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Nel 2004 il governo Berlusconi istituì la “giornata del ricordo”. Ogni 10 febbraio si sarebbe dovuto rammentare il martirio subito da fiumani, istriani e giuliano-dalmati ad opera delle bande comuniste di Tito. Un provvedimento sacrosanto, legittimo, doveroso anche se giunto in colpevole ritardo. Più di 10 mila i nostri connazionali scaraventati nelle orride foibe carsiche tra il settembre del 1943 e il maggio-giugno del 1945, mentre in 350 mila furono costretti ad abbandonare quelle terre dopo l’entrata in vigore dell’iniquo trattato del 10 febbraio 1947. Grazie a quell’accordo scellerato, avallato dal nostro tremebondo esecutivo, le province di Pola, Fiume, Zara e parte cospicua di quelle di Gorizia e di Trieste, da sempre italiane, passarono definitivamente alla Jugoslavia. Da quei tragici eventi è trascorso più di mezzo secolo, un lasso di tempo sufficiente a rimuovere ostacoli di natura politica ed ideologica. Eppure la “giornata del ricordo” non riesce a decollare. Qualche anno fa il Presidente sloveno Danilo Turk ha accusato il nostro paese di avere ancora “un deficit etico sulle colpe del fascismo”. Il che ha fatto saltare il vertice di Trieste tra i capi di stato di Italia, Slovenia e Croazia, un simbolico gesto di riconciliazione che prevedeva una visita congiunta alla risiera di San Sabba e alla foiba di Basovizza. Nel 2008, invece, fu la Croazia ad inalberarsi con gli italiani “fascisti e criminali”. Sembra quasi di assistere ad un subdolo gioco delle parti con squallidi figuranti che, a turno, prendono posizione per evitare a tutti i costi che venga scoperchiato l’immane pentolone dei misfatti e delle atrocità. Gioco che anche noi, con le nostre inadempienze e riserve mentali, contribuiamo ad alimentare. Non basta istituire una giornata-ricordo e poi lavarsene le mani, come a volersi mettere a posto la coscienza. Che cosa è stato fatto da otto anni a questa parte per far conoscere, specialmente alle generazioni più giovani, quei tragici accadimenti? Certo ci sono state visite scolastiche alle foibe, convegni con la toccante presenza degli esuli, qualche rievocazione accorata di quel triste accadimento. Ma, per il resto, tutto come prima. E ciò, a ben vedere, fa molta più rabbia dell’oblio dei decenni passati. Si parla tanto della Shoah, della guerra di liberazione partigiana, ma si dimenticano quegli italiani, evidentemente di serie B, gettati a migliaia nei profondi dirupi, scaraventati in mare con un masso al collo, morti nei campi di concentramento titini o costretti ad abbandonare la propria casa per trasferirsi in posti lontani e spesso inospitali. Si dimentica chi, con le lacrime agli occhi e con la morte nel cuore, al momento di partire, si è portato dietro soltanto un pugno di terra istriana o giuliana per non perdere contatto con le proprie radici. Di tutto questo non si parla. O, meglio, se ne parla solo fugacemente quando sta per avvicinarsi il giorno fatidico. Poi scende di nuovo, fitto e impenetrabile, il buio e ritorna l’oblio. Un oblio che avviluppa con le sue soffocanti spire chi pure avrebbe molti buoni motivi per interessarsi a quella drammatica vicenda. Qualche anno fa un collega giornalista de “Il Piccolo” di Trieste mi inviò un lungo elenco di nomi (1048 per l’esattezza) di italiani, militari e non, infoibati dai comunisti slavi. Quell’elenco proveniva da una ricerca espletata da una coraggiosa studiosa slovena, Natascha Nemec, ed era stato trasmesso, dopo tante vicissitudini, dal sindaco di Nova Gorica al collega di Gorizia. Scorrendo quella interminabile sequela di nomi la mia attenzione si concentrò su quelli dell’Italia meridionale. Era da tempo, infatti, che tentavo di indagare se anche il sud della Penisola avesse avuto le sue vittime nelle foibe. Iniziai da quelli della regione laziale e, in primo luogo, della provincia di Frosinone, non fosse altro che per motivi di comunanza geografica. Recuperati un po’ di nominativi cominciai, con non poca difficoltà, a contattare le famiglie dei caduti credendo, ingenuamente, di fare cosa gradita: avevo intenzione, infatti, di dare notizie precise circa la scomparsa dei loro cari. E, invece, mi dovetti ricredere quasi subito. Nessuno tra quelli che interpellai si