Convegno di studi sul medico Anselmo Barone


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Studi Cassinati, anno 2014, n. 2
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È stato un successo pieno il Convegno organizzato dall’Associazione Culturale «Ad Flexum» sulla figura del medico sampietrese Anselmo Barone svoltosi sabato 22 marzo 2014 a San Pietro Infine assieme alla presentazione della ristampa di due volumi scritti da Anna Barone (figlia di Anselmo, prematuramente scomparsa nel 1985) e cioè Don Ansè e La primavera non è tornata a Cassino (Edizioni Eva).
In una sala che ha visto una folta e qualificata partecipazione di pubblico proveniente anche dai centri limitrofi, dopo l’introduzione del presidente dell’Associazione «Ad Flexum», Maurizio Zambardi, e i saluti del sindaco di San Pietro, Giuseppe Vecchiarino, si sono alternati i relatori Aldo Zito, Amerigo Iannacone, Ida Di Ianni, Paolo Bianco, Pialuisa Bianco e Anselmo Barone, quest’ultimi tre nipoti diretti del compianto medico sampietrese. Un convegno che ha tenuto sempre desta l’attenzione del pubblico, nel corso del quale non sono mancati momenti di forte commozione e anche qualche lacrima  da parte dei familiari. Al termine delle relazioni è stato proiettato un breve ma significativo video incentrato sul ricordo del medico Barone attraverso varie interviste agli anziani del paese. Diversi sono stati anche gli interventi del pubblico presente in sala con tanti che hanno voluto portare il loro personale ricordo del dott. Barone e da tutte le testimonianze è emerso l’elevato livello di stima e rispetto di cui godeva fra i sui compaesani. Quindi i partecipanti si sono portati nel vecchio centro di San Pietro Infine dove è stata scoperta una lapide, benedetta da monsignor Lucio Marandola, che riporta l’epigrafe de «l’invocazione al pellegrino» di Anna Barone. La serata si è conclusa degnamente con l’intitolazione della strada che fiancheggia la casa Barone al medico Anselmo Barone. I familiari hanno poi voluto salutare i partecipanti con un rinfresco allestito proprio nella villa che fu di don Anselmo Barone.

Anna Barone, Don Ansè, Edizioni Eva, Venafro 2014, pagg. 344, f.to 14,5×21, ISBN 978-88-96028-97-1, € 17,00.

Anna Barone, La primavera non è tornata a Cassino, Edizioni Eva, Venafro 2014, pagg. 213, f.to 14,5×21, ISBN – 978-88-96028-96-4, € 15,00.

