La scomparsa Chiesa di S. Croce di Olivella in S. Elia Fiumerapido


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Studi Cassinati, anno 2010, n. 2
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di Giovanni Petrucci


Della Chiesa di S. Croce “ad vadum Clie”, che era aperta al culto ancora nel secolo XIV1, si è persa ogni traccia.
Non è citata nel Testamento di Leonardo Infante del 13 giugno 1250, né nei documenti elencati nei Regesti di Bernardo I2; ma sicuramente aveva una certa importanza per la valle di Olivella, prima che venisse edificata l’attuale di Santa Maria dell’Ulivo, visto che viene ricordata in alcuni documenti.
Al tempo della chiesa di S. Croce, le abitazioni nell’attuale contrada o erano dei semplici recinti di muro a secco coperti con paglia oppure con ampelodesmo, la nostra stramma, o erano delle capanne; raramente erano in muratura.
Apparteneva al Monastero di Valleluce3, come erano dello stesso anche una terra sita “de pede Clie” nella Terra di S. Elia ed un’altra poco distante, nei pressi di “Peschu Aquarum”4.
Forse si trovava di fronte all’attuale Centrale Idroelettrica “Cassino I”, di là dal Rio Secco, considerando che esiste ancora oggi il nome di una strada rurale, Via S. Croce. La località sembra corrispondere esattamente alle indicazioni che ricorrono nei documenti, “ad vadum Clie” e “ad pede Clie”, in quanto essa si trovava proprio in fondo, all’entrata della valle. Del resto in tali paraggi la ubicava l’archeologo dom Angelo Pantoni; la chiesa di S. Croce “dovrebbe essere stata nella contrada Olivella (Clia), ai piedi del Monte Cairo, dove sfocia il fosso Belvedere” e credo che similmente ad essa si riferiva il Lanni nel descriverla “alle falde de’ monti S. Croce a’ piedi di Clia”5.
Secondo notizie acquisite da alcuni abitanti del posto forse si trovava all’interno di un gruppo di case a mezza costa della via, nelle quali venne inglobata ed oggi non se ne sa più nulla. Così ne sentì parlare dai nonni la novantenne Giuseppa Fortuna fu Donato, che da giovanetta scese dal caseggiato Casale a quello di S. Croce.
La località aveva nel basso Medioevo quasi la stessa denominazione “Colle de Cruce”, e così è citata in un documento dell’8 marzo 1272. In esso l’abate Bernardo conferma ad Adenolfo, due terre della Chiesa di S. Benedetto di Clia, “quarum una vocatur Collis de Cruce, altera Carpenetum”6.
In verità penso che si trattava di una semplice chiesa di campagna in muratura, ma scarsamente rifinita, sita in territorio campestre ed utilizzata dai contadini del circondario nei giorni festivi e la domenica. Forse per il fatto che era isolata e frequentata da poche famiglie, spesso aveva bisogno di riparazioni, come avvenne nel 1277. Infatti Leonardo di d. Mattia e fra Giacomo di Giovanni Buono la diedero in affitto per sei anni a tal Giovanni Ferruzzo con il compito di provvedere alle dovute riparazioni, insieme con le case vicine e la fornace, utilizzando il legname dei campi e due muratori. In verità credo che la chiesa non era inclusa nel contratto di affitto, ma questo si riferiva solo alle case, ai terreni vicini alla chiesa e a quelli lontani7.
Essa era di una discreta importanza, come detto all’inizio, in considerazione del fatto che aveva annesso un ospedale, una fornace per la cottura della calce e godeva di rendite in quanto possedeva all’intorno dei terreni coltivabili con oliveti e piante da frutta, come noci ed altre, ed anche nelle vicinanze di un luogo sacro, chiamato “Peschu Aquarum”; questo potrebbe identificarsi con la sorgente attuale “Pisciacquaio”.
Per tale motivo, per le proprietà che possedeva, il Preposito fra Nicola da Marano8 del Monastero Benedettino di Valleluce, nel 1261 la prese in suo possesso, prevedendo però di doverla far riparare.
Col passare degli anni, forse trovandosi isolata e decentrata, venne trascurata dai pochi abitanti del circondario, divenne cadente, perciò venne chiusa al culto. E questo accadde anche perché era sorta nell’ampio territorio pianeggiante nel XVI secolo una cappella, “la quale acquistando via via molte rendite, non si attese molto ad edificarvisi una magnifica Chiesa”9, che oggi è quella grande di S. Maria dell’Ulivo.
Nei paraggi di Via S. Croce, all’interno di una zona boscosa, ho rinvenuto una grossa pietra con al cento un incavo piuttosto profondo, che puó far pensare ad un’acquasantiera; ma non so di altre tracce.
Alla parte opposta del Rio Secco, proprio di fronte al luogo da me individuato, in una zona che chiamavano la pietra riccia, di proprietà dell’avv. Sonia Serra, il mio amico e collaboratore Pasquale D’Agostino, mi ha fatto notare alcune grandi pietre squadrate e scalpellate come si usava a quei tempi rinvenute durante uno scasso per mettere a dimora degli olivi. Non credo che in questa zona si trovava la chiesa di S. Croce di cui sto trattando, sia perché essa non è “ad vadum Clie”, o “ad pede Clie”, cioè in fondo alla valle, sia perché mancano testimonianze concrete e qualsiasi riferimento toponomastico. Le pietre forse appartenevano ad altra costruzione, o vi saranno state trasportate da Via S. Croce.

