rinvenuto a Caserta6.
Si tratta, ancora una volta, di un omicidio a scopo di vendetta: qualche tempo prima infatti Giacinto, con la sua testimonianza, aveva reso possibile l’incriminazione di Agesilao Coarelli, reo dell’uccisione dello zio Francesco.
Vale la pena di ricostruire, sia pure per sommi capi, anche le modalità di questo delitto consumato all’interno del medesimo nucleo familiare.
Il motivo del contendere era un terreno adibito alla coltivazione di lupini che Francesco Coarelli, medico nonché agiato possidente di Caprile, aveva dato in fitto ad un suo colono.
La cosa però aveva suscitato le rimostranze del nipote Agesilao che pretendeva a tutti i costi la concessione di quel fondo.
Dopo l’ennesima litigata, ecco il tragico epilogo: il 15 luglio del 1882, mentre Francesco rientrava a Caprile seduto su di un carro, da un campo di granone posto ai margini della strada, partirono due colpi di fucile che lo colpirono in pieno.
Nonostante le cure il possidente cessò di vivere il giorno successivo7.
I sospetti si addensarono subito su Agesilao che, vista la precarietà della posizione, pensò bene di rendersi latitante.
La qualcosa durò fino al marzo del 1883 quando, grazie anche alla collaborazione di Giacinto Paolozzi, poté essere assicurato alla giustizia.
La sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Cassino il 29 maggio, condannò Agesilao Coarelli a venti anni di lavori forzati, da scontarsi presso il carcere circondariale di Santa Maria Capua Vetere; dopo un periodo di reclusione, fu trasferito in “domicilio coatto” a Porto Longone, nel livornese, dove improvvisamente morì nel settembre del 18888.
I Coarelli, come sovente accade in questi frangenti, decidono di vendicarsi e di farla pagare cara al Paolozzi la cui deposizione era risultata decisiva per la carcerazione del loro congiunto e per la successiva dura condanna.
E così, il 20 maggio del 1883, Enrico (24 anni), Francesco (31) e Tommaso Coarelli (17), fratelli di Agesilao, con il padre Pietro (53) nella veste di “istigatore”, mettono in atto il terribile piano delittuoso, eseguito con lucida e spietata determinazione.
I particolari del delitto sono ricostruiti attraverso alcune testimonianze fra cui quelle dei figli dell’ucciso, Giovanni e Giuseppe.
Giacinto Paolozzi, in quel giorno fatale, si era recato prima ad Aquino dal consigliere provinciale Antonio Iadecola e poi ad Arce “a trovare il deputato signor Grossi Federico”. Dopo aver partecipato ad una riunione nella frazione Castello (era infatti “Presidente della Casina”, una sorta di circolo sociale ivi ubicato), intorno alle ore 21.00, si incammina sulla pedemontana per far ritorno a Caprile.
Giunto più o meno a metà strada, improvvisamente dal margine della via gli viene esploso contro un colpo di arma da fuoco che però non raggiunge il bersaglio.
Subito dopo il Paolozzi viene aggredito da più individui con il volto nascosto da cappelli con le falde calate e finito con una caterva di coltellate9.
L’episodio suscita nel paese enorme scalpore: Giacinto Paolozzi, al pari del fratello Serafino, era infatti persona assai nota. Le forze dell’ordine iniziano subito le indagini sul delitto: dopo aver pensato di tirare dentro il marito di una contadina di Roccasecca che, a quanto pare, intratteneva una relazione adulterina con il Paolozzi10, i sospetti si incentrano subito sui fratelli Coarelli e sul padre Pietro.
A più riprese infatti, nei giorni precedenti il delitto, avevano minacciato il Paolozzi alla presenza di numerosi testimoni, prospettandogli il rischio di fare “una brutta fine”.
Oltre a ciò, la “voce pubblica”, sempre tenuta presente dagli inquirenti, diceva che “la famiglia Coarelli era temutissima in quelle contrade perché considerata per gente sanguinaria e spregiudicata”.
