I 150 anni dell’unità d’Italia – DON BENEDETTO SCAFI UNA TONACA PER L’ITALIA


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di Costantino Jadecola

Ti verrebbe quasi da chiedere al primo che incontri dov’è che lo puoi trovare: in parrocchia, a San Folco, o sulla Santopadre-Arpino? Ti verrebbe naturale farlo, se non ci fosse di mezzo molto più di un secolo.
Lui, il “ricercato” è l’“Abbate” don Benedetto Scafi, di famiglia da sempre santopadrese. Studiò lettere al Tulliano di Arpino, filosofia e teologia morale presso il seminario di Sora, diritto canonico a Roma. Ordinato sacerdote nel 1829, gli fu affidata la responsabilità della chiesa di San Folco.
Nel ristretto giro dei cultori di storia patria, al di là dei suoi concittadini, beninteso, il suo nome è conosciuto non solo per le Notizie storiche di Santopadre, edito a Sora presso la tipografia di Carlo Pagnanelli nel 1871 e oltre un secolo dopo, nel 1979 e nel 1993, riproposto in ristampa anastatica dapprima per iniziativa dell’amministrazione comunale del suo paese e poi da quella provinciale di Frosinone, ma anche per essere stato un sacerdote di quelli che potrebbero definirsi progressisti.
C’è un suo discorso sulla pena di morte, ad esempio, che merita attenzione: “È ben ridicolo il nascondere alla gente con riservati ammazzatoi l’uccisione delle bestie, quando si espone all’occhio del pubblico e con solenne apparato, il nefando spettacolo dell’uccisione dell’uomo!
“E in vero il Divin Legislatore nel precettare a tutti il Non Occides ha forse fatta qualche eccezione pel Magistrato? E se questi nel suo massimo sangue freddo, per vendicare gli altrui torti, puó dare all’uomo la morte; come puó pretendersi che a di lui esempio, altri nel bollore della passione, e in vendetta di un’offesa propria, reale o presunta, non la dia ugualmente?
“E poi da tanti secoli che dura la pena di morte, sono forse mancati mai gli stessi motivi di applicarla? Sono forse per essa divenuti migliori e più miti gli uomini, e non piuttosto brutali e feroci?”1
Fossero solo queste considerazioni, o qualche altra dello stesso genere, il tutto rientrerebbe nella specifica competenza pastorale. Accade, invece, che don Benedetto non abbia difficoltà alcuna ad andare oltre: “La missione della legge è di rendere migliore l’uomo, non già di distruggerlo. Quindi il rispetto alla vita umana, sacro ed inviolabile, deve trovarsi, prima che in altri, nella legge stessa. Che perciò francamente ed altamente dico, che quei Codici che tuttavia mantengono lo scandaloso e funesto spettacolo della pena capitale, non vogliono allenire i costumi del popolo, ma, almen nell’effetto, abbrutirgli maggiormente.
“Avrei pur desiderato (ad onore della Cattolica Religione) che i primi ad abolire la pena capitale, non pure in Italia, nel mondo intero, fossero stati i Capi di essa Religione quando per castigo di Dio fungevano infelicemente da Re.
“Da niuno si sarebbe sperato, anzi dovuto, meglio di essi che dovevano prendere le loro ispirazioni e le loro norme dall’eterno codice di rettitudine e di carità umanitaria, il Vangelo. Sta ivi precettato – Non ucciderai – Pena la perdita dell’ amicizia di Dio.”2
“Ma invece la Corte pontificia credeva rendere ossequio a Dio quando sui roghi inumanamente abbruciava vivi gli uomini, non ostante che nel Vangelo Gesù a chiare note avesse detto: Verrà tempo che chi vi ucciderà si creda di rendere onore a Dio; e vi tratteranno così perché non hanno mai conosciuto né il padre né me. E queste cose vi ho detto, affinché venuto quel tempo vi ricorderete che io ve le ho dette.”3
Da qui ad un’apertura di credito per la nuova Italia il passo è breve: “Ho tutta la fiducia però che quello che non si è saputo fare dalla Roma teocratica, si farà quanto prima dalla Roma italiana.”4
Secondo Scafi “il Pontefice, o non avrebbe mai dovuto accettare un regno terreno ad imitazione del divin Capo e Maestro Gesù Cristo che chiaramente aveva dimostrata la separazione che doveva stare tra il temporale e lo spirituale allorché disse: Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio – E che aveva pur detto: Il regno mio non è di qui; e lo confermò col fatto della sua fuga alla montagna quando si avvide che lo volevano proclamare Re.
