L’ultimo libro di Filippo Carcione sulla storia religiosa di Pontecorvo: osservazioni critiche.

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 2
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di Angelo Nicosia


A marzo 2010 è stato presentato a Pontecorvo il primo volume della collana “Percorsi di storia ecclesiastica in provincia di Frosinone” con titolo “Culto, pastorale e uomini di Chiesa nella storia religiosa di Pontecorvo” a cura di Filippo Carcione, stampato a Roccasecca da “Arte Stampa Editore” a dicembre 2009. Alla pubblicazione del volume “ha concorso con i propri fondi l’Università di Cassino Dipartimento di Scienze Umane e Sociali”. Il volume contiene sette saggi conformati alla tematica indicata nel titolo, alcuni dei quali meritano una necessaria riflessione anche per gli indirizzi e per gli obiettivi che la collana intenderebbe privilegiare, tra i quali, come viene indicato nella “Prefazione” a firma dell’editore, l’approfondimento agiografico, la ricostruzione topografica … e la promozione della bibliografia locale in genere poco nota nei circuiti della comunità accademica”.
Il primo saggio è di F. Carcione: Il culto di san Grimoaldo e la genesi agiografica dell’Apparitio Johannis Baptistae a Pontecorvo. Molto sinteticamente ricordo che l’Apparitio racconta di un avvenimento della prima metà del secolo XII il cui protagonista è un contadino della contrada Melfi di Pontecorvo, chiamato Giovanni Mele, il quale, attirato dalle lusinghe del demonio, sta per soccombere nelle acque del fiume Liri quando viene salvato dall’intervento miracoloso di S. Giovanni Battista. Il Battista esorta il contadino a rivolgersi al “santo” arciprete Grimoaldo affinché la sua apparizione venga ricordata con l’edificazione di una chiesa sul posto. In età moderna il fatto viene annualmente ricordato nella seconda domenica del mese di maggio in occasione dei festeggiamenti del patrono, appunto S. Giovanni Battista, con una processione che alle prime luci dell’alba parte dal paese per raggiungere la chiesa extraurbana sita nei pressi del luogo dell’apparizione, per poi far ritorno alla fine della mattinata. Alla manifestazione religiosa è associato un pittoresco rituale pseudopagano che attira curiosità e interesse da parte degli studiosi di tradizioni popolari.
L’autore del saggio, Filippo Carcione dell’Università di Cassino, già in passato a Pontecorvo, e mi pare in occasione della presentazione di un opuscoletto dell’arciprete Luigi Casatelli (Camele non esiste. Due cittadini Pontecorvesi…, Roccasecca, Tip. Casa Editrice Arte Stampa, 2008), aveva preannunziato, in parte anticipandone i contenuti, un suo scritto per dimostrare l’“originalità” del documento dell’Apparitio Johannis Baptistae a Pontecorvo e naturalmente di tutti gli annessi riferimenti. Questa sua promessa prendeva le mosse dalla contestazione da parte di diversi studiosi e di numerosi “appassionati cultori” delle tradizioni locali nei confronti della gerarchia ecclesiastica pontecorvese che aveva modificato il rituale dei festeggiamenti annuali in onore del patrono S. Giovanni Battista per orientare l’interesse verso l’aspetto “sacrale” (ovvero per un “recupero spirituale”, come scrive il Carcione p. 15) dell’ignaro protagonista della vicenda, Giovanni Mele (popolarmente “Camele”, nel senso di ingenuo, stupido, credulone), la cui stravagante statua veniva immessa all’interno della chiesa-santuario del posto. In particolare la dimostrazione del Carcione era indirizzata, allora verbalmente, ma che poi doveva materializzarsi con il preannunziato scritto, alla specifica ricerca demo-etno-antropologica, che negli ultimi tempi è stata riproposta da Marcella Delle Donne dell’Università La Sapienza di Roma (Camele, il Diavolo e il Santo. Uno sguardo antropologico, Napoli, Liguori Editore, 2008). Probabilmente la dimostrazione doveva essere anche una difesa solidale dell’arciprete Casatelli per le osservazioni critiche indirizzate alla sua opera da parte di Alessandra Broccolini docente di Etnologia della stessa Università romana (in La Lucerna, n. 8, ottobre 2008, p. 8). Mi pare indubitabile che il promesso scritto del Carcione debba considerarsi questo saggio inserito nel primo volume della collana sopra indicata dove interessa le pagine 9-46.