Il romanzo, datato «13 settembre del 1945» («nella zona di Cassino»), uscì nel marzo 1947 per i tipi dell’Istituto Grafico Tiberino di Roma ed è stato quindi ripubblicato nel 2014. Rappresenta l’inizio dell’attività letteraria di Anna (Marianna) Barone (1921-1985), nata e vissuta negli anni dell’infanzia e della gioventù a San Pietro Infine.
Nel 1959 ha pubblicato il suo secondo romanzo Don Ansè, incentrato sulla figura del padre. Tra gli anni Sessanta e Settanta è stata docente di Critica Letteraria presso l’Università degli Studi di Bari pubblicando vari articoli e saggi letterari e dedicandosi, in particolare, alla ricerca e allo studio delle opere e della figura di Francesco De Sanctis.
La primavera non è tornata Cassino non può, tuttavia, essere considerato un romanzo, nel senso pieno del termine, né può essere considerato semplicisticamente un diario dei drammatici, lunghi mesi in cui la guerra, con il suo carico di violenze, privazioni e mortificazioni, ha sostato sul territorio nel quale viveva l’autrice assieme alla sua famiglia (il padre Anselmo era il medico del paese) e poi dell’umiliante esperienza dello sfollamento.  È invece il racconto della discesa dell’animo umano negli inferi, con risalita, ma non per tutti; è una lucidissima analisi della trasformazione operata in quell’animo da eventi del tutto eccezionali come la guerra, dispensatrice di morte talvolta anche in modo gratuito e senza motivo e che lo trasfigura e ne provoca l’imbarbarimento. Quella guerra che «ha smascherato l’uomo» perché con essa vengono a prevalere sentimenti dai connotati fortemente negativi come malvagità, brutalità, bestialità cui si aggiungono egoismo, individualismo, falsità e ipocrisia mentre, contemporaneamente, si smarriscono quelli della solidarietà, della fratellanza, della bontà.
La pacifica convivenza di uomini e donne di una tranquilla terra posta all’ingresso del meridione d’Italia, che si riteneva immune dagli orrori della guerra, è spezzata e sconvolta d’un tratto dal suo arrivo. Nel lasso di tempo in cui la guerra sosta su tale territorio e poi nei luoghi di sfollamento nessuno si sottrae alle brutalità, alle bestialità da essa stessa generate. Non si sottraggono le truppe tedesche giunte a San Pietro Infine, non si sottraggono le famiglie sampietresi, non si sottraggono gli abitanti di quelle città in cui si rifugiano i profughi.
I tedeschi che arrivano a San Pietro all’inizio di ottobre del 1943, già di per sé difficili alleati, appaiono ancor più inferociti per il “tradimento” italiano dell’8 settembre e più incattiviti dopo la battaglia urbana con cui la popolazione partenopea li aveva cacciati da Napoli. Essi si comportano come un «nemico spietato ed accanito il quale non ammetteva tergiversazioni ai suoi ordini», qualunque fossero, capaci, in caso contrario, di dispensare un’unica tipologia di punizione: l’eliminazione fisica. Essi sconvolgono i lenti e pacifici ritmi di vita di tutte le popolazioni di quei territori ubicati tra le varie linee difensive da approntare velocemente nell’Italia centro-meridionale per contrastare l’avanzata degli alleati. E allora eccoli alla ricerca spasmodica di giovani e uomini da utilizzare per le opere di difesa, persone considerate alla stregua di «selvaggina pregiata» da cacciare, da stanare con le SS tedesche che profondevano «tanto impegno e tanto acume» per scovarle, «giravano ovunque, rovistavano ovunque» nelle case e in montagna e finivano per scovare sempre la preda, e poi «non si davano ugualmente pace ma continuavano la caccia, tra insulti e volgarità e spintoni e calci»; eccoli impegnati a occupare le migliori case del paese, a devastarne tante altre; eccoli intenti a saccheggiare e razziare le ricchezze, le risorse naturali, i prodotti locali (olio, animali da cortile, d’allevamento e da lavoro, generi alimentari), gli oggetti materiali (beni preziosi, oro, argento, persino le più banali suppellettili di una casa) cui si accompagnavano persino prepotenze di giovani italiani di Trieste in divisa tedesca che non si facevano scrupolo di minacciare di vita una giovane donna in cambio di merce di poco valore come cento lenzuola.
Il progressivo avvicinamento del fronte di guerra e l’aumento dell’intensità dei bombardamenti aerei e dei cannoneggiamenti costrinse la popolazione civile di S. Pietro a cercare scampo e rifugio nelle grotte (Spaventa, Gradini o Giardini, Valle, Forgione) delle montagne vicine. Una vita che finì per trasfigurare quelle persone a causa delle difficoltà incontrate e delle sofferenze patite, con sete, fame, insonnia, paura, terrore, malattie, morte che accompagnavano quotidianamente quegli sfollati. In tali condizioni di promiscuità, di caduta di ogni distinzione sociale, di mancanza di pudore, ben presto si andarono affermando l’egoismo e l’individualismo delle persone con genitori che contendevano ai figli le posizioni all’interno delle grotte ritenute più sicure, con «l’uno [che] spingeva l’altro alla morte per poter sopravvivere». In esse si soffriva, non si riusciva più a versare lacrime «neppure per la propria madre» appena morta, si partoriva anche, si moriva di inedia, di sete, per le schegge, per il mitragliamento dei tedeschi che sospettavano un «covo di banditi» e nell’abbrutimento totale nelle «viscere» delle montagne mancarono solo gli atti di antropofagia, di cannibalismo. Invece quando poi iniziò il trasferimento coatto si giunse a perdere persino usanze millenarie come il seppellimento dei morti poiché «non si esita[va] a sollevare un cadavere e gettarlo per strada da un treno come se si trattasse di un pacco di giornali vecchio».