mostrò interessato alla cosa. Alcuni si rifiutarono di colloquiare trincerandosi dietro futili motivi. Altri mi dissero che non volevano saperne niente. Che erano passati tanti anni e che ormai si erano abituati a pregare davanti ad una tomba vuota. Di altri, infine, non riuscii ad individuare il ceppo familiare di provenienza. E così tutto finì lì. Fui preso, devo ammetterlo, da una delusione profonda. E, soprattutto, non riuscivo a capire i veri motivi che portava i familiari delle vittime ad essere così sfuggenti. Poi, però, tutto ad un tratto la situazione mi fu chiara. E capii che quella cappa ostinata e persistente di silenzio ad arte fatta calare sulla vicenda aveva raggiunto il suo scopo. Delle foibe non si doveva sapere niente. Di quelle atrocità nessuno doveva parlare. Quella vicenda è stata scientemente rimossa, cancellata, dimenticata, con la palese connivenza di governanti pavidi ed imbelli, incapaci di opporsi a cotanto misfatto. Persino chi ha avuto un parente o un amico infoibato non vuole parlare della cosa. Che illuso ero stato a pensare, come tanti altri, che l’istituzione della “giornata del ricordo” avrebbe potuto mettere fine alla colossale ingiustizia! E invece così non è stato. Si è soltanto aggiunta un’altra data sul calendario, sempre troppo fitto, delle celebrazioni inutili. Ci eravamo illusi che qualcosa potesse cambiare. Così come si era illusa la povera Natascha Nemec rimasta senza lavoro proprio a causa delle sue pericolose incursioni negli archivi segreti dell’Ozna. Lì, in Slovenia e in Croazia, non è ancora consentito parlare delle foibe. E chissà mai se lo sarà. Ma anche da noi, in Italia, la cosa non è di certo delle più agevoli. Tempo fa, nell’ateneo capitolino di Tor Vergata, si sarebbe dovuto tenere un convegno storico sull’argomento. Il rettore, che prima aveva dato il placet, qualche giorno dopo tornò sui suoi passi e proibì la manifestazione temendo disordini tra gli studenti di diverso orientamento politico. Si è persa così l’ennesima occasione per far conoscere all’opinone pubblica quanto accadde in quelle martoriate terre che grondano ancora di sangue italiano. Nessuno, però, ha trovato il coraggio di opporsi all’iniziativa del comune di Parma che ha dedicato una piazza al maresciallo Tito. Nell’ex Jugoslavia il nome di Josip Broz è stato cancellato, rimosso dalla toponomastica. Da noi invece lo si celebra come un eroe. Ma è un paese normale il nostro? Detto ciò, però (e stendendo un velo pietoso su un repentino dietro front di un comune del Cassinate riguardo ad un convegno sulle foibe, prima inserito in un calendario di manifestazioni culturali e poi cancellato per inspiegabili motivi), siccome tra i miei tanti difetti c’è anche quello di avere la testa dura, dopo un lungo periodo di riflessione, ho pensato di tornare alla carica. E, soprattutto, di rendere note le generalità di quelle persone della provincia di Frosinone che sono state scaraventate nelle tenebre spettrali delle foibe carsiche. Chissà che qualcuno, spinto da un improvviso moto di interesse, non dimostri una maggiore attenzione per una vicenda drammatica che, sia pure dimenticata e nascosta, fa parte della storia del nostro paese. Elenco, pertanto, in ordine alfabetico, i pochi nomi che ho rintracciato aggiungendovi quelle scarne notizie che sono riuscito ad estrapolare grazie anche alla preziosa collaborazione della sezione della Lega Nazionale di Gorizia, associazione storica che vive e lavora in difesa della italianità di Trieste e della Venezia Giulia, dell’associazione Libero Comune di Fiume in esilio e, soprattutto, della Società di Studi Fiumani e dell’Archivio-Museo Storico di Fiume (via Antonio Cippico 10, Roma), ottimamente diretto dall’amico Marino Micich, con il quale sono in contatto ormai da parecchi anni.
Emilio Adamo, nato a Ripi il 26 agosto del 1904 da Antonio e da Anna Persichilli. Agente (o guardia scelta) di pubblica sicurezza prestava servizio presso la questura di Gorizia. Qui venne arrestato dai titini il 2 maggio del 1945, rinchiuso nell’istituto delle scuole magistrali e poi trasferito in carcere. Dopo di che le sue tracce si perdono nel nulla. Il 10 febbraio del 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha consegnato ai suoi parenti una medaglia d’oro.
