Studi Cassinati, anno 2015, n. 1
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di Giovanni Petrucci
Albiano e Valleluce
Le prime “celle” nella «Terra di S. Benedetto», di rilevante importanza nella storia del monachesimo, furono fondate ad Albiano e a Valleluce, in relazione alla fertilità delle terre e ai numerosi abitanti che vi risiedevano e potevano assicurarne la coltivazione. Per la loro fondazione «furono scelte le zone più fertili e più popolate anche perché colà incombeva la necessità della cura spirituale degli abitanti»1.
Il primo era un pagus, alla sinistra del Liri, della vicina Interamna. Circa la sua estensione, «il Cagiano de Azevedo scrive che il numero di quattromila coloni fa ritenere il territorio loro assegnato dover essere di almeno 800 iugeri, pari a duemila ettari di terreno coltivabile»2 e più. Era ed è pianeggiante, aperto e distante da Montecassino dai 12 o 15 chilometri, e da considerarsi zona di confine. Tuttavia la posizione geografica non forniva dati di sicurezza ai monaci. Infatti si susseguirono nel giro di pochi anni disastrose incursioni saracene: nell’867, 870, 879 e molto prima, nell’831, insieme con gli Ungari. Non davano tregua: «coenobia, urbes et oppida omnia a Saracenis capta et exusta sunt»3.
A Valleluce la situazione geografica era completamente diversa. La località si trova a cinque chilometri a nord del Comune di Sancto Helia, adagiata alla falda sud di Monte Cifalco (m. 948 circa) e posta «in una conca a 368 metri sul livello del mare»4 come riparata dal suo massiccio baluardo. La ridente località di Sant’Elia si stende sicura, appartata sia da Casinum, sia dalla strada che risale e risaliva «le valli del Rapido e del Rio Secco verso Atina»5 a sud-est delle mura sannitiche di Campo Cierro, a m. 461 circa s.l.m., che sovrastano la piana di Olivella. È circondata da alture e sufficientemente protetto dalle correnti fredde. I terreni, specialmente quelli irrigui siti ai lati del fiume, dovevano assicurare rendite certe alla popolazione residente e fonte di benessere.
Le due celle furono fondate, nel 797, dall’abate Gisolfo, «clarissima Beneventanorum Principum progenies». La sua elezione segnò una svolta determinante nella storia ultramillenaria dell’Abbazia6. Egli intuì la necessità di dare un razionale assetto all’organizzazione curtense della Terra di S. Benedetto, assetto che, una volta realizzato, apportò tanti benefici economici, politici e morali al monachesimo benedettino. Aveva in mente un piano grandioso «che almeno sotto due punti di vista potremmo dire ambizioso: quello dell’incremento economico dell’Abbazia e quello della valorizzazione dei vasti ed estesi campi ad essa circostanti (cuncta in circuitu montana et planiora)»7, secondo confini che si ripetono nelle altre posteriori confinazioni8.
Nel 787, durante la quarta discesa in Italia iniziata l’anno precedente, Carlo Magno, mentre marciava alla volta di Benevento, salì all’Abbazia e confermò «il 28 marzo di quello stesso anno, i suoi beni, le immunità e – fatto notevole – il diritto alla libera elezione dell’abate»9.
Con la sua lungimiranza e ispirandosi sempre alla regola benedettina, Gisolfo aveva studiato su come mettere a frutto le terre che Montecassino aveva avuto in dono una quarantina di anni prima da un suo avo, Gisolfo II, duca di Benevento, donazione che, d’altra parte, è oggi dagli storici ritenuta come veritiera e sicura10. Tutto ciò richiedeva una perfetta organizzazione del lavoro con la presenza sul posto dei monaci per la direzione e la continua vigilanza. Allora l’abate illuminato iniziò, secondo le testimonianze di Leone Ostiense, opere importantissime: bonificò terre lungo il Rapido e, sotto il colle Janulo, costruì una meravigliosa Basilica con annesso un ampio Chiostro per i Monaci, che dedicò al Divin Salvatore11. Con lui «regnò una pace operosa e feconda»12. Fece così erigere le prime due celle a Valleluce e ad Albiano: «In loco etiam, qui Vallis Luci dicitur, ecclesiam in honore Sancti Angeli construxit. Nec non et ecclesiam sancto Christi martyri Apollinari in loco qui tunc temporis Albianus vocabatur»13.
