Memorie di un IMI (internato militare italiano/italianische Militär-internierte) – Domenico Pacitto classe 1915

 

Studi Cassinati, anno 2013, n. 4
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di  Francesco Di Giorgio

4-08Domenico Pacitto, nato a Cassino il 19 aprile 1915, persona nota a molti nella sua città, nel Cassinate e nella Regione Lazio per la sua attività lavorativa (essendo stato prima controllore e poi sovrintendente delle Ferrovie dello Stato) e per le sue attività sociali (fu per circa un ventennio fino, al 1977, presidente del comitato per i festeggiamenti della Madonna dell’Assunta in Cassino nonché fu fondatore del dopolavoro ferroviario con annesso centro bocciofilo che, nel corso degli anni, sfornò diversi campioni nazionali) non amava parlare della vicende relative alla guerra mondiale, della vita militare e dei suoi trascorsi in guerra né ha mai partecipato, a differenza di tanti suoi coetanei, alle tante cerimonie svolte in onore dei caduti a fianco dei reduci e combattenti. Eppure Domenico Pacitto la guerra l’aveva vissuta sulla sua pelle e ne aveva conosciuto tutte le atrocità, ma la sua ritrosia e, forse, la necessità di allontanare da sé tutte le umiliazioni subite, lo tenevano lontano da tutto ciò che poteva ricordare la guerra (di Benito Mussolini soleva dire: «come capo di governo della Nazione italiana lo giudicherà la storia, a me ha tolto gli anni della gioventù e questo non gli può essere perdonato»).
Dal foglio matricolare e caratteristico risulta insignito di diverse onorificenze.
– Croce di guerra al valor militare come ricompensa per azioni guerresche in Africa Orientale. Geniere r.t. della 8ª compagnia mista genio, VIII battaglione CC. NN., ne fu insignito dal ministero dell’Africa orientale con Regio decreto 26 ottobre 1939-XVII, registro Africa Italiana, foglio 96, con la seguente motivazione: «radiotelegrafista in servizio presso una stazione radio al seguito di una colonna in operazione di polizia, durante un combattimento cooperava con perizia e sangue freddo alla installazione e messa in funzione della stazione stessa. Nei momenti di libertà dal suo turno di servizio all’apparato, si portava sulla linea e contribuiva coraggiosamente alla difesa di importante posizione conquistata. Inoltre, improvvisatosi infermiere si prodigava nell’aiutare il medico a curare i feriti. Esempio di coraggio ed attività»;
– Croce al merito di guerra per internamento in Germania conferita con provvedimento del Comandante militare territoriale di Roma del 5 agosto 1955;
– Autorizzato a fregiarsi del distintivo della guerra di liberazione istituito con decreto del Presidente della Repubblica in data 17 novembre 1948.
Domenico Pacitto ha combattuto in Africa, in Grecia ed Albania. Ha fatto parte della sfortunata Divisione «Acqui» e con essa ha condiviso le sfortunate peripezie a causa delle conseguenze dell’8 settembre 1943. Catturato dalle forze armate tedesche il 20 settembre 1943, fu internato nei lager nazisti; liberato prima e trattenuto poi dall’esercito sovietico dell’Armata rossa il 22 agosto 1944, venne rimpatriato il 28 marzo 1946.
Anche Domenico Pacitto è stato dunque un IMI (internato militare italiano/italianische Militär-internierte). Sulla storia degli IMI in tutti questi anni è stato steso un velo di oblio. È anche per questo che alcuni studiosi hanno parlato di veri e propri «dimenticati di stato». Alla fine del 2012 una commissione di storici, insediata dai governi della Germania e dell’Italia con il compito di definire storicamente la vicenda degli IMI, ha stilato un documento con il quale si descrivono le vicende legate alle sorti dei militari italiani internati in Germania, ma sostanzialmente le conclusioni definitive sono state rinviate, rimandandole alla luce di ulteriori approfondimenti da fare anche sulla scorta di memorie lasciate dai diretti interessati.
