IL SARCOFAGO DI AQUINO È TORNATO A CASA


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di Costantino Jadecola
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 044-02.jpgLo chiamavamo e, quindi, lo ricordavamo come il “sarcofago di alabastro”. Poi, il 19 luglio scorso – una data storica per il Lazio meridionale perché fu nella tarda serata di quel giorno, nel lontano 1943, che, con il bombardamento alleato dell’aeroporto di Aquino, qui da noi ebbe inizio la seconda guerra mondiale – il 19 luglio scorso, dicevo, abbiamo scoperto che era stato ribattezzato  il “sarcofago delle quadrighe”. Ma è stata una novità che non ha fatto né caldo né freddo. Quel giorno, infatti, la notizia importante era che, dopo ventuno anni passati in un confortevole soggiorno londinese (e forse anche altrove), nelle disponibilità di un noto truffatore internazionale, per il sarcofago era finalmente giunto il tempo del ritorno a casa.

Chiuso in una cassa protetta dai sigilli diplomatici dell’ambasciata d’Italia a Londra, l’importante reperto era atterrato a Fiumicino nella serata di mercoledì 18 luglio con un volo cargo proveniente dalla capitale inglese, per essere subito trasferito presso la seicentesca chiesa di Santa Marta al Collegio Romano, nel centro di Roma, sede di rappresentanza del Ministero dei Beni culturali, dove il giorno dopo sarebbe stato ufficializzato il ritrovamento, davanti alla stampa e al pubblico.
L’emozione è stata forte perché l’immagine più consueta del sarcofago (III secolo d. C.) era quella del tempo in cui fungeva da altare maggiore della chiesa della Madonna della Libera, di quando, cioè, la sua bellezza era in un certo senso limitata dalle lastre di marmo, che ne coprivano sia la parte superiore sia quella posteriore e dalle tovaglie utilizzate per le funzioni liturgiche. Per cui, vederlo così, “nudo e crudo”, non poteva non fare un certo effetto. Come in realtà lo ha fatto non solo tra gli aquinati presenti, ma specialmente in tutti coloro i quali in quella circostanza hanno avuto l’opportunità di poterlo ammirare.
Del resto, l’ammirazione che il sarcofago ha saputo destare è stata tale che ad annunciarne il ritorno fra i comuni mortali c’erano, al di là del sindaco di Aquino Antonio Grincia, il comandante del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Roma Virginio Pomponi, il vice ministro ai Beni Culturali architetto Roberto Cecchi, la soprintendente per i i Beni Archeologici del Lazio Marina Sapelli Ragni e il maggiore Massimo Rossi, comandante del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza, cioè colui il quale ha condotto in prima persona l’intera operazione denominata, non a caso, “Giovenale”. Operazione che, per la cronaca, si è conclusa nel pomeriggio di quello stesso 19 luglio con il ritorno del sarcofago ad Aquino – una casualità nell’anniversario dell’inizio della tragedia bellica – ove ha trovato sistemazione presso il Museo della Città, conferendo ad esso ulteriore importanza e valore.
Se è vero, come pare sia vero, che quel signore che lo aveva ricettato non aveva avuto problema alcuno nello sborsare la ragguardevole cifra di un miliardo di vecchie lire, allora si spiega l’accanimento con il quale, per rubarlo dalla chiesa della Madonna della Libera, c’erano stati ben due tentativi: il primo nella notte tra il 26 ed il 27 febbraio 1990, quando, però, fu possibile recuperare la refurtiva specie per via dell’ingenuità dei ladri che pensavano di poterlo trasportare su un fragile furgone; il secondo, invece, con esito felice per i soliti ignoti, nella notte tra il 2 ed il 3 settembre 1991, in un tempo in cui la chiesa era soggetta a lavori di restauro: oltre al “sarcofago in alabastro”, opera forse di un artista locale, completavano il ricco bottino i due piccoli leoni in marmo di epoca medievale, che lo sorreggevano nella sua funzione di altare e, forse, qualche altra cosa ancora. Insomma, con questo furto, la chiesa della Madonna della Libera era stata scientificamente ripulita di quel poco che c’era di asportabile, ove si consideri che un paio di mesi prima era stata trafugata una conchiglia di età imperiale utilizzata come fonte battesimale e che si diceva anch’essa di alabastro.
Decorato a rilievo con scene di una corsa di quadrighe al Circo Massimo, del sarcofago si sapeva, per averlo scritto mons. Rocco Bonanni, che esso era stato rinvenuto nel 1872, «a qualche metro di profondità »1, proprio all’interno della stessa chiesa, luogo di sepolture antico e moderno, dal quale sarebbe stato rubato.
Ad avere l’intuito di utilizzarlo come altare era stato, invece, il non dimenticato parroco mons. Giovanni Battista Colafrancesco, il quale così ricorda come andarono le cose: «Finiti i lavori di riparazione della chiesa (della Madonna della Libera, ndA), dovevamo rientrarci per il Natale del 1948.