la cella
La cella ha una notevole importanza nella storia del monachesimo benedettino. «Significat monasterium. Cella antiquitus congruebat Ecclesiis, ex quo pars templi sacratior cella appellabatur. ibid. Aliquando exprimitur ad designandum monasterium parvum ac dependens. ibid. Et Ecclesiam inferiorem respectu matricis. ibid. Et Ecclesiae subjectae monasterio principali […]»14.
«Chiesuola campestre, tenuta aperta al culto da uno o più monaci staccati da un priorato o abbazia. Per estensione, piccola azienda agraria benedettina, dipendente da una grangia o da un monastero»15.
Essa in sostanza si conformava alla curtis, secondo il capitolo LXVI della Regola16, basata essenzialmente su risorse agricole e sull’autonomia per la produzione; «costituiva la “domus culta”, intorno alla quale si estendevano le terre dominiche, cioè quelle condotte in economia, ossia lavorate dai monaci, dai servi e dai servi manomessi che avevano l’obbligo di prestare un certo numero di giornate lavorative, o “angariae”, all’anno»17. Era un piccolo monastero, dotato originariamente di una cappella che poi divenne chiesa, sottoposto a quello principale. Rappresentava praticamente il primo luogo dove trovava applicazione la regolamentazione del lavoro e della preghiera. È da meditare sul termine, che ci fa pensare non tanto alla piccola e disadorna camera del monaco, quanto alla parte più interna e chiusa di un tempio classico in cui era custodito il simulacro della divinità.
la cella di valleluce
I monaci benedettini, dopo l’incursione dei Longobardi di Zotone che causarono la prima distruzione dell’abbazia cassinese, si rifugiarono nei pressi della Basilica del Laterano a Roma. «Attorno al 720 papa Gregorio II decise di ridare vita al monastero cassinese, inviandovi, con l’assenso dei duchi di Benevento, Petronace da Brescia»18 insieme con molti monaci residenti in Roma.
Quindi la “cella” di Valleluce sorse 278 anni dall’arrivo a Montecassino di S. Benedetto e 77 dalla ricostruzione di Petronace19. Essa, data l’operosità dei monaci e dei contadini che vi risiedevano e la fertilità di alcuni terreni, specialmente di quelli posti lungo il Rio, o situati nella parte bassa con la presenza di numerose sorgenti, accrebbe subito la sua importanza. Ciò fu dovuto alla sua perfetta organizzazione.
Fra i monasteri di S. Benedetto in Belmonte Castello, quello femminile di S. Maria in Piumarola, di S. Salvatore in Cucuruzzo, di S. Salvatore in S. Germano, di S. Pietro della Foresta, di S. Gregorio in Aquino, di S. Maria dell’Albaneta, di S. Nicola de Ciconia e di altri, sorti nelle vicinanze del sacro Monte, quello di Valleluce ebbe più stretti rapporti con la sede centrale: «[…]de dicta ecclesia S. Angeli, quae membrum nostri monasterii Cassinensis extitit[…]»20.
Successivamente l’abate Aligerno (948-985), il secondo grande «restauratore» di Montecassino, si propose di ripopolare le campagne della «Terra di S. Benedetto», abbandonate in seguito alle scorrerie degli Arabi. Attrasse perciò con favorevoli patti agrari21 nuove famiglie dalle regioni confinanti che non avevano conosciuto i gravi danni provocati dalle scorrerie dei musulmani22. Per la Chiesa di Valleluce sono dello stesso parere di Sabatino Di Cicco non ritenendo che essa sia stata distrutta dai Saraceni nell’anno 883 né i suoi territori saccheggiati, come pure è stato scritto, in quanto appartati e nascosti23.
