Studi Cassinati, anno 2012, n. 2
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di Vito Mancini*
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Riordinando vecchie carte messe da parte per tempi migliori, ci siamo imbattuti in un plico contenente le fotocopie di alcune lettere sottopostemi per un parere alcuni anni fa. Si tratta di sette lettere inviate da Napoli a Roma tra il luglio e l’ottobre del 1854 con le quali un certo signore, il cui nome è indecifrabile (si tratta di una sigla), oltre a ragguagliare il destinatario Bernardino Petrucci sull’esito dei suoi uffici, si diffonde a parlare del colera che all’epoca funestò la città di Napoli, la quale, come tutte le città popolose (molte persone in poco spazio abitativo e perciò miseria, cattiva nutrizione e scadente igiene sanitaria) e i porti commerciali (particolarmente a causa dell’immigrazione e l’importazione di merci), nel corso delle grandi epidemie è stata sempre colpita da pestilenze.
A Napoli, dice O. Andreucci (“Cenni storici sul colera asiatico”, Soc. Tipografica, Firenze, 1855) le quarantene non potevano sortire risultamento poiché in quel regno sono rigorose sulla carta, e si riducono in falso a una mera apparenza, le navi in sequestro essendo mal custodite che la notte uomini e merci con lieve premio sono messi a terra o trasbordati su navi in libera pratica.
Per restare ai primi decenni dal XIX secoio, tra le numerose epidemie ricordiamo per esempio la peste di Nola del 1816, il colera scoppiato nei Balcani nel 1834, diffusosi in tutta Italia e ripreso violentemente nel 1837, la dissenteria del 1843, di nuovo il colera del 1847 sviluppatosi in Turchia e in Russia e quello del 1853 scoppiato in Ucraina e diffusosi da noi nell’estate dell’anno dopo, epoca alla quale risalgono le nostre lettere.
In ambito filatelico, prassi vuole che si mettano in rilievo innanzitutto le note distintive postali, perciò è opportuno rilevare che tutte le nostre lettere (figg. 1-7) sono state sottoposte alla partenza alla tassazione di 5 grana (segno in alto a sinistra), tariffa vigente dal 1° luglio 1845 in ambedue i domini napoletani per le lettere dirette negli Stati d’Italia. All’arrivo le lettere sono state tassate per 8 baj (prima distanza) a carico del destinatario, giusta la tariffa pontificia in vigore dal 2 novembre 1844. Vari i bolli appena distinguibili che si notano sul fronte, eccettuati un paio di circolari “REGIA POSTA DI NAPOLI” con il fiordaliso al centro (bollo usato dal luglio 1852 al maggio 1856 per le lettere destinate all’estero), i due pontifici “NETTA DENTRO E FUORI” sormontati dallo stemma papale che riteniamo essere del primo tipo e i tagli di disinfezione sulle lettere del 27 luglio, 10 e 27 agosto e 7 settembre. Su quelle del 19 agosto e del 14 ottobre i tagli sono evidenti sul fronte.
In periodi di epidemia le lettere destinate nello Stato Pontificio venivano sottoposte a disinfezione presso la stazione contumaciale di Casamari (fig. 8). Quelle, invece, dirette nel Regno di Napoli, restando aperta solo la via Appia, erano disinfettate presso l’officina sanitaria di Portella (fig. 9) nel comune di Monticelli, oggi Monte S. Biagio.
Rileggendo le lettere, ciò che più ci ha incuriosito sono le note pittoriche dell’ambiente aggiunte alla narrazione dei fatti, delle cose e degli uomini intorno allo scrivente, le paure e il suo confidare nell’aiuto di “S. Pietro che in paradiso deve pur valere più di S. Gennaro”.
