EPIGRAFE ROMANA A SANT’ELIA FIUMERAPIDO


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Studi Cassinati, anno 2011, n. 1
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di Benedetto Di Mambro


Sul finire degli anni ’60, quando ero ancora studente liceale, mio compagno di studi era un certo Diego De Luca di Atina il cui padre era, a quel tempo, fattore dell’allora rigogliosa masseria dei Visocchi che si estendeva ampia nelle campagne di Chiusanova a Sant’Elia Fiumerapido.
Ricordo ancora quando andavo a trovare il mio amico alla fattoria Visocchi e come rimanevo incantato a guardare quattro epigrafi monche di epoca romana, oggi scomparse, che adornavano gli angoli alti del porticato dell’abitazione. Non se ne capiva il significato ma si rimaneva comunque incantati a vedere quella fattoria piena di vita, ben tenuta e lustrata a nuovo con quei sottarchi scritti in latino.
Non ero mai entrato in casa. Sono trascorsi più di quarant’anni e la masseria è ancora lì, seppur solitaria e circondata da solide staccionate, fra un fitto reticolato di nuove abitazioni e attività commerciali: i campi ed i vigneti sono stati venduti ed i terreni edificati. Sapendo della mia passione per l’archeologia e l’epigrafia latina, un operaio del Comune, Giuseppe Cuozzo, mi disse che nella cucina della masseria, incassata in un muro, c’era una pietra scritta in latino.
Il giorno seguente mi recai sul posto ma il cancello di accesso era chiuso. Scesi dall’auto, tolsi la spranga che bloccava il cancello e lo aprii riuscendo ad entrare nell’aia della fattoria. La casa era disabitata. C’era solo un ragazzo albanese che stava accudendo a dei cavalli. Non potetti parlarci ma nel frattempo sopraggiunse una Land Rover con un signore a bordo: era il padrone dei cavalli ed aveva in affitto le stalle dagli attuali proprietari della fattoria che però abitavano nel casertano, mi disse quell’uomo, e venivano, quando potevano, di sabato.
Ritornai il sabato successivo e fortuna volle che vi trovassi il giovane proprietario al quale spiegai il motivo della mia visita chiedendogli di poter dare un’occhiata alla cucina. Gentilmente mi fece entrare ed io potei sorprendentemente ammirare quell’epigrafe incastonata nel muro e rimarcata in rosso, delle dimensioni di cm. 69×39. C’era scritto:

Q.FVFIVS.Q.L.LICINVS
VIVOS.SIBI.FECIT.ET.
QVINTIAE.C L.ZOSIMAE.
H. M. H. N. S.

Con tutte quelle punteggiature, il ripetersi di iniziali, complementi oggetto e genitivi non mi fu di primo acchitto facile tradurla. Provai tutte le possibili opzioni che mi venivano fuori per cercare di decifrarla. Mi misi a cercare di capire le cinque ultime iniziali per dare un senso a quella frase. Alla fine scoprii il significato di quelle ultime lettere punteggiate dell’ultimo rigo: H(hoc) M(monumentum), H(eredem), N(non), S(sequetur). Ne parlai con Emilio Pistilli il quale mi aiutò a tradurla e ci sembrò che la più probabile traduzione dell’intera epigrafe potesse essere la seguente:
“QUINZIO FUFIO LICINO LIBERTO DI QUINTO FECE [QUESTA PIETRA TOMBALE] PER SE STESSO E PER SUA MOGLIE QUINZIA ZOSIMA LIBERTA DI GAIO ESSENDO ANCORA VIVO. HOC MONUMENTUM HEREDEM NON SEQUETUR”. “Questo monumento funebre è un bene indisponibile anche per l’erede“, vale a dire che nessuno lo potrà usare a suo piacimento.
L’epigrafe, ci informa l’illustre epigrafista finlandes Heikki Solin, fu pubblicata da Iannelli negli Atti della Commissione conservatrice dei monumenti ed oggetti di antichità e belle arti nella provincia di Terra di Lavoro 1886, pag. 89, n. 3, ripetuta in Ephemeris Epigraphica VIII 598.

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