Essa era fornita di due altari: il maggiore, in muratura comune, nell’abside centrale e che non aveva subito molti danni, ed uno laterale, nella navata sinistra, danneggiatissimo. Chiesi, ma non ottenni, dal Genio Civile un altare nuovo, più rispondente allo stile della chiesa; mi si rispose che non avevo alcun diritto ad un nuovo altare, perché la chiesa ne era fornita (quello in muratura comune).
Preso dalla disperazione, feci abbattere l’altare in muratura, sperando che, tolto di mezzo l’altare in discussione, il Genio Civile si convincesse a costruirne uno nuovo. Ma a nulla valse la mia strategia, perché l’altare non venne».2
Fu proprio allora che “don Battista” ebbe la felice intuizione: perché non utilizzare quel bel sarcofago custodito in seminario dal tempo della sua scoperta unitamente ai «due tozzi leoni in marmo che secondo il Bonanni dovevano con altri e due reggere l’ambone»3 della distrutta cattedrale?
Detto, fatto. «Non perdetti tempo» –  scrive “don Battista” – «e diedi disposizione al muratore Pasquale Macioce, abile mastro in arte muraria, di comporre la pedana con gradini in pietra tolti dal distrutto palazzo del fu Giovanni Iadecola, in Piazza S. Tommaso; prevenendo i tempi del Concilio Vaticano II, lo feci costruire non più addossato all’abside ma al centro del transetto rivolto al popolo, e vi feci collocare i due leoni e, sui leoni, il sarcofago in alabastro; chiudeva il tutto una mensa in marmo prelevata dalla distrutta cattedrale di S. Costanzo, in piazza»4.
Questo era il contesto nel quale, per oltre quarant’anni, il sarcofago ha goduto dell’ammirazione e dell’apprezzamento di quanti hanno avuto occasione di frequentare la chiesa della Madonna della Libera, non escluso, c’è da supporre, colui il quale ne dispose il furto.
Certo, su un suo ritorno a casa non è che si nutrissero grandi speranze. Invece…
Era da qualche mese che il sindaco Grincia aveva ufficialmente accennato ad un suo possibile recupero. Poi, tra il 18 e il 19 luglio, la svolta decisiva e il suo ritorno ad Aquino direttamente da Londra, via Roma.
Ma Londra perché? Perché il sarcofago era entrato a far parte della ricca collezione privata di un truffatore americano residente in Inghilterra il quale, sentendo approssimarsi la fine dei suoi giorni, avrebbe avuto, come dire, uno scrupolo di coscienza manifestando intenzioni collaborative con le autorità internazionali, cominciando a trattare la riconsegna di alcune delle opere in suo possesso. Tra cui, appunto, il sarcofago di Aquino.
A complicare le cose, però, era sopraggiunta la sua morte e, quindi, il conseguente rischio di smembramento della ricca collezione accumulata sulla quale, si dice, pare avessero già messo gli occhi un collezionista americano ed uno russo.
Ma gli eredi dello scomparso hanno preferito continuare le già avviate trattative poi felicemente conclusesi, almeno per il sarcofago. L’esecutore testamentario, conoscendo l’origine delittuosa della proprietà dell’importante reperto, avrebbe dapprima contattato l’avvocatura dello Stato e poi restituito spontaneamente il sarcofago all’ambasciata italiana di Londra in forma anonima, cioè senza menzionare il “donatore”, operazione giuridicamente classificata come “riconsegna spontanea”.
Al momento della denuncia del furto da parte della chiesa locale il sarcofago era stato ovviamente dichiarato “di alabastro”, e non di marmo giallo, come in realtà sarebbe, la qualcosa avrebbe creato, in uno con le dimensioni, che non corrispondevano a quelle reali (altezza cm. 68, lunghezza cm. 190, larghezza cm. 65)5 qualche complicazione nelle operazioni di ricerca, complicazioni poi felicemente superate.
Del resto, nessuno si era mai preso la briga di conoscere le esatte misure del sarcofago essendo le informazioni su di esso limitate solo a ciò che per consuetudine si diceva, mancando oltre tutto specifici studi in materia, problema peraltro oggi superato grazie a quello molto dettagliato di Elisa Canetri, ricordato in nota.
Comunque sia, “di alabastro” che fosse, o “delle quadrighe”, una cosa è certa: si tratta del sarcofago di Aquinum. O meglio, a scanso di equivoci, di Aquino.

1 Rocco BONANNI, Ricerche per la Storia di Aquino. Prof. Cav. P. A. Isola Editore. Alatri. 1922, p. 117.
2 G. B. COLAFRANCESCO, Aquino cinquant’anni (1933-1983). Ed. La Voce di Aquino. Aquino. 1983, pp. 33-34.
3 Idem, p. 32.
4 Idem, p. 34.
5 Elisa CANETRI, Il sarcofago aquinate con scene di circo. In Spigolature Aquinati. Museo della Città. Aquino. 2007, p. 157.

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