Delle vicende legate all’esperienza in tempo di guerra Domenico Pacitto non ne hai mai fatto pienamente partecipe la sua famiglia. Invece alcune vicende relative agli anni vissuti sui vari fronti di guerra, alla prigionia, all’internamento nei lager nazisti e russi, le ha affidate a memorie redatte con una vecchia macchina da scrivere, la mitica «lettera 33», che sono state recentemente ritrovate dai familiari e che si ritiene utile, proprio in occasione del settantesimo anniversario dell’inizio di quelle vicende, proporre in estratto:
«Soldato di leva nell’ottobre 1935 lasciato in congedo illimitato, fui richiamato alle armi nell’aprile 1936 e inviato in Africa orientale aggregato, quale marconista, ad una colonna di stanza a Massaua in partenza per Addis Abeba. Durante il viaggio attraversammo posti orribili e difficili da far digerire alla vista: ai fianchi delle strade (mulattiere) vi erano corpi di soldati italiani mutilati in più parti del corpo e ricomposti come se stessero dormendo. Visione orrenda per chi veniva da luoghi lontani dalla guerra.
Da Addis Abeba, dopo breve sosta, ripartimmo alla volta di Ambò, villaggio sperduto a circa 150 chilometri dalla capitale. Era quella la zona in cui io e il mio contingente eravamo assegnati: un agglomerato di casupole di paglia dove la vita si presentava molto improbabile.
Erano di stanza in quel luogo già da diverso tempo diversi soldati ed ufficiali con a capo un colonnello. Dopo qualche giorno fui chiamato al comando per conferire con il generale Vittorio Belly, appena arrivato, con il quale avrei dovuto condividere delle missioni.
Mentre scrivo sento addosso un tremore ancora oggi; a distanza di tempo sento l’orgoglio di aver collaborato con una persona degna di rispetto e ammirazione. Il generale ci disse che saremmo partiti il giorno dopo per operazioni di polizia nel Goggiam.
Il contingente era formato dalla 4^ compagnia autonoma del 1° battaglione coloniale e da una sezione della 18^ batteria del IX gruppo coloniale. Il giorno dopo, come da decisioni, partimmo per questa spedizione che ci portò per molti giorni attraverso boschi e pianure in continui combattimenti con i ribelli. Al nostro fianco combatteva una colonna di circa 3000 abissini agli ordini di ras Hailù liberato dai nostri soldati dalle prigioni di Hailè Selassiè (il negus neghesti).
Ogni mese circa si rientrava ad Ambò e dopo solleciti rifornimenti, si ripartiva. Il nemico più difficile da affrontare era il ras Abebè Aregai (definito il più celebre patriota dell’Etiopia orientale). Fu proprio quest’ultimo che inflisse le peggiori perdite al nostro contingente: 200 ascari, un nostro capitano, due tenenti, un sergente maggiore. Un sottotenente di Pontecorvo, ferito, riuscì a fuggire con un cavallo e a sottrarsi a morte sicura dopo una fuga di dieci chilometri.
La croce di guerra che mi fu attribuita si riferisce proprio a una vicenda relativa a queste missioni.
Tornai in Italia nell’aprile del 1939 per sostenere gli esami di concorso in ferrovia come da convocazione del Ministero delle comunicazioni. Grazie all’esito positivo dell’esame di concorso che mi assicurava un posto di lavoro in ferrovia, non tornai più in AOI (Africa orientale italiana ndr).
Purtroppo il mio rapporto con la vita militare era comunque destinato a continuare. Nel settembre 1939 fui richiamato. Successivamente, imbarcato a Bari, fui inviato nell’Egeo all’isola di Rodi. Inviato in licenza straordinaria nel settembre 1940, fui poi collocato in riserva.
Nel maggio 1941 fui richiamato alle armi presso l’8° genio per esigenze di carattere militare eccezionale ai sensi della circolare 32760 e, nominato marconista effettivo, inviato in Albania. Qui, nel palazzo reale di re Zog, mi fu consegnata una radio trasmittente che mi accompagnò per molto tempo delle operazioni militari cui partecipai. Successivamente (luglio 1943) fui trasferito a Corfù in Grecia inquadrato nella 33^ compagnia mista radiotelegrafisti divisione “Acqui”; qui mi fu assegnata la responsabilità della stazione radiotrasmittente in comunicazione continua con Bari. Alla data dell’8 settembre 1943 iniziarono i problemi e, a finire, il dramma. A causa della firma dell’armistizio, rimanemmo senza ordini e disposizioni. Io stesso, in quanto radiotelegrafista responsabile della stazione, fui testimone diretto dei colloqui tempestosi tra i nostri ufficiali del posto con il comando di stanza a Cefalonia.
