EDITORIALE – ”Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”

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Si chiude l’anno delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Si chiude la retorica celebrativa che ha animato tutte le manifestazioni pubbliche, a cominciare da quelle con il Capo dello Stato – ci mancherebbe che il buon Napolitano … napoletano nel suo ruolo facesse diversamente! –, si chiudono, speriamo, le polemiche dei revisionisti, filoborbonici, nostalgici, contestatori di ogni genere – tra questi abbiamo fatto capolino anche noi, ma alla nostra maniera –.
Ora, a mente serena, ci torna alla memoria il motto ”Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”, forse impropriamente attribuito a Massimo D’Azeglio, convinto federalista, ma che, in realtà, fu riferito da Ferdinando Martini, deputato, senatore e ministro della novella Italia. Tale motto è stato notevolmente ricorrente nelle dispute odierne per affermare che l’Italia, come espressione geografica e politica si è fatta, ma che gli Italiani non si sono mai del tutto sentiti sodali in una patria ancora fortemente divisa tra nord e sud.
Ma se vogliamo rendere giustizia a Massimo D’Azeglio dobbiamo  rettificare il senso del motto. Nella prefazione del suo postumo “I miei ricordi” (1867)  egli scrive: “Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”; dunque non si riferiva il nostro marchese all’unità degli Italiani dal punto di vista politico ma alla loro maturità culturale, civile e morale. Ce ne dà conferma il ricordato Ferdinando Martini che ne “L’illustrazione italiana” del 16 febbraio 1896 (pag. 99) racconta che in una conversazione in pubblico a Montecatini il D’Azeglio avrebbe affermato: “Se vogliono fare l’Italia, bisognerà che pensino prima a fare un po’ meno ignoranti gli Italiani”.
E qui viene ancora in mente l’altro motto di Alfonso di Lamartine: “L’Italia è una terra di morti”, ribadito nell’apostrofe antitaliana: “Io cerco [in Italia] uomini e non polvere umana” (“Dernier chant du pélerinage d’Harold”, c. XIII), che faceva eco allo storico tedesco B. Giorgio Niebühr, diplomatico a Roma dal 1816 al 1823, il quale ebbe a scrivere: “… L’Italia è una terra di morti che camminano” (“Lebensnachrichten über B. G. Niebühr”, II, pag. 37, Amburgo 1838, postumo). L’uscita di Lamartine suscitò sdegno tra gli Italiani, che non erano ancora politicamente tali; basti ricordare la satira di Giuseppe Giusti “La terra dei morti” del 1841 e le aspre risposte sulla stampa del colonnello Gabriele Pepe, che culminarono con la sfida a duello nel quale Lamartine fu ferito.
Dunque l’amor di patria era vivo e concreto prima dell’unificazione; è dopo che sembra essersi volatilizzato: ancora ai nostri giorni si brucia la bandiera tricolore, si inneggia al separatismo, si sbeffeggia sulla stampa straniera il Governo nazionale dimenticando l’adagio: i panni sporchi si lavano in famiglia. Ma qui forse l’amor di patria c’entra poco perché a prevalere è l’appartenenza politica. Ma non è compito della politica favorire il senso dell’unità nazionale e dell’appartenenza all’unica Nazione che è l’Italia?
                                                                                          e. p.

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