Le lettere del 5 e del 27 luglio 1854, invece di essere datate “Napoli “, sonodatate “Dai maccheroni
colerici…” ( maccheroni = i napoletani). Nella prima, rivolgendosi al Sig. don Bernardino, il nostro inizia col dire: “non sorprenda se comincio col don giacché, essendo maccherone, necessitami andare nello stile del paese dove Principe, Marchese, Conte, Canonico, Prete, Avvocato o Causidico ha sempre il titolo di don, come noi diciamo Signore”. Chiede se a Roma ci sia stato un caso di colera e informa che la posta dei “maccheroni” parte ogni giorno, meno la domenica, e finisce di scrivere in fretta per il gran caldo. Nella seconda afferma che il colera ebbe inizio il 6 luglio; parla della morte dei vari “Capetti al giorno e un po’ nella popolazione, non pochi nella truppa, ristretta nella caserme sorvegliate da sentinelle.” La morte di una certa signora Bonucci, romana, dice, ha messo in subbuglio “i maccheroni” e, accennando all’afa incombente “Dio non voglia che questa massa di rivenduglioli di frutta e di pescatori facciano il secondo atto di Masaniello. “
Il 10 agosto, caldi precoci e caldissimi incombono su “Napoli colerico”. “Chi viene dall’estero, da qualunque parte venga, deve subire la quarantena per 21 giorni.” Accenna ad una quarantena a cui sottostare a Fondi. “La principessa Sciarra, venuta a Napoli per vedere i suoi e fare i bagni, è rinchiusa, isolata in un casino a Portici, un eremo situato in una boscaglia. Il rauco passaggio infernale della (vicina) strada ferrata in quel silenzio di morte sembra essere il passaggio della barche di mortali traghettati da Minosse (sic!) La sera alle 11 via Toledo è deserta e vedonsi carrettoni di morti anche se ricchi che vanno ad incalcinarsi.” Nella lettera del 19 agosto accenna a qualche picciol doloretto per l’aria chiusa che lo affanna, né lo entusiasma lasciare Napoli per trasferirsi in Aquila (come gli era stato proposto) perché chi è fuggito di qua è morto di colera in ore colà.
27 agosto 1854 – Da due giorni andiam crescendo (i colpiti) dai 100 ai 120 e ieri i morti 83; invece di calare andiamo a 124. Non è possibile che un signore romano voglia durare a fare la quarantena di 10 giorni a Fondi. Adesso che il male invade le Puglie, le Calabrie e l’Abruzzo non so se neppure da quelle parti la diligenza anderà. Chiude la lettera con “Cosa diavolo sto qui a fare, per cosa? Per bestemmiare il momento che ci venni e il diavolo che mi tentò.” Il colera si diffuse in Abruzzo e poi a Roma nell’agosto del 1854 fino al dicembre dell’anno successivo, provocando 1652 morti. A Napoli vi furono 8314 morti. 7 settembre 1854 – “Qua il colera si spande, non appariscono casi infiniti giacché molti per non avere il gendarme in casa non chiamano il medico (chiama bricconi i medici napoletani) non volendo andare negli ospedali, ma il male va crescendo.” Recatosi il giorno innanzi dalla principessa Sciarra, apprende che una di lei amica giorni prima era andata a farle visita. Partita per la sua residenza in Chieti, dopo 48 ore l’amica era deceduta. “A Chieti vi furono quel giorno 79 casi. Ora l’Abruzzo è colmo di male.”
14 ottobre 1854 – “Se non perdo la testa oggi con questo maledettissimo colera romano e con quello di Napoli non la perdo più. Si dice che il colera è finito (benissimo) non si danno bollettini (meglio di niente) e poi si ordina che non vi siano teatri! Buffa disposizione, non c’è rispetto”. Il nostro mittente, che in quella grave sciagura si duole di non poter andare a teatro, non vede l’ora di tornare a Roma “perché non voglio trovarmi ad un secondo colera assai probabile. Perciò dopo gli otto giorni di niun caso constatato, ma certissimo, mi si mandi il lasciapassare con la data dell’ultimo giorno e mi regolerò nel modo più prudente che sarà possibile. Speriamo che il giorno di S. Martino possiamo insieme mangiare le fave.” Le poche note sopra riportate lasciano facilmente supporre quanto curiose siano le altre descrizioni dei modi e dei costumi napoletani da parte del nostro mittente a conferma di quanto preziose e importanti siano talvolta le note di vita vissuta desunte dalle lettere, apparentemente comuni, ma indispensabili per la grande storia. Sarà pure cronaca spicciola quella che solitamente si trova nelle lettere private, ma le informazioni che se ne ricavano vanno oltre il nozionismo per farsi cultura.