1 Tommaso Leccisotti, I Regesti dell’Archivio, Volume VI, Roma 1971, d. n. 29, p. 281.
2 Regesti Bernardi I Abbatis Casinensis Fragmenta, cura et studio D. Anselmi Mariae Caplet, Roma MDCCCLXXXX, doc. n. 402, p. 167 e segg.
3 Gattola E. Historia, vol. I, ibidem, p 206: “Plures huic cœnobio ecclesiæ parebant: In primis ecclesia S. Maria de Maioribus[…] ecclesia S. Crucis in pede Cliae cum fornace, et aliis suis terris, cum omnibus possessionibus suis[…].
4 Tommaso Leccisotti, ibidem, d. n. 29, p. 281.
5 M. Lanni, Sant’Elia sul Rapido, Napoli 1873 p. 8.
6 Regesti Bernardi I, ibidem, , doc. n. 304, p. 128.
7 Tommaso Leccisotti, ibidem, d. n. 17, p. 274.
8 Tommasio Leccisotti, ibidem, d. n. 12, p. 272: “1261, marzo 4, ind. IV., a III Manfredi, S. Elia presso la chiesa di S. Onofrio. Fra Nicola da Marano, monaco Cassinese e preposito della chiesa di S. Angelo di Valleluce, volendo che sia restaurata la chiesa di S. Croce «ad vadum Clie», avendo con sé Pellegrino di Rinaldo suo avvocato, alla presenza del giudice Egidio e dei testimoni, la dà e concede alla comunità di S. Angelo, perché la regga insieme con le case e l’ospizio (ospedale), riparandola quando sarà necessario. Giudice Egidio. Notaio:Giovanni.(ST)”. d. n. 676, p. 274: “[1277], marzo 14, ind. V., S. Elia. Fra Leonardo di d. Mattia e fra Giacomo di Giovanni Buono da S. Elia monaci di Valleluce e procuratori di quella comunità, con consapevolezza e volontà di d. Signoritto, abate di S. Matteo e procuratore del monastero e comunità di Valleluce, danno in estaglio per sei anni a Giovanni Ferruczo la chiesa di S. Croce ad «ad pede Clie» con le terre adiacenti, con gli olivi ed altri alberi in esse esistenti, con un’altra terra della stessa chiesa in località Allocancle (?) e con i noci in essa esistenti, e con la fornace di S. Croce, con il patto che i concessionari debbono far portare fino alla chiesa il legname necessario e a loro spese procurare due maestri per la riparazione della chiesa, delle case e della fornace, concorrendo ancora con rilasciare tutti i frutti delle terre e degli alberi, ricevendo invece come estaglio due once e mezza di oro, in varie scadenze”.
9 M. Lanni, ibidem, p. 52.

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