Studi Cassinati, anno 2015, n. 3
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di Anna Maria Arciero
La prima guerra mondiale è stata definita in vari modi: «grande guerra», per l’alto numero di partecipanti; «guerra di massa», perché scoppiata nell’epoca della piena diffusione dell’industria, delle elezioni di massa e degli eserciti di leva; «guerra di movimento» come era nelle iniziali intenzioni del comando militare tedesco intenzionato a sconfiggere la Francia con una invasione a tempo di record, prima di dedicarsi ad est contro i Russi, ritenuti “lenti”; «guerra di posizione» come fu ribattezzata allorquando i due schieramenti iniziarono a fronteggiarsi nelle opposte trincee lungo il fiume Marna.
Anche sul fronte italo-austriaco la guerra fu «di posizione», con le trincee schierate l’una di fronte all’altra sulle alte montagne del nord est dell’arco alpino, con i soldati immersi per mesi e mesi nel fango putrido. Ma, dicono i libri di storia, la guerra italiana fu soprattutto «guerra di contadini» chiamati alle armi per esser esposti alla carneficina del Carso.
A giudicare dai risultati delle mie indagini nella zona di monte Trocchio, cento anni fa unicamente località a vocazione rurale, la definizione è azzeccatissima: tutte le persone della mia età hanno avuto almeno un nonno soldato della prima guerra mondiale. Personalmente ne ho avuti due, ma solo di uno ho qualche notizia, perché non mi stanco mai, ora, di curiosare – ah, perché non l’ho fatto quando erano ancora vivi! – domandare, scavare nei ricordi di qualche zia ancora vivente. Ma sono sempre scarsi i risultati: forse perché erano proprio loro, gli ex-combattenti, a non voler raccontare i particolari. Mi ha detto una mia coetanea che, da bambina, chiedeva spesso al nonno, Benedetto Sidonio, classe 1882, di narrare episodi di guerra; e il nonno raccontava ora un aneddoto, ora un’avventura, un pericolo scampato mentre guidava i muli carichi di pezzi di artiglieria su per i monti del Carso … ma quando lei, nell’ingenuità cruda propria dei piccoli, un giorno gli chiese. «Nonno, ma tu … quanti ne hai uccisi?» il nonno fissò lo sguardo nel vuoto e non rispose. Forse i nostri nonni volevano cancellare quei ricordi, obnubilandone la memoria, o forse, poveri fanti che avevano fatto la guerra di trincea, esposti al freddo, agli spari, al gas, erano così umili da ritenersi solo semplici pedine in mano ai generali. E d’altronde, loro, i generali, li spronavano ad avanzare, a combattere corpo a corpo “alla baionetta”, a lanciarsi allo sbaraglio sotto il tiro nemico. Li spronavano sì, ma stando ben lontani dal pericolo. Lo dice la storiografia moderna, che ha cominciato da poco a togliere quell’alone di enfasi dalla direzione di Cadorna e dalle gesta megalomani di D’Annunzio.
Furono chiamati alle armi tutti gli uomini e i giovani nati fino al 1899 (i «ragazzi del ‘99») ma vi presero parte anche giovanissimi della classe del 1900, partiti volontari quando si cercò la reazione alla disfatta di Caporetto o quando furono fatte promesse di ricompensa con la distribuzione di terra ai contadini. Dalle indagini condotte a S. Lucia di Cervaro è emerso che una famiglia ebbe tutti e cinque i figli maschi in guerra: Gaetano, Francesco, Angelo, Carmine ed Antonio D’Aguanno. Lo testimoniava sino a poco tempo fa una foto, ora introvabile, che immortalava i cinque fratelli in divisa militare. Un loro cugino, Antonio D’Aguanno, invece si era fatto fotografare vicino a uno dei primi aerei e la sua foto campeggia orgogliosa in un salotto moderno dei suoi discendenti. Ho notizie anche di due cugini, originari di contrada Foresta, sulla costa ovest di monte Trocchio, Palmerino e Francesco Sidonio, i quali fin dal 1906 erano emigrati in Inghilterra. Francesco pare fosse partito più per esentarsi dal fare il servizio militare che per cercare lavoro. Comunque lì aprì un negozio di gelati e caffè e face affari d’oro. Forse allo scoppio della guerra si sarà fregato le mani: non solo si era risparmiato il servizio di leva, ma anche la chiamata alle armi! Invece nel 1918 il governo inglese lo chiamò: o combatteva per l’Inghilterra o combatteva per l’Italia. La stessa richiesta anche a Palmerino. Così i due cugini scelsero di venire sul fronte italiano. Si presentarono al distretto di Torino e furono inviati subito al fronte. Francesco, carattere strambo ed egocentrico, aveva in petto tutti i risparmi del suo lavoro: piuttosto che lasciarli alla moglie e ai figli, aveva preferito portarli con sé. Palmerino invece aveva in petto solo l’amore per la moglie, Eugenia Tartaglia, che aveva fatto voto a S. Antonio di costruire una cappelletta votiva in suo onore se il marito fosse tornato sano e salvo dalla guerra. Cosa che avvenne. E la cappelletta, che porta la data del 1919, sta lì, in via Foresta, semplice, modesta, con la statuetta di gesso del Santo scortecciata dal tempo, a ricordare al passante stanco o distratto il ringraziamento genuino di una persona semplice che ha visto nel ritorno di suo marito sano e salvo dalla guerra un segno dell’intervento e della protezione di Dio.
