Montecassino 1944: il saccheggio tra le macerie Preziosi “souvenirs” portati all’estero dai soldati del fronte

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Studi Cassinati, anno 2012, n. 3
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Si parla spesso del saccheggio, o presunto tale, dei tesori artistici di Montecassino da parte dei Tedeschi durante il secondo conflitto mondiale. L’occasione sarebbe stata il trasferimento da Montecassino a Roma dell’archivio e della biblioteca monumentale, insieme a quadri, oggetti sacri, reperti archeologici ed altro. Sappiamo, ormai per certo, che quella operazione, voluta ed attuata dagli ufficiali tedeschi, il colonnello Schlegel ed il capitano Becker, fu una colossale e provvidenziale operazione di salvataggio andata felicemente, e fortunatamente, in porto. Vi sono i verbali di consegna redatti dai Cassinesi in quell’occasione e riscontrati al momento della restituzione a testimoniarlo. Si dice che qualcosa in realtà prese altre vie, ma è ancora da dimostrare al di là delle facili illazioni. Sulla questione siamo già intervenuti su Studi Cassinati con una nota del Prof. emerito Elio Lodolini (N. 3 del 2005, pagg. 179-183).
Ma il saccheggio, quello vero, operato tra le macerie dell’abbazia all’indomani del passaggio del fronte, poco si parla; e non fu certamente poca cosa, dal momento che molti oggetti, anche di valore, si dovette rinunciare a trasferirli a Roma per mancanza di spazi e di tempo.
Credo sia opportuno, al riguardo, riproporre la relazione stilata dal benedettino Ildefonso Rea, Abate e Ordinario della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni, 1° Visitatore della Congregazione Cassinese, futuro abate di Montecassino, a Mons. Tardini Segretario S. C. A. E. S. Città del Vaticano: è molto illuminante circa il comportamento dei militari che per vario tempo continuarono ad aggirarsi tra le macerie del monastero e che non rinunciarono a portarsi a casa qualche “souvenir”.
La lettera che qui riportiamo è pubblicata nel volume di  Grossetti E. – Matronola M., Il bombardamento di Montecassino. Diario di guerra, a cura di F. Avagliano, in Miscellanea Cassinese 41, Montecassino 1980. Ma quel libro andrebbe letto e riletto con attenzione perché fa luce su molti aspetti oscuri sul periodo nefasto del 1943/44 a Cassino e Montecassino e rende giustizia di svariate falsificazioni storiche operate da chi aveva interesse a coprire o mistificare le ragioni di alcuni interventi militari

e. p.