“O pure accettandolo, il regno, l’accettazione non doveva servire che a portare ad atto quelle sante massime evangeliche di perfetta carità.
“Ma infelicemente non fu così: e se i despoti profani calpestavano solo i sudditi; i despoti sacri calpestavano sudditi e Sovrani.
“E quando in tempi migliori tanti Principi riconoscendo la dignità dell’uomo, ne rallentavano le catene, la Corte pontificia le ribadiva crudelmente e duplicava.
“Quindi con tutta giustizia si è detto che il regime politico pontificio non essendo (come per le massime evangeliche sarebbe dovuto essere) l’ottimo fra tutti i migliori, era perciò stesso fra tutti i peggiori il pessimo.”5
“Lode dunque a Dio che per vie mirabili si degnava ricondurre le cose a’ suoi giusti e veri principii con inaspettato e tremendo castigo di quanti opponevano ostacoli al trionfo della sua divina misericordia.
“Lode a Dio che decretava perciò l’italiano Risorgimento facendone precursore Mazzini a prepararlo; mandando il suo Vicario Pio IX ad iniziarlo; creando la sublime mente di Cavour a fecondarlo, e servendosi del valido braccio del prode Generale Giuseppe Garibaldi a cementarlo.
“E lode ancor più solenne a Dio, che scegliendo a ministro delle sue’ grazie il glorioso amatissimo nostro Re Vittorio Emanuele II, lo destinava a compiere il tanto sospirato Risorgimento italiano, e a liberare la sua Chiesa dall’incubo funesto del temporale dominio che la teneva oppressa ed avvilita.6
“Quindi il fiat voluntas tua, sicut in coelo et in terra, che ogni prete o frate recita almanco un quindici volte al giorno, non è meno in loro un’orazione a fior di labbra, che una manifesta mensogna: sognando e brigando impossibile e certo non più lungamente durabile ristorazione di temporale dominio; con promuovere interventi, provocar guerre e stragi, in aperta opposizione di quel Vangelo stesso che con parole ed apparenza dicono professare; ma che con fatti tutto giorno rinnegano.
“Dio le perdoni e le ravveda!
“Con lo sbarazzamento del temporale dalla chiesa, e coll’attuale regime politico invalso nell’Europa, una larga scaturigine di bene è dischiusa alla moralizzazione de’ popoli. E ad ampliarla sempre più crederei molto espediente la creazione di un Tribunale pei meriti e per le ricompense, così come ne esiste pei delitti e per le pene.