La decisione di non arrendersi ai tedeschi, come veniva richiesto, aprì le porte alla carneficina. Molti ufficiali consegnarono le armi e si arresero. Invece la divisione “Acqui”, particolarmente decisa a combattere nella situazione nuova che si era venuta a creare, catturò molti soldati tedeschi a Cefalonia. Poi giunsero gli stukas i cui bombardamenti provocarono numerosi morti proprio tra i tedeschi che erano stati fatti prigionieri ed erano già stati imbarcati su una nave verso l’Italia. Fu questa vicenda che pose le premesse per l’ulteriore furiosa carneficina. L’arrivo di truppe fresche germaniche nel giro di una decina di giorni fece stragi di nostri soldati e marinai. Alla fine furono trucidati anche tutti gli ufficiali compreso il generale Antonio Gandin che si era reso “responsabile” della resistenza italiana.
Io in quella occasione fui fortunato. Sfuggii alla morte perché mi trovavo su un monte con la stazione del ponte radio e quando giunsero i tedeschi (erano passati già alcuni giorni dalla furia dell’eccidio), mi chiesero se la stazione radio fosse efficiente o sabotata. Alla mia risposta, l’ufficiale comandante il plotone, ci fece consegnare tutte le armi che avevamo, ne fece un grande mucchio sotto un albero e con la dinamite le fece saltare. Poi, in perfetto italiano, disse: andate giù a Corfù, vi presenterete al comando tedesco che provvederà a “sistemarvi” in un campo provvisorio di concentramento. Per un tacito accordo tra me e i miei compagni, decidemmo di non presentarci, ma dopo sette giorni, gli eventi ci “consigliarono” di presentarci al comando tedesco che ci riservò ovviamente un trattamento da prigionieri, infatti fummo rinchiusi in un recinto circondato da filo spinato in attesa di trasferimento.
Ci rendemmo conto abbastanza presto che gli unici sopravvissuti eravamo noi del mio gruppo (un centinaio) e un altro centinaio provenienti da Cefalonia. I pochi sopravvissuti che avevano materialmente assistito alla strage ci informarono, tremanti, degli scempi perpetrati a danno dei nostri soldati non avendo pietà nemmeno per i feriti che venivano passati per le armi. A farne le spese maggiori furono molti marinai.
Fummo imbarcati su una piccola nave da carico per essere trasportati in Grecia. All’improvviso si sparse la voce che aerei stukas erano in arrivo su di noi. Un carabiniere preso dalla paura, con un coltello si tagliò le vene di un braccio e si buttò in mare. Una fine agghiacciante per tutti noi. Quel carabiniere probabilmente fu dichiarato disperso, ma, purtroppo fummo, nostro malgrado, testimoni di una morte assurda. In serata la nave prese il largo e il mattino seguente sbarcammo al porto di Atene dove fummo impiegati come uomini di fatica per lo scarico e il carico di carbon fossile da navi e vagoni ferroviari. Sei giorni durò la sosta ad Atene, dopodiché su carri bestiame fummo trasferiti a Ioannina (Grecia). Io ero malato e per lo sforzo di una marcia a piedi di una decina di chilometri,e anche per la malaria che aveva prostrato quasi tutti noi del gruppo.
A Ioannina un soldato tedesco di origine altoatesina che parlava perfettamente l’italiano, mi accompagnò in una stalla già adibita a ricovero di bestiame e mi disse di rimanere al coperto e di non far entrare altri. Verso le ore 22,00 sentii aprire lo sportello che chiudeva quella “meravigliosa residenza”, entrarono tre ufficiali italiani degli alpini che mi presero come uno straccio e mi buttarono fuori sostenendo che essendo essi ufficiali, il ricovero spettava loro. Brutta storia che celebra in maniera miserevole le virtù del nostro popolo!
Andai a fare le mie rimostranze al soldato tedesco che, appena mi vide, mi disse di andare con lui.
Arrivati alla stalla chiamò i tre “occupanti” li mise sull’attenti e chiese ragione del loro gesto atteso che avevano agito contro un commilitone malato. Uno dei tre rispose che essendo loro degli ufficiali avevano diritto di stare lì mentre il soldato poteva rimanere fuori. Uno schiaffo e la degradazione fu la risposta immediata del tedesco cui aggiunse l’ordine di andare via immediatamente lasciando tutti i viveri che avevano nello zaino al soldato malato. Dagli zaini di quegli ufficiali saltarono fuori gallette e scatole di carne che non vedevo da tempo!! (come si poteva vincere una guerra con ufficiali di quella tempra?). Quegli ufficiali non li vidi più, ma seppi che anche a loro fu riservata la deportazione e l’internamento nei lager in Germania.