La lettura del saggio, non necessariamente approfondita, permette di capire subito come l’autore ha voluto impostare la sua confutazione secondo un principio propriamente dogmatico. Si dà per provato che l’Apparitio Johannis Baptistae, di cui naturalmente non esiste l’originale, sia un documento genuino redatto nella seconda metà del secolo XII da un vescovo di Aquino (un Guarino o un Reginaldo/Rainaldo). Tale sicurezza deriverebbe dal fatto che nel documento è menzionato un arciprete Grimoaldo vissuto tra XI e il XII sec., identificato con l’omonimo S. Grimoaldus confessor, e che il testo è stato accolto negli Acta Sanctorum: Iunii IV, 1707, pp. 798-803 e Septembris VIII, 1762, pp. 184-185. Quindi, fissato il paletto su questo assunto, l’autore cerca di spiegare e convalidare la credibilità del documento e dell’evento narrato.
Il saggio inizia con l’individuazione della “Memoria ecclesiastica dell’arcipresbitero Grimoaldo” a Pontecorvo (pp. 9-15). Poi, in assenza di una adeguata tradizione manoscritta, confessa che “resta soltanto la lettura accurata del testo, al fine di scorgere nella narrazione stessa gli indizi confortanti per la determinazione delle circostanze che favorirono la genesi agiografica de apparitione” (p. 19), cioè del Sitz im Leben, dell’ambiente/contesto nel quale il documento è nato ed è stato usato. Seguono perciò richiami ad eventi, situazioni e personaggi della storia di Pontecorvo, che l’autore ritiene compatibili con il racconto dell’Apparitio, senza rinunciare a riconoscere nei protagonisti dello stesso racconto un preciso ruolo di figure allegoriche del tempo (p. 22). La trattazione è sapientemente organizzata, attraverso un linguaggio articolato con forte accento retorico, lungo percorsi “nodali” che si esplicitano anche attraverso rilevazioni dottrinali sottolineate dalla solennità dei vocaboli tedeschi e latini, non sempre decodificabili da tutti i comuni lettori; risulta perfino faticoso riportare all’esperienza delle celebrazioni patronali la denominazione, usata dall’autore del saggio, di “festa di S. Giovanni Appare” (p. 16), per quella che a Pontecorvo è conosciuta solo e semplicemente come “festa di S. Giovanni Battista”. Tuttavia con una tale autorevolezza del discorso le pretese degli scettici, dei seguaci di un “archeologico topos marxista” e dei falsi storici verrebbero agevolmente superate e perfino “l’antropologia culturale , dunque, pane per i suoi denti”, assicura l’autore (p. 26).
Naturalmente lo scritto del Carcione non è condivisibile e l’unica osservazione che potrebbe essere accettata è nella conclusione, laddove è propenso “a ritenere che l’Apparitio Johannis Baptistae possa essere stata posta in allegato ai documenti prodotti per una canonizzazione dell’arcipresbitero pontecorvese” Grimoaldo (p. 33). Il problema, però, è concordare su quando (temporale) si presentò il problema di “legalizzare” questa canonizzazione e quando fu realmente redatto il documento dell’Apparitio! L’analisi sviluppata dallo studioso certo non è né completa e né determinante per risolvere il problema nella sua sostanza. Sia ben chiaro, il lavoro è condotto in maniera impeccabile, ben impostato e ricco di riferimenti, ma privilegia solo un aspetto del problema trascurandone altri ugualmente importanti. Ciò che manca nel saggio del Carcione è l’analisi testuale del documento: un requisito assolutamente necessario per capire se effettivamente anche il contenuto formale è coerente con la realtà culturale del periodo storico rappresentato. Non basta che la narrazione dimostri “l’aderenza piuttosto immediata con gli eventi annunciati” e non basta “la forte sensazione che l’arcaicità dichiarata sia autentica” (p. 36) per sincronizzate temporalmente i diversi elementi intrinseci ed estrinseci della questione, se non solo soggettivamente. È necessario invece un esame obiettivo e completo, che includa un corretto studio semantico ed etimologico del testo. Si tratta di una metodologia ormai entrata nell’ordine delle cose già da diversi secoli, sulla traccia di quella esemplare per i suoi tempi perseguita da Lorenzo Valla nel 1440 per la falsa “Donazione di Costantino”. Insomma accertare se anche la forma, la lingua, le espressioni, le inflessioni e i vocaboli usati nel nostro documento sono coerenti con il linguaggio e la pratica del XII secolo. L’accurato allestimento letterario con “effetti speciali” usato nel saggio non è sufficiente per chiudere sic et simpliciter il discorso. È come spiegare con profondità di espressione che la storia narrata nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è perfettamente ambientata nell’età del Seicento, senza tener conto che è stata scritta ben due secoli dopo. Senza entrare nel merito dell’“antichità” del culto di S. Grimoaldo, che pure richiede di essere meglio dimostrata, si possono qui indicare dei percorsi credibili, in alternativa a quelli perseguiti dal Carcione, limitatamente alla collocazione storica del documento dell’Apparitio e quindi del suo contenuto.