Il monastero andò sempre crescendo e assunse tanta rinomanza che ospitò persone illustri e nel secolo X una comunità italo-greca, che faceva capo a San Nilo24.
All’ombra delle sue mura vissero santi, S. Nilo, S. Bartolomeo, S. Adalberto, S. Pietro abate e lo ressero prepositi provenienti da importanti città d’Italia e anche dall’estero.
restauri e concessioni
Un paio di secoli dalla fondazione l’abate Atenolfo (1011-marzo 1022)25 restaurò la chiesa, ormai bisognosa di interventi, perché «vetustam», ne ampliò il titolo, chiamò degli artisti per abbellirla con affreschi, accrebbe il monastero di terreni della valle e lo dotò di numerosi laboratori, come quelli del pellicciaio, del sarto, del calzolaio e di altre attività, consolidando la sua parte vitale del monachesimo26. È rilevante notare che il monastero di S. Angelo comparve elencato in alcuni privilegi papali in favore di Montecassino, da quello di papa Zaccaria, Bolla del 74827, ad altri28, fino al diploma dell’imperatore Lotario III (1137)29.
L’abate Adenolfo (marzo 1211-agosto 1215) si adoperò perché qui sorgessero altre botteghe di artigiani sarti e venissero ripristinati il valcatorio e il mulino necessari alla locale comunità e anche alla sede principale, confermò i beni concessi dall’abate Raynaldo (1137-1166) e ne aggiunse molti altri trascritti in un diploma30.
Dopo l’occupazione di Montecassino da parte delle truppe imperiali, avvenuta il 24 marzo 1239, in seguito alla quale esso «fu ridotto per circa 26 anni a spelonca di ladroni e l’abate […] privato della sua giurisdizione civile»31, vi trovarono rifugio i suoi monaci.
L’importanza della Prepositura è testimoniata:
– dal peso amministrativo che si desume dai numerosi strumenti stipulati nel secolo XIII e successivi32;
– dalla presenza dell’Abate che non di rado doveva intervenire di persona per risolvere attriti33;
– dai suoi possedimenti che si estendevano non solo nelle fertili terre, come quelle della Limata, di Sancto Helia, ma fin nella pianura di S. Germano;
– dall’inventario dei testi utilizzati per gli uffici quotidiani, cioè dal patrimonio librario. Infatti esso risulta superiore a quello delle chiese di campagna di S. Nicola, di S. Onofrio e di S. Maria Maggiore e alle altre del castrum stesso di Sancto Helia: di S. Biagio, di S. Cataldo e di S. Maria Nova34. Ė a questo punto opportuno evidenziare che il «Nocturnale unum magnum quod est Montis Casini» serviva anche per il dipendente monastero di Valleluce;
– dai prepositi che vi operarono, provenienti da città italiane come Firenze, Cineto Romano (Roma), Marano (Parma), Montauro (Catanzaro), Zola (Bologna), Cornedo (Vicenza) o anche da qualche Stato europeo;
– dall’esistenza di due ospedali: uno fondato, dall’abate Landolfo Sinibaldo (1227-1236) nell’anno 1228, l’altro in S. Croce in Clia;
– dallo scriptorium, dove i monaci realizzavano il labor e si impegnavano, soprattutto sull’esempio di S. Nilo, a studiare e a trascrivere le vite dei Padri e a tradurre testi dal greco35.
* Dal mio manoscritto Il Monastero di Valleluce, duecentosettantotto anni dopo la fondazione di Montecassino.
1 L. Fabiani, La Terra di S. Benedetto, Montecassino 1979, Vol. II, p. 208.
2 G. Coreno, Sant’Apollinare, origine e storia, Itri 1977, p. 16.
3 Erchemperto, La storia dei Longobardi, Cassino 1999, C. 79; C. 35: «[…]funditus depopularunt, ita ut deserta sit veluti in diluvio[…]»; C. 51: «Inter haec Saraceni totam supradictam terram crudeliter laniabant, ita sit desolata terra cultoribus, serpibus et vepribus repleta fatiscat[…]»; D. Celestino, I Longobardi tra Tevere, Garigliano e Volturno (VI-X sec), San Donato V. Comino 2014, da p. 53 a p. 72.