Dopo quattro giorni fummo caricati in circa 400 su un treno merci (quaranta prigionieri per ogni carro) dove siamo rimasti – in un viaggio durato dal 26 ottobre 1943 fino al 25 novembre 1943 – a pane e aringa e qualche volta acqua. Per la maggior parte delle giornate – rigidissime – per poterci dissetare leccavamo i chiodi dei carri alla ricerca di qualche goccia d’acqua. Con l’aiuto di Dio arrivammo, dopo tante peripezie e sofferenze infinite, a Nuova Vilna (Nova Vlna) in Cecoslovacchia dove finalmente fummo rifocillati con brodaglia calda.
Al comando del campo di smistamento di Vilna c’era un colonnello della riserva dell’esercito tedesco, sui sessanta anni, abbastanza umano e comprensivo. Parlava un italiano perfetto e quando seppe che ero originario di Cassino mi chiamò e mi raccontò che Cassino lo aveva “ospitato” nel campo di concentramento ivi esistente dal 1918 fino al 1920. Aveva conservato un buon ricordo del trattamento che Cassino gli aveva riservato come prigioniero. Per questo mi fece sapere che avrebbe cercato di accontentarmi in ogni mia necessità o richiesta.
Nel campo di smistamento di Vilna erano circa mille i soldati italiani prigionieri in attesa di essere smistati presso i campi di destinazione finale ed io fui impiegato a scrivere a macchina presso il comando del posto. Nei miei confronti il colonnello fu di parola e mi trattenne con sé fino a quando arrivò anche il mio turno con l’ultimo scaglione in partenza. Poi segnalò il mio nominativo al tenente che ci accompagnava nel trasferimento. Quest’ultimo era un ufficiale in divisa tedesca, ma dal cuore italiano. Infatti alla partenza mi raccontò la sua storia: di origine altoatesina, avvocato a Trieste, nel 1940 la sua famiglia aveva optato, in base alle possibilità fornite dalla legge varata da Mussolini, per la cittadinanza austriaca. Tale scelta era, secondo il suo racconto, del tutto normale in quanto nella guerra del 15-18 aveva combattuto contro gli italiani nelle file dell’esercito austro-ungarico e, tornata Trieste sotto la giurisdizione italiana, avendone la possibilità, aveva optato per l’Austria. Tuttavia dalle sue parole sembrava trasparire che la scelta fosse dovuta più alle angherie del regime fascista che non a decisioni volontarie. Ma quel che lui pensava, forse non poteva dirlo.
La presenza di questo ufficiale per noi, duecento italiani dell’ultimo scaglione in partenza da Nova Vlna fu una grande fortuna perché egli si comportò nei nostri confronti come un padre.
Fui nominato, insieme ad altri tre commilitoni, capogruppo con l’incarico di dare la sveglia e di controllare il rancio. Intanto giungemmo presso la città di Zambrow nella Polonia occupata e fummo sistemati in tre piani di una ex caserma dell’esercito polacco. La sistemazione era abbastanza accogliente soprattutto alla luce delle esperienze passate. Anche il cibo, benché insufficiente, ci consentiva di non morire di fame.
La qualifica di capogruppo che mi era stata attribuita mi stava molto stretta perché nelle condizioni in cui eravamo non me la sentivo di impartire ordini ai miei compagni in sofferenza e difficoltà. Inoltre sentivo la necessità di creare una infermeria con alcuni letti al fine di ricoverare e curare quei compagni di prigionia che non potevano andare a lavorare perché malati o feriti. Ne parlai con l’ufficiale “tedesco” e anche questa volta mi accontentò: diede il suo nulla osta e nel giro di tre giorni creai l’infermeria al piano terra del fabbricato, portando con me due bravi ragazzi che mi dovevano aiutare a curare gli ammalati. Prelevammo sei lettini e poi altri quattro e dal medico tedesco mi feci dare tutto l’occorrente per poter curare i nostri ammalati.