In generale, nessuno ai nostri tempi può più credere alle apparizioni di santi o di demoni (non ne parla più neanche la Chiesa ufficiale) e quelle presenti negli antichi racconti vengono interpretate come frutto della fantasia o della suggestione o dell’artificio. Il racconto dell’Apparitio pontecorvese veniva considerato un prodotto di questo genere già da Pasquale Cayro, storico serio e scrupoloso e soprattutto di buona fede religiosa, vissuto a cavallo dei secoli XVIII-XIX, che seppur non ben gradito in questa circostanza dal Carcione (p. 26) lo è senza riserve per altri studiosi del calibro di Theodor Mommsen1. La garanzia poi, richiamata dal Carcione, derivante dal “filtro accurato dei Bollandisti… con un’acribia scientifica singolare per i tempi” (pp. 18-19) nel pubblicare il documento negli Acta Sanctorum è talmente insostenibile che non è necessario spendere parole per ricordarlo. Ciò vale anche per quel Martyrologium Romanun, invocato per una anacronistica “auctoritas” del cardinale Cesare Baronio (p. 33; ma qui per il culto di S. Grimoaldo), tanto che per ambedue i casi posso tranquillamente confermare una mia precedente significativa espressione (ricordata dal Carcione: p. 13) e cioè che in queste opere si è operata una vera e propria “infornata”: magari in buona fede secondo i limiti imposti dall’“acribia scientifica” del tempo.
Nonostante che il Carcione affermi con apparente convinzione che “la redazione agiografica dell’Apparitio Johannis Baptistae esisteva molto prima del XVI-XVII secolo” (p. 36), in realtà la sua origine va ricercata probabilmente proprio in questo ultimo periodo. Ed è egli stesso che paradossalmente orienta in tal senso quando scrive: “Tuttavia, il materiale documentario superstite e maggiormente autorevole, da cui non può latitare neanche la speculazione più scettica, si attesta ai secoli XVI-XVII…” (p. 11).
Sorvoliamo pure sulla possibilità di una separazione cronologica dilatata tra una credenza popolare dell’Apparizione e la redazione del documento che la descrive: infatti questa potrebbe benissimo essere la “formalizzazione” successiva dell’altra (in tal senso nel saggio del Carcione traspare una qualche ambiguità). La prima volta che è rilevabile una “presenza pontecorvese” dell’Apparizione è nella “Relatio ad limina” del 1592 dove è registrata una chiesa di S. Giovanni in contrada Melfi “edificata in memoria apparitionis B. Jo.is Baptistae”2. Quindi, pur considerando un’affinità temporale tra tradizione popolare e redazione del documento (opzione più gradita all’autore del saggio, anche se riferita al sec. XII), credo che sia possibile datarne l’origine all’ultimo ventennio del secolo XVI, e comunque tra il 1592, anno della citata “Relatio ad limina”, e il 1581, anno del sinodo pontecorvese del vescovo Flaminio Filonardi (1579-1608), il cui testo integrale venne pubblicato dal successore Giuseppe De Carolis nel 1738. Il Filonardi, che si era occupato dettagliatamente di tutti gli aspetti civili e religiosi della diocesi e si era molto applicato nel ricostruire la cronologia dei vescovi attraverso i documenti degli archivi locali, non parla affatto dell’Apparitio, e certo non avrebbe potuto ignorare un evento e un documento così importanti per la storia religiosa di Pontecorvo3. Per non dilungarmi troppo credo possibile che si possa attribuire la redazione del nostro documento (con l’invenzione della singolare storia che vi si narra) o a qualche esponente della curia vescovile di allora, se non allo stesso Filonardi, o al contemporaneo notaio Cinzio Pellegrini, il quale, su mandato delle autorità pontecorvesi, condusse una accurata ricerca presso l’archivio di Montecassino dal 21 al 25 aprile 1578, riportando riassunti e trascrizioni di tutti gli antichi documenti relativi a Pontecorvo (Fig. 1). Si tratta, per gli ultimi due, degli unici personaggi noti del tempo che, per istruzione, per cultura e per confidenza con i materiali archivistici, potevano essere in grado di scrivere un romanzo storico credibile come l’Apparitio, evocante quel passato contesto storico analizzato dal Carcione. L’invenzione di un evento straordinario sarebbe motivata dal contesto sociale e politico locale di allora, desideroso di nobilitare e di arricchire la storia di Pontecorvo, quando la città diviene nuova residenza del vescovo.
