Il naufragio dell’«Andrea Doria» nel ricordo di Carlo Alberto Iacobelli


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Studi Cassinati, anno 2016, n. 1
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di Francesco Sabatini

A sessant’anni di distanza si ripercorre uno dei disastri maggiori della Marina mercantile italiana, l’affondamento del transatlantico «Andrea Doria» avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1956 di fronte alle coste statunitensi mentre era in viaggio verso New York, attraverso i ricordi di un sopravvissuto, un emigrato originario di Casalvieri i cui figli hanno avuto modo di affermarsi professionalmente in terra americana.

09Si addormentò tranquillamente, quella notte buia e lontana di luglio, il giovane che pochi giorni prima, a Napoli, si era imbarcato sulla grande nave diretta a New York. Mancavano poche ore all’arrivo e presto avrebbe riabbracciato la sorella, che viveva a Detroit già da alcuni anni, e sarebbe iniziata una nuova fase della sua vita, lontano dai punti di riferimento – i campanili, le montagne, il verde chiaro dei prati, il giallo dei campi di grano prima della mietitura ed il fulgore autunnale dei boschi – che conferivano al suo paese natale un profilo inconfondibile e rassicurante. Il passato era alle sue spalle: a Casalvieri, ove era nato, aveva lasciato la moglie Delicata Rocca e i loro due bambini, gli altri congiunti, gli amici e il suo lavoro. La scelta di emigrare, condivisa da tutta la famiglia, lo aveva a lungo turbato (di tanto in tanto, in silenzio, aveva ripetuto a se stesso il vecchio proverbio frutto della saggezza popolare: chi lascia la via vecchia per una nuova, sa quel che lascia ma non quel che trova), il nuovo lavoro che lo attendeva sarebbe stato ben diverso dai ritmi cui era abituato, ma la decisione, per quanto sofferta, era ormai maturata ed egli era pronto ad affrontare le sfide che lo attendevano al di là dell’immenso oceano. E stavano per terminare anche i disagi della lunga traversata: la sua cuccetta nell’angusta cabina della classe turistica era risultata tutt’altro che confortevole; non era riuscito a farsi una bella e rinfrescante doccia sebbene l’avesse prenotata fin dall’imbarco a Napoli; all’improvviso si era trovato sbattuto in mezzo a tutta quella gente sconosciuta, che parlava dialetti e anche lingue diverse, e ciò aveva suscitato problemi ed incomprensioni. E tuttavia aveva rintracciato altri emigranti della sua Valle di Comino – di Alvito, di San Donato, di Settefrati – e con loro aveva familiarizzato trascorrendo lunghe ore in conversazione.
Ma ad un tratto il suo sonno sereno fu interrotto da un forte boato. Ancora assonnato, la sua memoria involontaria, valicando d’un balzo l’oceano, approdò agli anni della sua infanzia, alle lunghe serate invernali con la famiglia raccolta dinanzi al focolare e ai favolosi racconti dei nonni sui terremoti del passato, ma una volta sveglio intuì che si era verificata una collisione e in fretta indossò pantaloni e salvagente e si accodò alla folla che si dirigeva sopra coperta. Sebbene fossero trascorsi pochi minuti, la nave era già inclinata, l’urto aveva danneggiato anche la sala macchine ed il buio della notte era appena rischiarato dalle luci di emergenza.
Quel giovane di Casalvieri – il suo nome è Carlo Alberto Iacobelli, Carluccio per parenti e amici – è oggi un distinto signore di 92 anni molto ben portati, che custodisce nitidi ricordi della tragedia e trascorre l’inverno in Florida e l’estate nel suo paese natale; la nave su cui viaggiava era l’«Andrea Doria», varata pochi anni prima e vanto della Marina mercantile italiana e la collisione avvenne nella notte tra il 25 ed il 26 luglio del 1956 in prossimità dell’isola di Nantucket, al largo di Boston, con una nave svedese, la «Stockholm», diretta in Europa. Come ricorda, subito dopo la collisione l’equipaggio dell’«Andrea Doria» fece il possibile per salvaguardare la vita dei passeggeri, approntando in particolare numerose corde perché potessero sorreggersi ed evitare di scivolare. Egli, così come la maggior parte dei passeggeri e dello stesso equipaggio (molti altri furono tratti a bordo