La vita nel campo non era di certo molto allegra malgrado “l’umanità” dimostrata da qualche ufficiale tedesco. La fame si faceva sentire dato che il cibo era scarso e scadente e per tale motivo diversi nostri compagni, con la complicità della notte, spesso uscivano dal campo per andare a elemosinare qualche provvista di pane e lardo presso le famiglie polacche. Fu in una di queste occasioni che verso le 23,00 un giovane nostro compagno originario di Udine, rientrando al campo fu sorpreso (si badi bene non dalla vigilanza tedesca) da un nostro commilitone con funzioni di capo gruppo (tale Scognamiglio). Prontamente ammanettato con uno spago, fu portato davanti all’ufficiale tedesco di servizio per i provvedimenti del caso. Alla decisione del tedesco di provvedere a punirlo, il povero giovane fu oggetto di numerose scudisciate tanto da lasciarlo steso per terra. Non feci in tempo ad intervenire se non dopo che si era consumato il misfatto. Litigai in malo modo con quel soldato infame che aveva tradito i più elementari doveri verso la comune sorte che ci accumulava prima come prigionieri e poi come italiani. Nei giorni successivi ebbi modo di visitare quel ragazzo in prigione e visto che era ridotto in pessime condizioni lo feci vedere dal medico che lo affidò alle cure continue presso la nostra infermeria. Dopo le cure del caso il giovane udinese recuperò ben presto le sue forze sfuggendo quasi miracolosamente a morte per infezione; rubò due coperte da una camerata e di sera fuggì. Questa volta non alla ricerca di cibo, ma della libertà. Non tornò più indietro e di lui non si seppe più nulla.
A Zambrow esisteva una linea ferroviaria ma i bombardamenti l’avevano ridotta in pezzi e, forse anche per questo, tutti i prigionieri italiani venivano impiegati nel lavoro giornaliero per il suo ripristino. Fu durante il percorso tra il campo di prigionia e il campo di lavoro sulla linea ferroviaria che uno dei nostri giovani compagni (marchigiano) si azzardò ad accettare un pezzo di pane offerto da una anziana contadina polacca. La reazione fu immediata: il caporale tedesco di scorta lo fece allontanare pochi passi e gli sparò dietro la nuca fulminandolo sul colpo. Fui avvertito quasi immediatamente; arrivai sul posto con altri due infermieri e portammo lo sventurato al campo in attesa di poterlo seppellire. Il tenente chiamò a rapporto il caporale e questi si giustificò sostenendo che la sua era stata la reazione a un tentativo di fuga. Ovviamente non era così e l’assassino fu spedito al fronte. Della sua sorte non si seppe più nulla. Lo sfortunato nostro commilitone giovane marchigiano fu seppellito nel cimitero cattolico di Zambrow. L’ufficiale tedesco-triestino si comportò da vero soldato: ci consentì di rendere gli onori militari a quel giovane di cui vorrei tanto poter conoscere la famiglia per testimoniare la verità sulla cattiva sorte che gli era capitata.
Dopo la mia liberazione, tornato in Italia a Roma il 28 marzo 1946, mi recai alla Caserma dei Carabinieri del quartiere Testaccio e qui consegnai il piastrino del militare ucciso a Zambrow unitamente a un portafoglio con dentro qualche foto. Il maresciallo dei Carabinieri raccolse il verbale con le mie dichiarazioni sulla triste vicenda di quel povero ragazzo. Su questa vicenda fui più volte chiamato dai carabinieri (ben quattro volte!!!) e sempre per confermare quanto avevo verbalizzato la prima volta. Evidentemente le esperienze e le sofferenze che avevamo sofferto durante la guerra non avevano insegnato niente alla nostra Nazione!!
Ma torniamo alla prigionia. Nel luglio del 1944 fummo prelevati in circa un centinaio di prigionieri italiani e inviati fin nelle vicinanze della città di Minsk per cooperare con i tedeschi nell’approntare rifugi per cavalli e materiale rotabile di ogni genere, compresi carri armati. Ci facevano lavorare tutta la giornata malgrado i pericoli dovuti ai sorvoli continui sulle nostre teste dell’aviazione russa.
Siamo rimasti in quei luoghi per alcuni giorni fino a quando, a causa dell’avanzata dei russi, non siamo tornati sulla strada di ritorno verso Zambrow a piedi con una marcia forzata di circa tre/quattro giorni. Al nostro arrivo non abbiamo trovato più i nostri compagni di prigionia perché erano stati tutti trasferiti verso le zone interne della Germania. Una notte gli aerei russi mitragliarono il campo di sosta dove eravamo alloggiati e in questa occasione un soldato tedesco fu colpito. L’ufficiale comandante chiese il mio aiuto, visto che per tutti ero diventato quasi un medico!! Mi resi conto subito che per quel soldato non c’era più nulla da fare se non inviarlo in uno ospedale attrezzato. Poiché eravamo completamente isolati, l’ufficiale tedesco decise di finirlo per non farlo soffrire ulteriormente e anche perché i feriti erano solo un problema in più. Mi opposi con tutte le mie forze fino a spuntarla, ma poco dopo quel giovane finì di vivere lo stesso. Questa vicenda rafforzò la fiducia dell’ufficiale tedesco nei miei confronti. Mi fece avere una fascia di riconoscimento che normalmente identificava gli infermieri e, una volta rientrato al campo, mi concesse la possibilità di entrare e uscire senza particolari problemi. Approfittai di questa nuova situazione cercando di far uscire con me altri 25 prigionieri e, tutti insieme, tentare la fuga definitiva. Ci allontanammo verso l’aperta campagna polacca dove trovammo rifugio presso alcune famiglie contadine.