Le notizie più dettagliate le ho di mio nonno Pietro Arciero, classe 1888, tramandate in famiglia come aneddoti, ma anche come segni emblematici della sua bontà, che evidentemente gli aveva fatto guadagnare la benevolenza divina. Nonno Pietro era emigrato in America nell’aprile del 1912. Per una felice intuizione si era salvato dall’imbarcarsi sul Titanic: a Napoli la sua nave era bloccata per un guasto e gli fu proposto di imbarcarsi con un piroscafo fino a Londra e poi proseguire il viaggio con il transatlantico più grande e moderno del mondo, al suo primo viaggio. Ma nonno Pietro fatalisticamente ragionò così: «Se la mia nave si è guastata, si vede che è destino che io debba stare ancora un po’ con la mia famiglia». E partì quando il problema fu risolto. In America lavorava in una fabbrica di automobili, alla Ford, e si trovava bene. Ma allo scoppio della prima guerra mondiale il governo italiano, per incentivare il ritorno in patria degli emigrati, offrì il viaggio di ritorno gratis. E nonno Pietro, desideroso di rivedere la sua famiglia, e anche per la bramosia di risparmiare il costo del biglietto più che per amor patrio, accettò di andare a combattere. A Napoli fu fatto salire sul treno che doveva portarlo prima a Frosinone e poi al fronte. Giunto a Cassino – una delle ultime notizie affiorate nei ricordi di una mia zia – scese di nascosto dal treno e scappò a casa per riabbracciare i familiari e conoscere la figlioletta – mia futura mamma – che era nata mentre lui si trovava in America. Il giorno dopo, però, da uomo d’onore qual era, si presentò al distretto di Frosinone per adempiere al suo dovere. Finì in una trincea, naturalmente, e quasi certamente ai confini della “terra di nessuno”, sull’Isonzo. Ma anche lì, in trincea, si rese protagonista di un evento singolare. È sempre la memoria storica che parla attraverso testimonianze orali tramandate. Nelle lunghe notti passate a far da sentinella, la trincea nemica era così vicina che nonno Pietro, uomo buono, umile uomo che sentiva l’inutilità della guerra, cominciò a parlare con la sentinella nemica che, anch’essa umile essere umano, rispose all’approccio vocale. Sembra di vederli, i due nemici, anzi sembra di sentirli. Un saluto timido … un nome: «“Io, Pietro”, “hei, Franz”, “hei Pietro, tu Franz”, “io Franz, tu Pietro”, “mia moglie Peppinella”, “ mein frau Gertrud”, “mein frau Peppinella“, “ mia moglie Gertrud”… ». E poi ogni notte una parola nuova, una notizia, una conoscenza … la luna, il fucile, le creature, la moglie, la fame … Si dovette certo arrivare ad un rapporto quasi amicale se l’uno imparò la lingua dell’altro. Episodi di conversazione tra i fanti in trincee opposte se ne trovano anche nell’interessante libro Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, classe 1890 e quindi combattente, il quale racconta che, nel corso di un attacco nemico, gli austriaci gridavano in italiano ai nostri: «Basta! Basta, bravi soldati! Non fatevi ammazzare così! Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano». Su altri fronti, fra le trincee dirimpettaie si scambiavano i canti: al Bel Danubio blu dei tedeschi rispondevano i nostri con O sole mio; oppure si scambiavano saluti misti a corbellature … o un salutino con la mano mentre si radevano al mattino … o pane e vino in cambio di tabacco e acquavite. Mio nonno Pietro imparò la lingua tedesca. E gli tornerà utile la conoscenza di questa lingua quando, nella seconda guerra mondiale, i tedeschi invaderanno la contrada di S. Lucia. Secondo me non sparò mai contro quella direzione e nemmeno il suo amico contro di lui. In trincea stette 17 mesi, tra fango, freddo, neve, pidocchi, in quello stato d’animo che Ungaretti descrive così bene: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie». Una volta, allorché allo sferrare di un attacco nemico non rimasero che in due, mio nono e un suo commilitone in preda alla paura si precipitarono giù per la montagna, così, allo sbaraglio. E si persero tra quei monti. Riuscirono a trovare la strada solo dopo otto giorni. Siccome quel suo compagno era il figlio di un comandante non si sentirono dire quello che ho letto recentemente sul libro di Aldo Cazzullo La guerra dei nostri nonni, e cioè: «Se aveste fatto il vostro dovere, ora non sareste qui!» come apostrofavano i rigorosissimi generali quei fanti che si salvavano. Ebbero una licenza premio e furono spostati a Livorno, a lavorare in una nave.
Come si nota, nonno Pietro raccontava solo episodi non cruenti; le atrocità a cui certamente aveva assistito le aveva seppellite nel cuore, se non addirittura rimosse. Nella sua sensibilità di uomo poco colto ma buono, mio nonno aveva capito che l’oblio, – inteso come la capacità di guardare avanti e il non preservare i motivi di rancore e di odio che generano una memoria ferita – è fondamentale per poter costruire il futuro e generare un società più giusta.
Oggi queste sensazioni, emozioni, esperienze vissute, ricordi trascritti sulla carta vogliono dire un sentito grazie ai nostri umili combattenti e, nello stesso tempo, dare un messaggio di pace e fratellanza e speranza.
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