«Eccellenza,
Le invio la relazione da Lei richiestami circa il saccheggio e la profanazione degli arredi sacri di Montecassino per parte delle truppe tedesche.
Il 20 giugno, di ritorno da Montecassino, sostai ad Arpino presso i miei familiari. Seppi che la mia casa paterna era servita da alloggio e da mensa ad un alto Comando tedesco. Mi si disse che sulla mensa ufficiali figuravano, quasi trofei, alcuni putti del coro di Monte Cassino. Seppi pure che molte casse erano giunte provenienti da Monte Cassino, forse contenenti altri putti del coro. In casse ed in sacchi erano stati inclusi molti arredi sacri. Si tentò riscattarli offrendosi a versare qualunque somma, ma si riuscì ad ottenere solo due pianete ed un piviale ordinari. Altro non fu possibile comperare.
Una sera fu tenuto un banchetto, al quale, mi si disse, parteciparono ufficiali superiori. Il biglietto d’invito, che ho fatto pervenire a cotesta Ven. Segreteria di Stato, dice che i commensali dovevano indossare «la divisa dell’Ordine ». Ed infatti gli invitati sedettero a tavola indossando pianete e piviali. Si mangiò, si bevve, si cantò tutta la notte. Al mattino, quando i banchettanti dovettero partire, uscirono di casa indossando ancora i sacri indumenti e così vestiti si misero in viaggio.
Una busta — che allego — con l’indirizzo del Maggiore Boehmler potrebbe forse dare un indizio per ricerche in proposito.
Aggiungo pure una relazione di altri fatti verificatisi a Monte Cassino dopo la partenza dei tedeschi.
Recatomi a Montecassino il 27 maggio, fui sollecitato dal Comando dei Polacchi — che allora presidiavano il Monastero — ad occuparmi subito presso le Autorità Alleate perché fosse provveduto alla custodia e vigilanza dell’Abbazia, poiché le truppe polacche avrebbero ben presto abbandonata la posizione per ulteriori impieghi. Le pratiche in proposito, iniziate fin dal 30 maggio presso la Commissione Alleata di Controllo, sono state lunghissime ed irte di difficoltà.
Alla proposta di inviare a Montecassino un monaco della Badia di Cava, si oppose più volte un assoluto rifiuto per ragioni di indole militare; ma vennero date le più ampie e formali assicurazioni che un presidio militare sarebbe stato fissato sulle rovine dell’Abbazia per impedire devastazioni e saccheggi.
Il progetto di inviare a Montecassino una squadra di nostri Genieri che vigilasse i ruderi ed intanto iniziasse i lavori di sgombero per ricuperare quanto ancora era salvabile trovò parere favorevole presso le Autorità Alleate, per quanto ne venisse dilazionata l’attuazione. Maggiore comprensione e più sollecito intervento si poté ottenere dal nostro Comando Supremo, e così il 20 giugno — dopo quasi un mese di pratiche — accompagnato dal Maggiore del Genio Martinengo e da un Padre della Badia di Cava potei tornare a Montecassino. Nel medesimo giorno fummo raggiunti dalla squadra dei Genieri comandata dal S. Tenente Molteni. Lassù si ebbe subito l’impressione che le promesse fatte dalle Autorità Alleate purtroppo erano state vane. Da molti giorni i Polacchi avevano evacuato Montecassino e allora tra i resti sconvolti ed incustoditi vagavano molti soldati alleati, in prevalenza Neozelandesi provenienti da un campo di riposo presso Arce, che dappertutto frugavano ed asportavano via oggetti di ogni genere: stoviglie, argenteria, arredi sacri, pezzi di tarsìe e di mosaici, intagli del coro. Con un riso sardonico, se non pure con un brutale rifiuto accampando esplicitamente i diritti della conquista, rispondevano all’invito fatto da me o dal Maggiore Martinengo di lasciare gli oggetti mal tolti.
Col Sig. Maggiore Martinengo dovetti ripartire la sera del 20 giugno. Rimasero a custodia del Monastero e con incarico di iniziare qualche lavoro di recupero il Padre Benedettino della Badia di Cava ed i Genieri italiani comandati dal S. Tenente Molteni.
Le visite importune e rapinatrici continuarono ininterrottamente. I soldati neozelandesi giungevano a frotte con badili, picconi, seghe e lampade elettriche per frugare anche i sotterranei più reconditi. Il Padre ed i Genieri dovettero adoperare tutti i mezzi per salvare gli oggetti più in vista, come i resti del coro — spesso mutilati sotto i loro occhi e malgrado le loro proteste — e molti arredi sacri ed oggetti del Monastero: si dovette persino murarli. Il lavoro era molto duro e difficile, data la vastità delle rovine, le innumerevoli vie di accesso ai ruderi, la difficoltà di accorrere da un punto all’altro del Monastero sulle macerie, la grande quantità di nascondigli e la impossibilità di far uso delle armi contro i numerosissimi saccheggiatori che osavano persino rapinare violentemente quanto si veniva rinvenendo: si fu costretti a lavorare nelle prime ore del mattino o la sera fino al crepuscolo.
Il giorno 23 giugno, nel pomeriggio, fu segnalato al Padre Benedettino — che si aggirava in visita di ispezione tra le rovine — un saccheggio in grande stile tra i ruderi dei locali adiacenti al chiostro detto della Porteria. Egli accorse e vi trovò un gruppo numeroso di Neozelandesi che si affannava ad asportare da un finestrino la cristalleria preziosa e le pregiate maioliche del cosiddetto Quarto Reale, delle stoviglie di valore dell’800 e soprattutto oggetti sacri di molta importanza, come due crocifissi in avorio — di cui uno grande bellissimo — quattro croci processionali di scuola abruzzese e vasi in maiolica e ceramica abruzzesi e faentine. Con preghiere, con minacce e persino con le lacrime, e grazie all’intervento di un benevolo sergente neozelandese si potò a stento ottenere che fossero lasciati almeno gli oggetti strettamente sacri. Al saccheggio si aggiungevano altri danni: fu provocato un incendio in un locale semidiruto della Biblioteca privata, con pericolo di esplosione delle munizioni sparse qua e là.
Il giorno seguente una banda dei soliti Neozelandesi, sorpresa da un temporale, invase il locale abitato dai Genieri (nel quale si trovavano raccolti e nascosti come meglio si poteva gli oggetti più preziosi ricuperati fino allora). Malgrado il divieto e le proteste dei soldati italiani, i Neozelandesi si dettero a rovistare e frugare dovunque. Scomparve così uno dei crocifissi d’avorio potuto salvare il giorno prima, scomparvero tre candelieri in bronzo di una cappella della Torretta, scomparve una pianeta nera di seta con ricami in argento, scomparvero due grandi anfore di ceramica. Le anfore furono poi ritrovate abbandonate e intatte in un prato.
Fu perciò necessario richiedere il sollecito intervento del nostro Comando Supremo, che provvedeva inviando immediatamente una pattuglia di venti carabinieri e facendo pervenire una lettera di protesta al Comando Alleato. Intervenne allora anche la Polizia alleata alla quale avevo denunziato a Roma, per mio conto, quanto accadeva a Montecassino. Accorse il Maggiore De Walds della Commissione Alleata di Controllo per i monumenti, intervenne il Generale Mosley, il Colonnello Newton, e così si poterono ottenere disposizioni energiche e tassative: fu stabilito di cintare le rovine con ferro spinato, fu comunicato a tutti i Comandi delle Forze Alleate residenti nella regione il divieto di accesso a Montecassino senza uno speciale permesso. Ebbe così fine il grave saccheggio, tanto più spiacevole perché completava la distruzione di quello che si era salvato dalla terribile rovina della guerra.

Badia di Cava, 15 luglio 1944

A Sua Eccellenza Mons. Tardini

Segretario S. C. A. E. S. Città del

Vaticano»

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