Per circa un mese ci nutrimmo di erba e del latte che prendevamo dalle mucche sparse per i campi. Una notte fummo presi dalla paura. Si sentivano in lontananza rumori insoliti. Erano i tedeschi che abbandonavano la zona di resistenza. L’ansia durò fino alle sei, sei e mezzo del mattino; poi il rombo di alcuni aerei e giù bombe e crepitio di mitraglia. Erano in arrivo i russi che ben presto individuarono anche il nostro sparuto gruppo. Era il 22 agosto 1944, ore 11 circa. In mezzo al bosco dove ci eravamo nascosti fummo individuati da una pattuglia di quattro soldati russi armati di tutto punto. La paura fu tanta, pensammo subito che ci avrebbero passato per le armi. Ma il giovane ufficiale che comandava il gruppo parlò: siete nazisti o fascisti italiani? Per mia fortuna conoscevo la lingua russa (la scuola mi aveva insegnato il francese, la guerra a parlare il tedesco e il russo). Risposi prontamente che non eravamo né nazisti né fascisti, semplicemente italiani ridotti in stato di prigionia e fuggiti alla prima occasione utile. Ci misero in fila e ci condussero fuori dal bosco. Nella pianura, in aperta campagna si intravedeva una marea di carri armati. Ci consegnarono a una colonna motorizzata e andarono via. Un soldato donna (ufficiale) si avvicinò a noi e volle sincerarsi se eravamo italiani. Al nostro cenno affermativo molti soldati russi si avvicinarono avendo molto interesse a sapere notizie dell’Italia. L’ufficiale donna dopo aver consentito ai suoi di offrirci sigarette e cioccolata, ci consigliò di rifugiarci presso qualche famiglia del posto in attesa che passasse la prima linea e il pericolo più grande. Seguimmo i consigli.
Arrivammo in una zona dove c’erano alcune case e chiedemmo aiuto. Ma subito dopo arrivarono dei soldati russi, ci chiesero se avessimo dei lasciapassare. Alla risposta negativa ebbero dei dubbi perché avevamo dichiarato di essere italiani, ma dopo che si furono consultati con i loro superiori, ci invitarono a seguirli. Fummo riportati a Zambrow in una vecchia caserma per soldati dove erano già alcuni prigionieri tedeschi. Eravamo di nuovo prigionieri. Erano solo cambiati i nostri carcerieri. Un maggiore russo volle sapere chi era in grado di parlare altre lingue, mi feci avanti e iniziai a parlare. Approfittai per sapere quale sorte ci sarebbe stata riservata. La risposta, molto infastidita: tornerete nel vostro paese quando avrete ricostruito la Russia che avete contribuito a distruggere. Due giorni durarono le umiliazioni a cui fummo sottoposti da parte di quel maggiore russo.
Il mattino del terzo giorno, con un camion, ci trasportarono in un campo di smistamento ove trovammo “la compagnia” di altre centinaia di migliaia di soldati tedeschi.
Il comandante russo che era un ufficiale con il grado di colonnello della riserva, saputo che eravamo prigionieri italiani, ci chiese di cantare con lui alcune canzoni napoletane. La cosa ci rincuorò e fummo ben felici di cantare! Fummo ricompensati con una pagnotta di pane a testa.