“Che se quest’ultimo col timor del gastigo allontana l’uomo dal male; quello coll’amor della virtù lo richiama al bene.”7
Potrebbe obiettarsi che, a cose fatte, è facile parlare in questo modo. Può darsi. Non sappiamo, però, se una imputazione del genere possa farsi a don Benedetto Scafi. Il quale di certo non le mandava a dire come, ad esempio, prova questa sua lettera a Papa Pio IX, “firmata anche da altri del Clero, e riportata dal Giornale Il Popolo d’Italia al numero 207 del dì 28 Luglio 1862”, con la quale si invitava il Pontefice ad abbandonare il potere temporale: “Beatissimo Padre. Il Clero del Comune di Santopadre, pel bene della Chiesa, dell’Italia, dell’umanità, sente il dovere di aggiungere i suoi ai voti universali e comuni, e supplicare la Santità Vostra, Vicario di Gesù Cristo, ad abbandonare di buon grado al Mondo quel potere temporale e mondano, che (come è scritto nel Vangelo) il Divin Maestro con detti dimostrava e con fatti, disconvenirsi al Capo di una Religione di pace, santa e pura; come allorquando protestava che il suo Regno non era il temporale e caduco, quando ricercato per Re, fuggissene al monte; quando ingiungeva restituirsi a Cesare ciocché è di Cesare; e quando predicava il distacco da’ beni terreni. Che se Iddio (a castigo soltanto della superbia umana) lo ha per qualche tempo permesso e tollerato, è giunta pur l’ora che la sua misericordia finalmente trionfi. Piaccia alla Santità Vostra accogliere la voce del popolo, ch’è pur la voce di Dio, ed impartire al Clero, che ne è l’interprete, l’apostolica benedizione. Santopadre 13 Giugno 1862. Sacerdote Benedetto Scafi-Sacerdote Nicola Casciano-Sacerdote Angelantonio Notargiacomo.”8
Ma Scafi ebbe “contatti” anche con Giuseppe Garibaldi il quale, scrive don Benedetto, “compiacendosi del mio buon volere, mi onorava della seguente lettera, riportata pure dal Popolo d’Italia nel numero 188 del dì 11 Luglio 1863”: “Al Sacerdote Benedetto Scafi – Santopadre. Caprera 26 Giugno 1863. Ricevetti il vostro danaro che farò pervenire agl’insorti Polacchi. Abbiatevi intanto una parola di ringraziamento. Se la brutta genia de’ preti vi rassomigliasse, l’umanità non sarebbe abbrutita, e noi saremmo a Roma. Vostro Giuseppe Garibaldi.”9
Gioisce naturalmente don Benedetto quando, il 20 settembre 1870, con la “breccia di Porta Pia” termina il potere temporale della Chiesa. “Oh! – dissi io allora – non potrebbe ancor vivere il degno patriota mio paesano ed amico, D. Giuseppe Margarita (morto a’ 16 Gennaio 1848)! Il quale, a cagion del temporale dominio Pontificio, non sapeva aggiustarmi fede, allorché nel 1846 io gli diceva possibile, e forse non tanto lontana, 1’epoca della Italiana Unità. È vero che egli mi avrebbe visto perseguitato dalla polizia, coll’obbligarmi nel dì 5 Settembre 1849 a partire in giornata da Napoli dopo un giorno di detenzione tra i detenuti politici; ed allistato tra gli attendibili; perquisita la casa di mia solita abitazione in Santopadre il dì 28 Novembre 1852, rovistiandone tutte le carte ed i giornali; e la mia Casina ai Vallimàmoli, il dì 17 Maggio 1859. Ma egli avrebbe pur veduto gli avvenimenti del 1859, del 1860, del 1866 ed in preferenza fra tutti, quei del 20 Settembre 1870, che avveravano i miei giusti presentimenti.”10
Non puó poi dimenticarsi che sulla strada di don Benedetto c’è, per quasi un quarto di secolo, dal 1838 al 1862 (Scafi era nato a Santopadre il 23 luglio 1806), un personaggio non solo dalla forte personalità – Crescenzo Marsella ne I Vescovi di Sora scrive che “avrebbe arrestato suo padre se l’avesse visto evadere dal carcere ed avrebbe ammanettata sua madre se l’avesse sorpresa nell’infrazione d’una legge” – ma anche legato a doppio filo col Re Borbone Ferdinando II: il Vescovo Giuseppe Montieri11. Per cui se un certo giorno l’“Abbate” di Santopadre viene sospeso a divinis o addirittura finisce in carcere, seppur per poco tempo, ed è, comunque, perseguitato come “attendibile”, evidentemente le sue simpatie politiche egli doveva pur averle già manifestate in tempi non sospetti, ben consapevole dei rischi che correva.
La sospensione a divinis è del 1844 e la causa ufficiale che la provoca ha tutta l’aria della classica goccia nel vaso già colmo: quando in quell’anno viene intrapresa la realizzazione della strada rotabile da Santopadre ad Arpino su progetto dell’architetto Francesco Coccoli, vista la carenza di fondi, don Benedetto, racconta lui stesso, “per agevolare e per risparmiar le spese di un Ingegnere direttore e di Soprastanti ai lavori in economia, assumo su di me stesso tutta la responsabilità della direzione e sorveglianza e dall’alba del mattino all’imbrunir della sera sto instancabilmente sul luogo del travaglio, fosse la giornata serena o piovosa, umida o asciutta, gelata o estuante.”