Una perquisizione eseguita dai reali carabinieri nella “masseria” di Pietro Coarelli, sita nella campagna di Roccasecca, in contrada “Campo Le Mele”, distante circa 3 chilometri dal luogo del delitto, aveva permesso di rinvenire un paio di cioce imbrattate di sangue fresco.
Quando poi un testimone oculare che si trovava a transitare sulla strada che mena dal Castello a Caprile pochi minuti prima dell’evento delittuoso, dichiara di aver riconosciuto, ad onta del camuffamento, uno dei fratelli Coarelli, scattano immediatamente i provvedimenti di arresto.
E così Tommaso e Francesco Coarelli vengono catturati il 21 maggio mentre erano intenti al lavoro nei campi; Enrico invece si rende “latitante”11, mentre il padre Pietro risulta “assente”.
Anch’essi però non sfuggono alla cattura: Enrico infatti è arrestato a Pontecorvo dai reali carabinieri, in contrada “Tre Fontane”, il 25 ottobre del 1883, presso l’abitazione di tale Romualdo Pallocco; Pietro Coarelli invece viene arrestato il 15 maggio dell’anno successivo a Roccasecca, in contrada “Campo del Medico”.
Assicurati alla giustizia gli esecutori materiali del delitto nonché l’istigatore dello stesso, tutti rinchiusi nel carcere di Cassino, l’excursus penale poté procedere speditamente.
Ed infatti il 16 dicembre del 1884 la Corte di Assise di Cassino, presieduta dal cav. Giuseppe Antonucci, condanna Enrico e Francesco Coarelli alla pena di morte, Tommaso ai lavori forzati a vita e il padre Pietro a 10 anni di reclusione.
Contro la sentenza i Coarelli inoltrano ricorso alle competenti autorità, un ricorso corposo ed articolato, predisposto dall’avvocato Filippo Cinquanta di Cassino e dai colleghi del foro napoletano Eduardo Ruffa e Alfredo Mirenghi, nel quale si tenta di far denotare le “incongruenze giuridiche” della sentenza.
Il tentativo, ad onor del vero, è coronato, sia pure in parte, da successo: la Corte Ordinaria di Assise di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal cav. Luigi Ludovici, in data 2 luglio 1887, modifica sostanzialmente la sentenza di primo grado per cui Enrico Coarelli è condannato ai lavori forzati a vita, Francesco a 10 anni di lavori forzati e Pietro a 6 anni di reclusione. La sentenza non contempla più Tommaso Coarelli che, nel frattempo, era passato a miglior vita12.
Anche questa volta la pena comminata non è accettata di buon grado e i Coarelli producono, tramite un pool di legali, ricorso in Cassazione.
Il 5 dicembre del 1887 la Corte di Cassazione di Napoli, sezione penale, rigetta il ricorso confermando la sentenza della Corte di Assise.
Svanito l’ennesimo tentativo di ottenere una riduzione delle sanzioni, sul fronte, fino ad allora granitico dei Coarelli, inizia ad affiorare qualche crepa: il padre Pietro e il figlio Francesco infatti tentano a più riprese di alleggerire la propria posizione in merito al delitto Paolozzi, chiamandosi fuori ed accusando il solo Enrico che, non a caso, aveva ottenuto la pena più consistente.
I due cercano di portare dentro un altro personaggio, fino ad allora appena sfiorato dalle indagini, tale Antonio Mancone di Roccasecca, che avrebbe agito in combutta con Enrico Coarelli.
La manovra però non sortisce gli effetti sperati; nel frattempo il Mancone aveva pensato bene di darsi alla macchia: come affermano i Coarelli “è scomparso e forse vive in Roma sotto falso nome”. E così non c’è niente da fare: la giustizia svolge in pieno il suo corso ed i Coarelli debbono scontare la dura condanna.