sia dello «Stockholm» che delle altre navi accorse), trovò rifugio sull’«Ile de France», una nave francese diretta in Europa che, alla notizia della collisione, aveva invertito la rotta mentre si trovava a diverse miglia di distanza. «Quando vedemmo avvicinarsi quella grande luce che illuminava la buia notte – dice Iacobelli rinnovando l’emozione di allora e la gratitudine nei confronti dei soccorritori – capimmo che eravamo salvi». Erano ormai trascorse alcune ore dalla collisione e l’«Andrea Doria» continuava pericolosamente a inclinarsi ed egli, come molti altri passeggeri, si tuffò coraggiosamente in acqua. Il tuffo avvenne non senza pericolo: il mare era infatti mosso ed anche per questo le diverse scialuppe sotto nave, che stavano imbarcando i naufraghi, mutavano di continuo posizione, tanto che nella caduta alcuni dei suoi compagni riportarono serie fratture. Nell’affollata scialuppa che lo raccolse finì a poppa sicché, quando fu accostata la nave francese egli avrebbe dovuto attendere del tempo prima di salirvi e invece, come aggiunge compiaciuto, fu il primo a mettere piede sulla nave sulla quale si arrampicò con una delle corde che erano state lanciate. Ricorda la gentilezza e la premura dimostrata dai soccorritori: bagnato e intirizzito com’era, prima gli fu data una coperta e poi una donna, membro dell’equipaggio, si sfilò il cappotto e lo rivestì. E finalmente poté farsi la doccia. Mostra la foto ingiallita che lo ritrae con un gruppo di superstiti all’arrivo a New York – tra loro anche Ugo Boccarossa, un ragazzo di appena 15-16 anni emigrante di Pietrafitta di Settefrati che dopo la collisione non aveva smesso di piangere e disperarsi – racconta del nugolo di fotografi e giornalisti che assediarono i sopravvissuti non solo all’arrivo ma anche nei giorni successivi a caccia di volti e di notizie sulle cause della collisione. Esse sono ancor oggi discusse – la responsabilità viene addossata ora alla nave svedese ora a quella italiana – ma il sig. Iacobelli non ha dubbi: l’«Andrea Doria», di fronte al pericolo in cui era venuta a trovarsi per il sopraggiungere della nave svedese, virò a sinistra invece che a dritta, come a suo giudizio avrebbe dovuto. Inoltre la virata fu eccessivamente brusca tanto che la nave cominciò da subito a imbarcare acqua e la situazione fu aggravata dallo stivaggio a suo dire non in equilibrio: fatti, questi, che, come sottolinea, furono accertati dalle indagini successivamente svolte. La compagnia di assicurazione offrì ai superstiti 500 dollari a ciascuno degli emigranti e 300 dollari a testa per i turisti ed egli accettò. Sebbene l’«Andrea Doria» avesse a bordo circa 1700 persone, i morti furono relativamente pochi – una cinquantina, alcuni dei quali passeggeri della nave svedese – e tra loro molti bambini che al momento della collisione dormivano nelle loro cabine: i genitori, che festeggiavano l’ultima notte di navigazione nei saloni da ballo, non avevano fatto in tempo a soccorrerli.
Intanto, a Casalvieri, i parenti erano in trepidante attesa del telegramma che Carluccio aveva promesso di inviare non appena giunto a destinazione. Sebbene fossero trascorse molte ore dal naufragio non ne avevano avuto notizia. In Italia era mattina e la moglie passeggiava nei dintorni di casa con i figli Olindo e Clara un po’ per ingannare il tempo ma anche nella segreta speranza di incrociare il postino con la lieta novella. Incontrarono invece una conoscente che gridò: «la nave è affondata!». Con il cuore in gola si precipitarono in casa e dalla radio ebbero la conferma. Si era salvato? Il dubbio atroce fu sciolto dopo lunghe e interminabili ore quando il telegramma finalmente arrivò.
Cinque anni dopo Carluccio fu raggiunto in America dalla moglie e dai figli. Le loro speranze si sono in pieno realizzate: molti anni dopo Olindo sarebbe giunto al vertice di una importante società americana, mentre Clara, dopo lunghi anni di insegnamento nell’Università di Washington, è oggi una colta e gentile signora. Quel vecchio proverbio, che in gioventù aveva a lungo tormentato il padre, aveva clamorosamente sbagliato.

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