A Napoli, dice O. Andreucci (“Cenni storici sul colera asiatico”, Soc. Tipografica, Firenze, 1855) le quarantene non potevano sortire risultamento poiché in quel regno sono rigorose sulla carta, e si riducono in falso a una mera apparenza, le navi in sequestro essendo mal custodite che la notte uomini e merci con lieve premio sono messi a terra o trasbordati su navi in libera pratica.
Per restare ai primi decenni dal XIX secoio, tra le numerose epidemie ricordiamo per esempio la peste di Nola del 1816, il colera scoppiato nei Balcani nel 1834, diffusosi in tutta Italia e ripreso violentemente nel 1837, la dissenteria del 1843, di nuovo il colera del 1847 sviluppatosi in Turchia e in Russia e quello del 1853 scoppiato in Ucraina e diffusosi da noi nell’estate dell’anno dopo, epoca alla quale risalgono le nostre lettere.
In ambito filatelico, prassi vuole che si mettano in rilievo innanzitutto le note distintive postali, perciò è opportuno rilevare che tutte le nostre lettere (figg. 1-7) sono state sottoposte alla partenza alla tassazione di 5 grana (segno in alto a sinistra), tariffa vigente dal 1° luglio 1845 in ambedue i domini napoletani per le lettere dirette negli Stati d’Italia. All’arrivo le lettere sono state tassate per 8 baj (prima distanza) a carico del destinatario, giusta la tariffa pontificia in vigore dal 2 novembre 1844. Vari i bolli appena distinguibili che si notano sul fronte, eccettuati un paio di circolari “REGIA POSTA DI NAPOLI” con il fiordaliso al centro (bollo usato dal luglio 1852 al maggio 1856 per le lettere destinate all’estero), i due pontifici “NETTA DENTRO E FUORI” sormontati dallo stemma papale che riteniamo essere del primo tipo e i tagli di disinfezione sulle lettere del 27 luglio, 10 e 27 agosto e 7 settembre. Su quelle del 19 agosto e del 14 ottobre i tagli sono evidenti sul fronte.
In periodi di epidemia le lettere destinate nello Stato Pontificio venivano sottoposte a disinfezione presso la stazione contumaciale di Casamari (fig. 8). Quelle, invece, dirette nel Regno di Napoli, restando aperta solo la via Appia, erano disinfettate presso l’officina sanitaria di Portella (fig. 9) nel comune di Monticelli, oggi Monte S. Biagio.
Rileggendo le lettere, ciò che più ci ha incuriosito sono le note pittoriche dell’ambiente aggiunte alla narrazione dei fatti, delle cose e degli uomini intorno allo scrivente, le paure e il suo confidare nell’aiuto di “S. Pietro che in paradiso deve pur valere più di S. Gennaro”.