Enrico non sopravviverà a lungo ai rigori del carcere e muore nel 188813.
Francesco Coarelli, condannato a 10 anni di lavori forzati, viene inviato in un primo momento al “bagno penale” di Orbetello e poi trasferito “perché affetto da malattie croniche” a Gaeta. E lì dovette scontare per intero la sua condanna se è vero che nel voluminoso incartamento processuale custodito nell’archivio casertano, è presente un documento, datato 14 dicembre 1896, nel quale la “sezione di accusa della Corte di Appello di Napoli” dichiara il Coarelli Francesco “escluso dal benefizio dell’amnistia”(Regio Decreto del 22 aprile 1893), perché nel 1883, era stato condannato dal Tribunale di Cassino, a 20 giorni di carcere per oltraggio a pubblico ufficiale.
Pietro Coarelli infine, riconosciuto quale istigatore dell’atroce delitto, sconta i suoi 6 anni di reclusione, nelle prigioni di Santa Maria Capua Vetere14.
Dopo questa lunga ma doverosa parentesi, è giunto senz’altro il momento di riallacciare le fila del discorso.
A distanza di undici anni la macabra storia si ripete e due fratelli, Serafino e Giacinto Paolozzi, vengono uccisi a sangue freddo, nel medesimo posto e quasi con le stesse modalità. Difficile pensare ad una pura e semplice coincidenza: il movente della vendetta infatti è presente in entrambi gli omicidi.
Forse i fatti criminosi non sono direttamente collegati fra loro; stranamente però i protagonisti si muovono sempre all’interno delle stesse famiglie.
Il sindaco Paolozzi, secondo la tradizione orale, viene ucciso da un Tanzilli; a sua volta una Tanzilli, Luisa, sposa Giacinto, fratello di Serafino.
E ancora: Giacinto è trucidato dai fratelli Coarelli, famiglia cui appartiene anche Maria Speranza, madre di Giacinto e di Serafino15.
Senza dimenticare poi la faida intestina che sconvolge i Coarelli, con Agesilao che uccide lo zio Francesco.
Come si può constatare un intreccio diabolico, perfettamente degno di uno dei più avvincenti gialli di Agata Christie.
Con una sostanziale differenza: queste testé narrate non sono fantasiose invenzioni ma eventi realmente accaduti a Roccasecca sul declinare del XIX secolo.


1 A dimostrazione di quanto fosse spiccata la connotazione liberale della famiglia Paolozzi, basti far notare che nel 1813, accanto al sindaco Pietro Paolo, troviamo come “secondo eletto”, Giovanni Candia, uno dei più ferventi repubblicani del 1799. Nato il 19 novembre del 1775 da Filippo originario di Napoli, “capitano della grassa” in Terra di Lavoro, e da Clementina De Camillis, nel 1799 si trovava iscritto al corso di legge presso l’ateneo partenopeo. Arrestato dopo la caduta della repubblica e sottoposto a processo con l’accusa di attività sovversiva, fu condannato al sequestro dei beni posseduti a Roccasecca. Dalla “rivela” presentata da Tommaso Candia, fratello maggiore di Giovanni nel 1796, quando era stata imposta dal governo borbonico una tassa speciale per la costruzione della “strada consolare regia”, più o meno corrispondente al tracciato dell’odierna arteria statale n. 6 Casilina, si apprende che la famiglia Candia aveva a Roccasecca i seguenti possedimenti: “1) un territorio a San Vito, 2) una cantina dove si dice Palazzotto; 3) una casa in via del Forno; 4) alcuni capitali dati in prestito a persone diverse”. Oltre a ciò poi i Candia possedevano altri beni a San Giovanni Incarico e a Pico. Contro il provvedimento di sequestro emanato dal regio