Per parte della popolazione, infatti, era iniziato lo sfollamento a Roma o al nord dove tutti giunsero «laceri, sudici, sfiniti, affamati».
Nella capitale gli esuli furono «malmenati, umiliati, schivati» e, infine, scacciati. Per i profughi del Cassinate non ci fu attenzione, non ci fu considerazione, ancora meno rispetto agli sfortunati ebrei. Se per le famiglie israelitiche si aprirono le porte dei conventi, dei monasteri e venne offerto loro aiuto, asilo, rifugio e cibo, per i profughi, per gli esuli del Cassinate non ci fu carità e tutto a essi venne rifiutato. Non avevano soldi né cibo. Ammucchiati nelle scuole, negli edifici scolastici dove «non c’erano giacigli, non c’erano coperte», dormivano sulla «dura pietra del pavimento». Taluni abitanti della capitale offrivano ai profughi che provenivano da Cassino e dalle zone limitrofe una solidarietà solo di facciata, come il fornaio che poi di fronte alla richiesta di uno «sfilatino di pane» si dimostrava inflessibile nell’applicazione rigorosa delle disposizioni di legge e, ligio ai propri doveri di cittadino integerrimo, negava quel tozzo di pane perché chi lo chiedeva umilmente (una «profuga petulante col suo lamento di malaugurio») non era in possesso della tessera annonaria e dunque non poteva averlo né ne aveva diritto, dando prova di un’ipocrisia di fondo fatta di avidità perché «quel che avanza[va], oh! non molto, qualche quintale a chiusura di negozio a sera» veniva rivenduto al mercato nero allo scopo di poter comprare una pelliccia di astrakan alla moglie per Natale, come aveva già fatto il macellaio per la propria consorte. Un vero e proprio atto di accusa lancia l’autrice nei confronti della popolazione romana che non provava «pudore né vergogna» nell’ostentare la propria ricchezza di fronte «a tanta umanità sofferente», cioè agli esuli, e che ovunque, anche nei rifugi antiaerei, si scagliava «apertamente» contro i profughi con quell’«accento volgare particolarmente efficace nelle imprecazioni e nell’improperio». Neppure amici e parenti originari di S. Pietro Infine che da anni risiedevano a Roma offrirono soccorso e aiuto a quei derelitti che andavano «a mendicare la [loro] gentilezza». Ricevuti con un «sorriso stereotipato sulle labbra» da quei compaesani «colpiti d’un tratto da itterizia», venivano messi «elegantemente alla porta» o, al massimo, ospitati per una sola notte nel bagno.
C’è un solo luogo, secondo l’autrice, in cui i profughi poterono contare sull’aiuto morale e materiale delle popolazioni locali e cioè il Veneto (ad esempio in provincia di Verona i sampietresi si ritrovano nei Comuni di Cavriana, Gazzuolo, Monzambano, Sona oltre che nel capoluogo). Un richiamo che l’autrice manifesta per due volte (a p. 105 e p. 121) forse proprio perché intende sottolineare, ribadendolo, che di fronte a tanto abbrutimento, a tanta disumanità e crudeltà esiste un barlume di speranza, di salvezza per l’uomo. Offre anche la motivazione di questo suo pensiero, sostenendo che «soltanto nei paesi del Veneto, dove il ricordo della guerra del 1914-1918 era ancora vivo, dove ancora la resurrezione aveva lasciato negli animi il ricordo del passato lacrimoso, i profughi trovarono comprensione e solidarietà umana, che, se non poteva soffocare il pianto della tragedia, sapeva almeno confortarlo».
Solo lo sfondamento della linea Gustav e lo spostamento del fronte di guerra poté consentire il ritorno di quelle genti. «Scesero dopo la battaglia i superstiti delle grotte», poi tornarono gli sfollati, i profughi, trovando una «devastazione lugubre, senza fine». «La guerra è un fulmine, ma le sue conseguenza morali e materiali si ripercuotono a lungo sulle vittime» e infatti la gente continuò a morire a causa degli ordigni inesplosi o delle mine tedesche disseminate dappertutto, a causa delle malattie, della malaria, continuò a patire e soffrire con le abitazioni distrutte, devastate e la terra non coltivabile, continuò a prevalere «prepotente e irrefrenabile l’istinto» di chi si approfittò di beni e terre altrui impossessandosene, di chi cedette alla vendetta giungendo a infierire sui cadaveri. Anche l’autrice ritorna nella sua terra ma stenta a riconoscerla. È tutto cambiato, è «tutto diverso» sia nell’animo di chi ha provato l’infernale esperienza della guerra e dello sfollamento sia nel paesaggio con i monti «attoniti» e la valle «sconvolta, martoriata ed arsa», fino al grido di disperazione finale per capire, per conoscere «perché tanto male su di noi che a nessuno osammo mai far male?» (GdAC).

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