Adamo Adamo, fratello di Emilio. Anch’egli guardia scelta di pubblica sicurezza venne deportato a Gorizia il 3 maggio del 1945, dopo di che scomparve senza lasciare traccia.
Angelo (o Arcangelo) Dell’Orco, nato ad Alatri il 19 maggio del 1905 da Attilio e Angela Ricciotti. Guardia scelta di pubblica sicurezza prestava servizio presso la questura di Gorizia. Qui fu arrestato il 3 maggio del 1945 dagli slavi, deportato e da allora di lui non si ebbero più notizie.
Felice Gavallotti, nato ad Arpino nel 1908. Il padre si chiamava Giuseppe. Era un ingegnere che lavorava a Udine. Scomparve senza lasciare traccia a Villanova dello Iudrio il 2 dicembre del 1944.
Loreto Massimi, nativo di Frosinone. Bersagliere in forza all’VIII Reggimento risulta disperso a partire dal 19 maggio del 1945 nella “gabbia” di Tolmino.
Adriano Raimondo, nato a Coreno Ausonio il 23 novembre del 1922 da Antonio e Giuseppa Coreno. Era un finanziere che prestava serizio ad Abbazia. Risulta scomparso nel nulla a partire dal 21 settembre del 1944. Sulla sua tragica fine le versioni sono discordanti: secondo alcuni sarebbe stato ucciso ad Abbazia lo stesso giorno della sua sparizione. Altri, invece, sostengono che sia stato giustiziato a Fiume il 3 maggio del 1945.
Gerardo Savo Sardaro, nato a Torrice il primo maggio del 1922. La madre si chiamava Vincenza. Guardia di pubblica sicurezza prestava servizio presso la questura di Gorizia. Qui fu arrestato il primo maggio del 1945 e sparì nel nulla.
Francesco Sperduti nato a Frosinone il 6 marzo del 1924, figlio di Antonio. Guardia di pubblica sicurezza prestava servizio a Fiume. Arrestato nel maggio del 1945 è stato soppresso dalle milizie titine nei pressi di Grobniko il 14 giugno dello stesso anno.
Ruggiero Travaini (o Trovini), nato nel 1915 in provincia di Frosinone, tenente dell’VIII reggimento dei bersaglieri. Anche lui scomparve senza lasciare traccia. Da notizie attendibili si è poi saputo che quasi tutti i bersaglieri italiani furono giustiziati nell’alta valle dell’Isonzo, oggi in territorio sloveno, nella parte alta del corso del fiume. Da altre fonti si apprende che sarebbe stato fucilato nei dintorni di Tolmino nei primi giorni di maggio 1945.
Umberto Zaino nato il 7 novembre del 1915 a Broccostella, figlio di Antonio. Guardia di pubblica sicurezza svolgeva servizio presso la Prefettura di Fiume. Arrestato nel maggio del 1945 fu eliminato dai titini. Il luogo presunto della morte è Grobniko. Presunta anche la data del decesso che alcune fonti fissano al 14 giugno del 1945. Altre fonti, invece, parlano di una sua deportazione in Albania nel maggio del 1945.
Prima di concludere voglio riportare la testimonianza del signor Attilio De Arcangelis, originario di Arpino, la cui vicenda è a dir poco avventurosa. Fatto prigioniero dai tedeschi fu rinchiuso nel carcere di Pola da dove evase nell’aprile del 1945. Il 14 maggio, però, venne catturato dalla milizia slava. “Dopo un’altra settimana di carcere, il 20 maggio ho dovuto camminare fino a Fasana per imbarcarmi al mattino presto sulla motocisterna ‘Lino Campanella’. Arrivati nei pressi del canale Area la nave urtò contro una mina. Ognuno cercò di salvarsi come poteva. Mentre eravamo in mare i partigiani titini di scorta ci mitragliarono ammazzando una ventina dei nostri”.
Quelle sopra riportate sono soltanto tracce pallide ed indistinte che affiorano a fatica nel mare sconfinato di quella immane tragedia. Sarei ben lieto, ovviamente, se il puzzle, ancora largamente incompleto, potesse riempirsi con qualche altra sia pur modesta casella. Chi avesse, pertanto, notizie sugli infoibati della provincia di Frosinone puó contattarmi direttamente (riccardifernando@libero.it) oppure puó rivolgersi alla redazione di “Studi Cassinati” (info@studicassinati.it). Voglio continuare a pensare, infatti, che l’esigenza insopprimibile di ricostruire fedelmente una vicenda storica possa prevalere, sempre e comunque, su qualsivoglia distinguo di natura politica o ideologica. Gianni Oliva, “Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria”, Mondadori 2002, p. 27
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