erario e della cui esecuzione fu incaricato Don Ferdinando Pistilli (si tratta del sacerdote isolano autore nel 1798 della celebre “Descrizione storica-filologica delle antiche e moderne città e castelli esistenti accosto i fiumi Liri e Fibreno”), vi fu il pronto ricorso dei Candia affinché restasse libera la porzione ereditaria di spettanza del resto della famiglia. Al ricorso fu allegata una dichiarazione nella quale si faceva notare che Giovanni, impegnato a Napoli negli studi universitari, aveva speso ben 1500 ducati e quindi aveva praticamente dilapidato la sua parte di eredità: ciò nell’evidente tentativo di evitare il sequestro generale dei beni. Il provvedimento comunque finì con l’essere revocato nell’agosto del 1801 in seguito all’emanazione dell’indulto generale. Giovanni Candia morì a Roccasecca il 26 giugno del 1858. (F. SCANDONE: “Roccasecca patria di S. Tommaso de Aquino” in “Archivio Storico di Terra di Lavoro”, Società di Storia Patria di Terra di Lavoro, parte III, Caserta 1964, pp. 39, 92 appendice 166, 94 appendice 171; A. NICOSIA: “I Roselli e il Lazio meridionale nel movimento giacobino napoletano”, Francesco Ciolfi tipografo, editore, libraio, Cassino 1990, p. 83 appendice 1; A. SANSONE: “Gli avvenimenti del 1799 nelle due Sicilie. Nuovi documenti”, Premiata Casa Editrice “Era Nova”, Palermo 1901, p. 156; “Rei di Stato”, Archivio di Stato di Napoli (ASN), busta 105; “Amministrazione dei beni dei Rei di Stato” (ASN), documenti 166, 169, 171 e fasci 96, 98).
2 Non si può ignorare che ai tempi della insurrezione costituzionale nel Regno di Napoli (luglio 1820-marzo 1821), un Coarelli, il “dottor fisico” Mariano (1762-1833), Gran Maestro della Carboneria, aveva costituito una “vendita” in quel di Roccasecca. Né poi va sottaciuta la sua implicazione, assieme al fratello Giuseppe, nella vicenda processuale che portò alla morte di Benedetto Patamia e Raffaele Giovinazzi, impiccati a Santa Maria di Capua, l’odierna Santa Maria Capua Vetere, nel novembre del 1823, quali appartenenti alla setta carbonara della “Nuova Riforma di Francia”. Su quest’ultima vicenda vedere “Giornale delle Due Sicilie”, lunedì 1 dicembre 1823, n. 284, p. 1149, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, sezione “Lucchesi Palli”, periodici 123-C.
3 “Liber IV.us Mortuorum Parociae Sanctae Margaritae Roccaesiccae incipiens ab anno 1850 usque ad …”, pag. 116, verso (Arch. Parr. S. Margherita, Roccasecca centro).
4 E’ senz’altro il caso di procedere al recupero di questa lapide che delinea un evento così importante per la storia di Roccasecca e della quale, fino a pochi mesi fa, si ignorava o quasi l’esistenza. Occorre toglierla da quel deposito di cianfrusaglie e portarla in un luogo più sicuro, per non correre il rischio di vederla, prima o poi, gravemente danneggiata. Si tratta infatti di un reperto che conta pur sempre un secolo e mezzo di vita o giù di lì. Sarebbe forse opportuno affiggere la stessa nell’atrio del palazzo municipale che già conserva altri importanti reperti lapidei.
5 “Anno Dom.ni 1883, die vigesima maii. Hyacinthus q.m Joannis Baptistae Paolozzi ed viduus q.m Aloysia q.m Francisci Tanzilli, aetatis suae annorum 57, hac die miserrime interfectus est. Corpus ejus in coemeterio quiescit. Ita est. Joseph Archip. Di Rollo”. “Liber Mortuorum ab anno 1870 in posterum”, Arch. Parr. S. Maria delle Grazie, Caprile di Roccasecca, p. 79, verso, n. 10.