Le lettere del 5 e del 27 luglio 1854, invece di essere datate “Napoli “, sonodatate “Dai maccheroni
colerici…” ( maccheroni = i napoletani). Nella prima, rivolgendosi al Sig. don Bernardino, il nostro inizia col dire: “non sorprenda se comincio col don giacché, essendo maccherone, necessitami andare nello stile del paese dove Principe, Marchese, Conte, Canonico, Prete, Avvocato o Causidico ha sempre il titolo di don, come noi diciamo Signore”. Chiede se a Roma ci sia stato un caso di colera e informa che la posta dei “maccheroni” parte ogni giorno, meno la domenica, e finisce di scrivere in fretta per il gran caldo. Nella seconda afferma che il colera ebbe inizio il 6 luglio; parla della morte dei vari “Capetti al giorno e un po’ nella popolazione, non pochi nella truppa, ristretta nella caserme sorvegliate da sentinelle.” La morte di una certa signora Bonucci, romana, dice, ha messo in subbuglio “i maccheroni” e, accennando all’afa incombente “Dio non voglia che questa massa di rivenduglioli di frutta e di pescatori facciano il secondo atto di Masaniello. “
Il 10 agosto, caldi precoci e caldissimi incombono su “Napoli colerico”. “Chi viene dall’estero, da qualunque parte venga, deve subire la quarantena per 21 giorni.” Accenna ad una quarantena a cui sottostare a Fondi. “La principessa Sciarra, venuta a Napoli per vedere i suoi e fare i bagni, è rinchiusa, isolata in un casino a Portici, un eremo situato in una boscaglia. Il rauco passaggio infernale della (vicina) strada ferrata in quel silenzio di morte sembra essere il passaggio della barche di mortali traghettati da Minosse (sic!) La sera alle 11 via Toledo è deserta e vedonsi carrettoni di morti anche se ricchi che vanno ad incalcinarsi.” Nella lettera del 19 agosto accenna a qualche picciol doloretto per l’aria chiusa che lo affanna, né lo entusiasma lasciare Napoli per trasferirsi in Aquila (come gli era stato proposto) perché chi è fuggito di qua è morto di colera in ore colà.
27 agosto 1854 – Da due giorni andiam crescendo (i colpiti) dai 100 ai 120 e ieri i morti 83; invece di calare andiamo a 124. Non è possibile che un signore romano voglia durare a fare la quarantena di 10 giorni a Fondi. Adesso che il male invade le Puglie, le Calabrie e l’Abruzzo non so se neppure da quelle parti la diligenza anderà. Chiude la lettera con “Cosa diavolo sto qui a fare, per cosa? Per bestemmiare il momento che ci venni e il diavolo che mi tentò.” Il colera si diffuse in Abruzzo e poi a Roma nell’agosto del 1854 fino al dicembre dell’anno successivo, provocando 1652 morti. A Napoli vi furono 8314 morti. 7 settembre 1854 – “Qua il colera si spande, non appariscono casi infiniti giacché molti per non avere il gendarme in casa non chiamano il medico (chiama bricconi i medici napoletani) non volendo andare negli ospedali, ma il male va crescendo.” Recatosi il giorno innanzi dalla principessa Sciarra, apprende che una di lei amica giorni prima era andata a farle visita. Partita per la sua residenza in Chieti, dopo 48 ore l’amica era deceduta. “A Chieti vi furono quel giorno 79 casi. Ora l’Abruzzo è colmo di male.”
14 ottobre 1854 – “Se non perdo la testa oggi con questo maledettissimo colera romano e con quello di Napoli non la perdo più. Si dice che il colera è finito (benissimo) non si danno bollettini (meglio di niente) e poi si ordina che non vi siano teatri! Buffa disposizione, non c’è rispetto”. Il nostro mittente, che in quella grave sciagura si duole di non poter andare a teatro, non vede l’ora di tornare a Roma “perché non voglio trovarmi ad un secondo colera assai probabile. Perciò dopo gli otto giorni di niun caso constatato, ma certissimo, mi si mandi il lasciapassare con la data dell’ultimo giorno e mi regolerò nel modo più prudente che sarà possibile. Speriamo che il giorno di S. Martino possiamo insieme mangiare le fave.” Le poche note sopra riportate lasciano facilmente supporre quanto curiose siano le altre descrizioni dei modi e dei costumi napoletani da parte del nostro mittente a conferma di quanto preziose e importanti siano talvolta le note di vita vissuta desunte dalle lettere, apparentemente comuni, ma indispensabili per la grande storia. Sarà pure cronaca spicciola quella che solitamente si trova nelle lettere private, ma le informazioni che se ne ricavano vanno oltre il nozionismo per farsi cultura.
* Esperto di storia postale italiana.
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