4 S. Di Cicco, L’acquedotto romano da Valleluce a Cassino, Valleluce 1995, p. 9.
5 G. F. Carettoni, Casinum, Regio I – Latium et Campania, Istituto di Studi Romani, Roma MCMXL, p. 39.
6 G. Falco, Lineamenti di storia cassinese dall’VIII all’XI secolo, Montecassino 1929, p. 253: «Chi dà all’espansione del chiostro un netto indirizzo pratico è Gisolfo. L’angustia degli edifici e del luogo in confronto al numero dei monaci, e la difficoltà delle comunicazioni rendevano impossibile raccogliere la comunità intera o gran parte di essa nel monastero superiore. In basso presso San Michele, o presso il monastero di Petronace sul Rapido, o presso qualche altra cella, le costruzioni erano altrettanto insufficienti e i monaci vi stavano a disagio. Ormai bisognava risolvere. D’altronde in passato, specie negli ultimi anni di raccoglimento, il chiostro era venuto accumulando tale quantità di ricchezze, e tante ne veniva raccogliendo con le nuove donazioni, che poteva senza scrupoli affrontare grandi lavori e dar mano a uno stabile assetto della comunità. Per far questo non occorreva che un uomo pratico e risoluto; com’era appunto l’abate della famiglia ducale beneventana. Per opera sua si costruivano al basso due nuove chiese: Sant’Angelo di Valleluce e Sant’Apollinare, sorgevano sul monte alcuni nuovi edifici ad uso di abitazione, la chiesa che accoglieva la tomba del Santo veniva arricchita d’ori, d’argenti, di smalti, il culto assumeva una magnificenza inusata fino allora».
7 G. Coreno, S. Apollinare, origini e storia, da Cella Benedettina a Comune della Repubblica, S. Apollinare 1997, p. 7.
8 E. Pistilli, Castrum Casini. I confini della Terra di S. Benedetto dalla donazione di Gisulfo al sec. XI, Cassino 2006, p. 7. Per quanto riguarda i luoghi di confine della Terra di S. Benedetto è necessario seguire lo studio citato, fatto sulla base di conoscenze dei luoghi da parte dell’autore, e «grazie all’apporto di mezzi più moderni ed attendibili, quale una più precisa e versatile cartografia, grazie, soprattutto, alle riprese aeree e satellitari del territorio».
9 M. Dell’Omo, Montecassino Un’Abbazia nella storia, Montecassino 1999, p. 27.
10 L. Fabiani L., La Terra … cit., vol. I, p. 19.
11 T. Leccisotti, Montecassino, Montecassino 1983, p. 35: «[…]La potenza econo notevolmente accresciuta permette l’inizio di una organizzazione fondiaria, mentre intensa è l’attività edilizia. […]fu Gisolfo a risolvere in modo deciso e stabile il problema delle abitazioni e dell’organizzazione amministrativa».
12 L. Fabiani L., La Terra … cit., vol. I, p. 27.
13 Leone Ostiense, Chronica Monasterii Casinensis, I, 5 CDMS, Hannoverae, Impensis Bibliopolii Hahniani, MCMLXXX, pp. 56-59.
14 E. Gattola, Historia Abbatiae Cassinensis, Venezia 1333, vol. II, p. 974.
15 Dizionario Enciclopedico Italiano, V. III, voce cella, p. 60.
16 A. Lentini, S. Benedetto, La Regola, Montecassino MCMXLVII, Capo sessantaseiesimo, pp. 576-578: «[…]Monasterium autem, si possit fieri, ita debet constitui, ut omnia necessaria, id est aqua, molendinum, hortus, vel artes diversae, intra monasterium exerceantur, ut non sit necessitas monachis vagandi foris, quia omnino non expedit animabus eorum […]».