6 La collocazione esatta è: Archivio di Stato di Caserta (ASC), Corte di Assise di Cassino, busta 88, fascicolo 381, numero 65, voll. 5. “Imputato: Coarelli Francesco ed altri. Omicidio volontario in persona di Paolozzi Giacinto, 23/7/1876, Roccasecca”. Nel registro, contenente l’inventario dei faldoni relativi ai processi celebrati davanti la Corte di Assise di Cassino, è indicata erroneamente, forse per un mero errore di trascrizione, la data del 23 luglio 1876: in effetti si sarebbe dovuto scrivere 20 maggio 1883, giorno in cui fu perpetrato l’omicidio di Giacinto Paolozzi. All’interno dei voluminosi fascicoli inerenti la vicenda processuale sono conservate 3 cartine topografiche, redatte all’epoca dei fatti, che risultano davvero assai interessanti. Una di esse illustra in maniera mirabile il contesto territoriale nel quale è maturata l’azione criminosa; a margine della stessa compare la seguente dicitura: “Piano topografico della località ove seguì il reato a danno di Paolozzi G. e dei luoghi che, prossimi al reato stesso, possono dar luce allo svolgimento del fatto criminoso”. E’ questa una straordinaria testimonianza che permette di ricostruire la topografia del territorio di Roccasecca alla fine dell’800, con l’indicazione di fiumi, monti, strade, contrade, nuclei urbani, tutti accompagnati dai toponimi dell’epoca che, in molti casi, ancora sopravvivono. Nella cartina compare il tracciato della linea ferroviaria Roma-Napoli, denominata “ferrovie romane”, con l’indicazione della stazione di Roccasecca, sorta da soli vent’anni. Così come è segnata la “via provinciale”, l’odierna strada statale Casilina, sulla quale, prima del “ponte Melfi” che consentiva e consente tuttora l’attraversamento dell’omonimo corso d’acqua, si scorge una “locanda” utilizzata per il ristoro e per il cambio dei cavalli.
7 “Anno Domini Millesimo Octingentesimo Octogesimo Secundo – Die 16 Julii. Franciscus q.m Caroli Coarelli vir Annae Mariae Meta heri infeliciter ex sclopi ictu per insidias vulneratus, hac die in C.S.M.E. omnibus sacramentis munitus expiravit cum esset annorum 55 circiter. Ejus corpus in coemeterio resurrectionem expectat. Ita est Joseph Archipret Di Rollo”. (“Liber Mortuorum ab anno 1870 in posterum”, pag. 75, verso, n. 24, Arch. Parr. S. Maria delle Grazie, Caprile di Roccasecca)
8 La notizia si apprende dal “Registro Municipale degli Atti di Morte, Comune di Roccasecca, Provincia di Caserta”, anno 1888, parte II, n. 8. L’atto di morte fu stilato in base alla relazione inviata dall’ufficiale di stato civile di Porto Longone che, a sua volta, aveva ricevuto la comunicazione dai “guardiani” incaricati della sorveglianza di Agesilao Coarelli, di anni 28, contadino, celibe, dimorante in Piazza Montenero, al numero 1.
Anche nello “Stato delle Anime della Parrocchia di S.M. delle Grazie di Roccasecca 1890”, al n. 46, conservato nell’archivio parrocchiale di Caprile, il sacerdote aveva annotato all’anno 1888 la notizia della morte di Agesilao Coarelli.
9 Dall’esame autoptico, eseguito nel cimitero di Roccasecca, dai chirurghi Ricci e Longo, sul cadavere di Giacinto Paolozzi sono rinvenute ben 76 coltellate. Esse sono elencate minuziosamente nel referto allegato all’incartamento processuale: “2 ferite alla mano dritta; 2 ferite nell’avambraccio destro; 11 ferite nel braccio destro; 1 ferita nella regione interna posteriore del braccio; 10 ferite all’addome; 21 ferite al torace; 16 ferite alla nuca; 5 ferite alla regione occipitale; 2 ferite alla regione frontale; 3 ferite alla regione carotidea destra; 1 ferita alla guancia destra; 1 ferita al padiglione dell’orecchio destro; 1 ferita alla natica destra”.