“Ma un’opera così bella”, prosegue Scafi, “non poteva mancare di oppositori ed uno, anzi l’unico, fu proprio il Secondo Eletto, ossia quell’Officiale che allora rimpiazzava il Sindaco in caso d’impedimento. Costui cominciò a ricorrere contro il Sindaco stesso che faceva lavorare; ma finì col restar destituito dall’Officio di Eletto.
”Questo disonore però nol corresse e credendo che l’unico mezzo di stornare il lavoro della nuova strada sarebbe stato di allontanarne me, ottiene dal Vescovo Montieri la mia sospensione dalla Messa. Ma io che non voleva che lavori così santi si fossero abbandonati, come sarebbe certamente avvenuto, non mi presi alcun pensiero della sospensione fin a che non ebbi aperta, lungo il territorio Santopadrese, tutta la traccia nella lunghezza di oltre a tre chilometri …”
Nel 1848 Scafi avrebbe reagito all’ingiustizia di cui era stato vittima scrivendo una dura satira contro la politica e l’operato di Montieri. La satira, stampata a Sora nel 1866, ebbe una certa diffusione, in particolare fra tutti coloro (ed erano molti) che avevano subito l’implacabile rigore del Montieri.
Nelle sue Notizie, Benedetto Scafi cita il Vescovo Montieri solo in un paio di occasioni: poche righe, ma di sottile arguzia, e ne vien fuori quasi un profilo. Così, quando parla del costume delle contadine di Santopadre, precisa che “nel 1840 il Vescovo Montieri vi aggiunse il fazzoletto, o fisciù, che ricopre dal collo al petto”; così, quando parla dei terremoti che funestarono il paese, egli scrive che “altro tremuoto è celebre non per l’effetto – che è simile agli altri – ma per la coincidenza della venuta in Diocesi del nuovo Vescovo Monsignor Montieri, che ebbe luogo il dì primo Novembre 1838, nell’ora stessa che egli vi poneva per la prima volta il piede. L’avvenimento fu tenuto di male augurio e veramente il suo cattivo sistema con cui, volendo togliere gli scandali, gli moltiplicava immensamente, ne accrebbe la credenza.”
Nel 1871, quando aveva ormai sessantacinque anni, Scafi scrisse Notizie storiche di Santopadre in cui si rivela puntuale ricercatore e osservatore attento, dando un quadro completo del paese così com’era ai suoi tempi (istituzioni, economia, luoghi di culto, ambiente, arte, tradizioni) e riportando inoltre molte informazioni di carattere storico-archeologico.
Don Benedetto Scafi muore il 26 dicembre 1879. Nella prefazione alla prima ristampa del suo libro a cura dell’amministrazione comunale di Santopadre nel centenario della morte dell’autore, il sindaco del tempo, Rocco Forte, evidenzia, tra l’altro, “la carica umana e progressista, che traspare in tutta l’opera” di Scafi e si dice “convinto che se Egli potesse, per un attimo, tornare tra noi, vedrebbe appagato finalmente quel Suo desiderio per il progresso e l’incivilimento di tutti”.


1 Benedetto SCAFI, Notizie storiche di Santopadre. Ristampa anastatica dell’originale del 1871. 1993. Frosinone, pp. 43-44.
2 Idem, pp. 44-45.
3 Idem, p. 46.
4 Idem.
5 Idem, p. 48.
6 Idem, p. 49.
7 Idem, pp. 50-51.
8 Idem, pp. 248-249.
9 Idem, p. 249.
10 Idem, pp. 249-250.
11 Nato a Trevico (Avellino), il 19 novembre 1798, è vescovo della diocesi di Aquino, Sora e Pontecorvo dal 23 settembre 1838 fin quasi il compimento dell’Unità d’Italia, nel 1860, quando, dopo varie peripezie, si rifugia infine a Roma dove muore il 12 novembre 1862.

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