17 L. Fabiani L., La Terra … cit., vol. II, p. 208.
18 E. Pistilli, Il Privilegio di Papa Zaccaria del 748, CDSC, Cassino 2009, p. 10.
19 L. Fabiani L., La Terra … cit., vol. I, p. 12.
20 E. Gattola, Historia Abbatiae … cit., vol. I, p. 206. Lo storico riporta nella pagina per ben due volte tale importante breve affermazione di Leone Ostiense.
21 L. Fabiani L., La Terra … cit., vol. I, p. 50: Venivano concesse alle famiglie «terre a condizioni vantaggiosissime, cioè dietro corresponsione della settima parte del raccolto di grano, orzo e miglio, e la terza parte di quello del vino. Tutto il resto rimaneva a loro totale beneficio. I coloni, poi, erano liberi di stare o di andarsene quando, dove e come loro piacesse».
22 T. Leccisotti, La definitiva configurazione giuridica della giurisdizione spirituale cassinese, in «Bollettino Diocesano», gennaio-febbraio 1972, p. 70: «Ma sarà sotto il governo dei suoi successori che vedremo affermarsene la giurisdizione spirituale sul Cassinate, in conseguenza della colonizzazione monastica, ossia della formazione dei centri abitati intorno alle celle, ove i monaci attendevano alla bonifica delle terre loro donate».
23 J.F. Guiraud, Économie et Société autour du Mont-Cassin au XIIIe Siècle, Montecassino 1999, p. 27.
24 C.D. Fonseca, Montecassino e la civiltà monastica nel Mezzogiorno medioevale, Montecassino 2008, p. 166: «Testimonianze sulla presenza di monaci greci risalgono alla fine del secolo X trasmigrati dalla Calabria in seguito alle scorrerie saracene, a cominciare dallo stesso S. Nilo di cui sono noti gli intensi rapporti con Montecassino e la concessione del monastero di Valleluce[…]».
25 L’abate Atenolfo (1011-1022) non può essere confuso con l’altro abate Adenolfo (1211-1215) di due secoli dopo, che confermò i beni concessi a Valleluce dal suo predecessore Rainaldo II (1137-1166), perché il primo è citato nella Cronaca di Leone Ostiense (1046 circa – 1115 o 1117) terminante con gli avvenimenti dell’anno 1075; quindi il cronista non poteva conoscere l’abate Adenolfo (1211-1215).
26 E. Gattola, Historia Abbatiae … cit., vol. I, p. 206. Il Gattola riporta il seguente passo di Leone Ostiense: «Vallis lucis monasterium instauravit etiam Athenulphus teste Leone Ostiensi ibidem hisce verbis: Ecclesiam S. Angeli, quam olim Gisulfus Abbas in Valleluci construxerat, jam vetustam restaurans, tutulo addito amplians, atque depingens, possessionibus non paucis adauxit, et diversas sibi (per altri ibi) ad Monachorum utilitates officinas instituens, nostratium Monasterium esse constituit, quod eatenus Graecorum extiterat».
27 E. Pistilli, Il Privilegio di Papa Zaccaria … cit., p.45.
28 M. Dell’Omo, Per la storia della Diocesi Cassinese, S. Angelo di Valleluce in «Bollettino Diocesano», n. III, 1989, pp. 137-141.
29 E. Gattola, Historia Abbatiae … cit., vol. I, p. 250.
30 Ivi, p. 206.
31 T. Leccisotti, Montecassino … cit., p. 71.
32 Dai regesti sotto riportati risultano una cinquantina di libelli livellari stipulati nell’interesse del monastero di Valleluce dal 1236 alla fine del secolo, nei Regesti Bernardi Abbatis essi sono 21.
33 Tommaso Leccisotti ne riporta 34 (T. Leccisotti, Regesti dell’Archivio di Montecassino, Vol. VI, Roma, 1971, pp. 268-285).
34 M. Inguanez, Catalogi Codicum Casiniensium Antiqui (VIII-XV), Montis Casini 1941, XIX, p. 74.
35 M. Dell’Omo, Per la storia della Diocesi Cassinese … cit., p. 138.
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