10 Giacinto Paolozzi doveva tenere una condotta per così dire “libertina”. Proprio come conseguenza di una “scappatella amorosa” “era privo del braccio sinistro… perché in aprile del 1880 per alcune percosse che si ebbe al braccio, stava per farsi gangrena, e si dovette amputare”.
11 Enrico si era rifugiato nella vicina Pontecorvo dove “amoreggiava” con una ragazza del luogo. Essendo rimasto ferito ad una mano nel corso della colluttazione con Giacinto Paolozzi, si era recato a farsi curare da un dottore di quel paese, affermando di essersi tagliato accidentalmente con un attrezzo agricolo. Il medico però, vista la natura della ferita, non prestò fede alla dichiarazione del Coarelli e subito rese nota la circostanza agli organi inquirenti.
12 “Anno dom.ni 1886, die quarta iunii. Thomas Petri Coarelli, annorum 22 circiter, hac die in carceribus S. Mariae Capuae Veteris mortuus est. J. A. Di Rollo”. “Liber Mortuorum ab anno 1870 in posterum”, Arch. Parr. S. Maria delle Grazie, Caprile di Roccasecca, p. 92, verso, n. 16.
13 La morte di Enrico Coarelli risale all’8 marzo del 1888, come si evince dal registro municipale degli atti di morte di Roccasecca (parte II, n. 1). La notizia è dovuta ad una comunicazione inviata al comune di residenza dal “direttore delle prigioni” di Santa Maria Capua Vetere. In essa si specifica che Enrico Coarelli, di anni 27, contadino, celibe, è morto in una casa, dove domiciliava sotto stretta sorveglianza, situata in Corso Adriano. Anche nello “Stato delle Anime della Parrocchia di S.M. delle Grazie di Roccasecca 1890”, al n. 46, il sacerdote di Caprile annota, sinteticamente, l’anno della morte.
14 Pietro Coarelli morì il 3 novembre del 1893, all’età di 64 anni, in una casa sita in Piazza del Mercato a Roccasecca centro. (Registro Municipale degli Atti di Morte, parte I, n. 87, anno 1893). La stessa notizia si può cogliere anche dal “Liber IV.us Mortuorum Parociae Sanctae Margaritae Roccaesiccae incipiens ab anno 1850 usque ad …”, pag. 276, verso, che conferma come data di morte, il 3 novembre del 1893.
15 Maria Speranza Coarelli scomparve a Roccasecca il 2 giugno del 1876, come si apprende dal “Liber IV.us Mortuorum Parociae Sanctae Margaritae Roccaesiccae incipiens ab anno 1850 usque ad ….”, pag. 144, recto, conservato nell’archivio parrocchiale della chiesa di S. Margherita a Roccasecca centro. “Die 2 junii 1876. D.a Speranza Coarelli f.a qm D.i Francisci, et D.ae Annae Mariae De Angelis conjugum, cum octogintorum esset annorum, refecta sacramento Confessionis et Eucarestiae a me subscripto, dies obiit supremos. Sepulta fuit in pub.co coemeterio. Ant. Belli Oec. Curatus”. La notizia della morte di Maria Speranza Coarelli si ricava anche dal Registro Municipale degli Atti di Morte conservato nell’archivio comunale (parte I, n. 88, anno 1876). A tal riguardo è bene precisare che nel cimitero di Roccasecca, sulla lapide di Maria Speranza Coarelli, che si trova nella cappella gentilizia Paolozzi-Delli Colli, è incisa una data di morte errata, ossia il 2 giugno del 1870: in effetti, come detto più volte, il decesso avvenne esattamente sei anni dopo.

(446 Visualizzazioni)