Sei giorni durò la permanenza in quel campo, dopo di che fummo trasferiti noi, venticinque italiani, insieme a trecento tedeschi nel campo di Borisov sulla Beresina (Bielorussia). Il campo era vastissimo ed era pieno di tedeschi e ungheresi. Per noi italiani fu trovata una sistemazione “ottimale”: ci fu assegnata una baracca, non grande, ma dotata di stufe a carbone e di legna nonché di tavolacci per dormire. Dopo alcuni giorni in cui i russi sembravano poco benevoli, subentrò la “distensione”. I russi cominciarono a fidarsi di noi e a darci incarichi per andare a far legna nel bosco. In particolare io e il mio amico di prigionia Domenico Massaro (originario di Pettorano sul Gizio, provincia dell’Aquila) fummo adibiti, oltre che a far legna nel bosco, anche al prelievo del vettovagliamento con una troika trainata da quattro cavalli. Quando cominciarono a funzionare alcune segherie e fabbriche di vetro, fummo mandati a lavorare lì. Io, poiché conoscevo il russo e il tedesco, fui messo a capo di un gruppo di 12 italiani e 50 tedeschi. Ero riuscito, senza volerlo, ad essere popolare. La mia popolarità tra i prigionieri e i civili che lavoravano in queste fabbriche derivava dal fatto che il rancio in più che mi veniva dato per la posizione che occupavo, lo dividevo a turno con tutti quelli che ne sentivano il bisogno.
La vita da prigionieri con i russi non fu sempre rose e fiori. Durante la permanenza al campo nei primi giorni, io e altri quattro italiani fummo impiegati a sbucciare le patate nella cucina riservata al personale russo. Sembrava filare tutto liscio fino a quando una donna russa della cucina prima ci invitò a portare fuori del cibo di scorta con la scusa che il giorno dopo non saremmo dovuti andare, poi, inopinatamente, ci denunciò. Dovemmo subire diversi giorni di isolamento senza acqua né cibo oltre che botte con l’utilizzo anche dei calci dei fucili, fino a quando fummo fatti liberare da un generale russo in visita ispettiva al campo. Diciassette furono i giorni di penitenza e di soprusi.
Con il passare del tempo la situazione dei prigionieri nel campo cominciava a peggiorare con l’arrivo delle malattie: soprattutto dissenteria e tifo petecchiale. I medicinali erano scarsi e non bastevoli per tutti. Cominciò così la triste agonia di molti prigionieri fino alla morte. I prigionieri che morivano (e furono tantissimi soprattutto tra i tedeschi) venivano trasportati, sempre a cura dei compagni degli sventurati, nelle fosse comuni dove venivano sepolti a venti-venticinque per volta. Anche i miei compagni furono affetti da tifo ma per fortuna sfuggirono alla morte. Io come al solito ero addetto all’infermeria e mi davo molto da fare soprattutto per i miei connazionali e per cinque altoatesini che consideravamo volentieri nostri amici. Solo uno dei nostri purtroppo morì. Ne rimasi particolarmente scosso in quanto si trattava di un giovane marchigiano che già avevo salvato da sicuro congelamento mentre il poveretto si recava a prelevare il vettovagliamento al magazzino statale.
Il giorno 23 dicembre 1945 giunse al campo l’ordine di rimpatriare tutti gli italiani. Fu un momento di grande felicità, ma per me e altri tre compagni, due barbieri e un cuoco, l’euforia durò poco. Non eravamo compresi nell’elenco dei rimpatriati. Non servirono a nulla le proteste. Per fortuna il giorno dopo fummo caricati su un camion e trasportati fino a Minsk. Qui trovammo altri prigionieri italiani e tedeschi, fummo caricati su vagoni ferroviari e inviati in Italia.
Il viaggio verso la libertà non fu molto agevole. Da Minsk andammo a finire ad Odessa, senza guardie, ma con un ufficiale ed un sottufficiale di scorta. Qui rimanemmo dieci giorni utilizzati a piantare alberi da frutta e viti. In cambio del lavoro ricevevamo del cibo abbastanza accettabile. Finalmente ripartimmo verso il nord e dopo un lungo viaggio giungemmo al confine austriaco dove i russi ci consegnarono a rappresentanti delle forze armate americane.
Accompagnati dagli americani, proseguimmo per circa 50 chilometri fino a un campo di raccolta per rimpatriati chiamato Alessandrina. Qui, dopo diverse visite mediche, fummo messi in quarantena. Finalmente il treno che ci riportava definitivamente in Italia. Era il 28 marzo 1946. All’arrivo al confine dell’Italia i nostri amici altoatesini ci salutarono. Non se la sentivano di tornare in Italia!!
Ci rimanemmo un po’ male, ma non ci pensammo più di tanto, era la libertà ritrovata e il ritorno a casa che occupava di più la nostra mente.
All’arrivo a Bolzano fummo presi in consegna dal personale della Croce Rossa che provvide a disinfettarci e fornirci di vestiti nuovi. Infine giungemmo a Roma. Era il 6 aprile 1946. Della mia città, Cassino, non avevo nessuna notizia. Cercai di domandare in tutte le direzioni pur di sapere qualcosa. Mi ricordai della signora Sepe (era una donna di Roma presso la quale prima della guerra una mia cugina era stata a pensione durante il periodo universitario) che abitava in una traversa di via Marsala. Mi recai immediatamente da lei nella speranza di sapere qualcosa. La signora gentilissima, mi fece rifocillare e mi disse che mia cugina, Palmira, era a casa della mia fidanzata al Testaccio. Presi un tram e mi avviai verso quel quartiere. Qui cominciai a domandare a tutte le persone che incontravo se conoscevano una famiglia di sfollati provenienti da Cassino. Seppi che questa famiglia era sul lungotevere testaccio. Dopo ulteriore girovagare, finalmente giunsi a casa. C’era la mia fidanzata Teresa (Sisina), che poi diventerà la compagna della mia vita, e mia cugina Palmira. Fu da loro che seppi della mia famiglia. Erano tutti salvi ma non erano a Roma bensì a Venafro dove, alla fine delle mie disavventure, mi ricongiunsi con i miei cari.
Questa è la mia storia, la storia di un giovane che ha passato gran parte della sua gioventù al servizio della Patria. Le sofferenze sono state tante, ma sono contento di essere arrivato alla vecchiaia con il cervello ancora perfettamente in funzione. Di questo ringrazio il Signore.
Spero che le sofferenze mie, di tanti altri che hanno avuto le stesse disavventure, soprattutto le tante vite di giovani morti senza una ragione plausibile, siano di stimolo a rivedere le cose che non vanno nella nostra nazione.
I signori che scrivono la storia, spero che tengano conto di ciò che realmente abbiamo passato.
I tedeschi hanno avuto oltre venti milioni di morti, i russi oltre venticinque milioni di morti. La guerra l’hanno voluta le forze malefiche che si sono impadronite dell’Europa: il nazismo e il fascismo. Ma mentre tutti gli altri combattevano ben equipaggiati e organizzati, a noi giovani italiani ci fu riservata una sorte diversa. Non avevamo nemmeno i pantaloni e le giacche per difenderci dal freddo.
La Nazione italiana non è stata all’altezza della sua storia. Lo sarà in futuro?
Lo spero tanto, soprattutto per le giovani generazioni».
Fin qui ciò che scrive Domenico Pacitto qualche anno prima della morte avvenuta il primo gennaio 2000. Tra gli appunti da lui lasciati è stata ritrovata anche quella che lui chiamava:

La canzone del prigioniero
Quando dietro il monte tutto bianco
Scompare l’ultimo raggio di sole
Con la sua tristezza grave e stanca
Ritorna il prigioniero dal lavor
Malinconia che uccide
Nostalgia senza calor
E la tremula speranza
Che dorme in fondo al cor
Lontano stretti attorno al focolar
Cantano sotto il lento nevicar
E sempre cantano lo sai perché?
Perché lontano lontano
C’è una mamma c’è una sposa
C’è un tesoro di pupetto
Che l’attendono laggiù
Dopo il tocco dell’Ave Maria
Quando il cielo si tinge di blu
Sotto un velo di malinconia
Appare una stella che non brilla più
O Patria mia lontana
Bella Italia mia d’amor
I tuoi figli prigionieri
Vivono nel tuo dolor
E sempre cantano lo sai perché?
Perché dentro il cuor
Vive ancora l’amor
Per la sposa ed il pupetto
Che l’attendono laggiù
Cantano ma non per felicità
Vivono nella gioia di tornar

Concessione della medaglia d’onore agli IMI (internati militari italiani)
«La Repubblica Italiana riconosce a titolo di risarcimento soprattutto morale il sacrificio dei propri cittadini deportati ed internati nei lager nazisti nell’ultimo conflitto mondiale, ed ha individuato nella medaglia d’onore un opportuno riconoscimento simbolico».
Sulla base di questa premessa generale, l’art. 1, commi 1271-1276, della legge finanziaria per l’anno 2007 (l. 27 dicembre 2006 n ° 296) ha previsto la concessione di una medaglia d’onore ai cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra nell’ultimo conflitto mondiale, che abbiano titolo per presentare l’istanza di riconoscimento dello status di lavoratore coatto, nonché ai familiari dei deceduti.
Le istanze vanno prodotte all’apposita commissione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Il CDSC-Onlus è disponibile a fornire, a chi ne avesse bisogno, tutte le indicazioni necessarie alla richiesta di concessione della medaglia d’onore.

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