Nel saggio del Carcione viene dato come “abbastanza scontato” che per l’indulgenza accordata alla “ecclesia… Sancti Johannis Appari in Galdo Jerosolimitani” dal papa Niccolò IV con bolla del 1291, e quindi per il riconoscimento del “Santuario di S. Giovanni Appare” da parte dei vertici pontifici, sia stato usato il “verbale dell’Apparitio Johannis Baptistae“ (pp. 33-34). Naturalmente ciò non è possibile perché la bolla si riferisce all’altra chiesa dell’Ordine Gerosolimitano, che è quella ancora esistente e officiata, e non a quella che sarebbe stata costruita per interposizione dell’arciprete Grimoaldo secondo il racconto dell’Apparitio. I resti di questa ultima esistono ancora oggi, a circa cento metri dalla precedente, sommersi dalle acque del bacino creato dopo il moderno sbarramento del fiume Liri. Proprio la presenza in loco delle due quasi omonime chiese (S. Giovanni Appare e S. Giovanni “Appari in Galdo”) dà ragione alle osservazioni demologiche che vedono nella fondazione della nuova chiesa (quella della leggenda dell’Apparizione) una tardiva e spiegabile “opposizione culturale all’egemonia dei Cavalieri di Malta” in quel territorio4. L’esame autoptico delle murature della chiesa “dell’Apparizione” = S. Giovanni Appare (eseguito durante un prosciugamento temporaneo delle acque) ha permesso di datarle ad una fase postmedievale, probabilmente allo stesso periodo in cui va collocata la redazione della nostra Apparitio alla fine del XVI secolo (Fig. 2). Al contrario l’anteriorità dell’altro edificio ecclesiale ex Ordine Gerosolimitano (poi Cavalieri di Malta), di S. Giovanni “in Galdo”, quello ancora in uso, è confermata dalle indubbie caratteristiche medievali dei muri antichi sopravvissuti (purtroppo in parte occultati dalle deprecabili trasformazioni subite negli ultimi anni). Come si vede perfino l’archeologia permette di aggiungere tasselli a favore delle tesi demo-etno-antropologiche e per la soluzione della vexata quaestio sulla collocazione cronologica dell’Apparitio Johannis Baptistae. E tali considerazioni sono valide anche rinunciando a discutere del dubbio che solleva il termine “Appari”, associato al titolo della chiesa gerosolimitana nella bolla del 1291, e quindi della testimonianza più antica dell’evento: si tratta realmente di una forma linguistica collegabile all’Apparizione?
Il secondo saggio presente nel volume della collana editoriale è quello di Sabrina Pietrobono: Note di topografia cultuale nell’agro pontecorvese medievale (pp. 47-70). Ho la sensazione che l’autrice non padroneggi sufficientemente né con la storia medievale di Pontecorvo e né con la topografia del territorio. Le notizie imprecise ed approssimative si ripetono tanto numerose che sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Mi limito quindi a segnalarne alcune presenti nelle prime pagine senza tener conto delle note. Pag. 48: Il “raduno” dell’esercito “ad Pontem-curvum” durante la spedizione di Ludovico II nell’866 non è una “tradizione” ma deriva da un testo dei “Capitularia Hludowici II” accettati nei Monumenta Germaniae Historica (Legum II, 2); S. Oliva non è una contrada ma è il centro abitato dipendente da Pontecorvo e pertanto la villa romana “dei Cecina-Suetria” va localizzata in località Crocella e alla sinistra della Forma Quesa e non alla destra. Pag. 49: Il preporre “circa” e “intorno al” agli anni 1105 e 1463 priva del valore temporale assoluto le poche date precise della storia di Pontecorvo; non è chiaro quali modelli di comparazione possano giustificare la definizione “di piccole dimensioni” del “nucleo castrale” pontecorvese se lo sviluppo lineare delle poderose mura ancora esistenti, e quelle storicamente attestate, dimostrerebbero semmai un circuito piuttosto “di grandi dimensioni” per un castello del IX secolo. Pag. 50: si legge che “la cosiddetta Porta Nuova o Porta Pia” fu costruita sui “resti” delle “vecchie mura” (sembra di capire che sia questa la relazione tra i due elementi!?), in realtà questa Porta era posizionata fuori dalle mura e la sua costruzione non si data “a seguito” dei Moti del 1821 ma sicuramente a dopo quelli del 1831 e forse anche più tardi; la Porta Romana non può essere una “posterula” (associazione che qui appare per la prima volta), i ruderi di essa sono ancora esistenti e dimostrano che le sue dimensioni e le sue caratteristiche sono conformi ad una normale porta urbica. Pag. 51: La chiesa di “S. Niceone” è in realtà di S. Nicone (errore di refuso?). Pag. 52: Il Monte S. Anna non si trova “alle spalle della contrada S. Lucia”, ma in tutt’altra zona e alle spalle dell’abitato di S. Oliva. Pag. 53: “Loffredo Ridello” è generalmente corrispondente a Goffredo Ridello; Il Cayro con la denominazione di “Piedipote del Pico” naturalmente intende la località (ancora esistente) o il “Beneficio” terriero associato o il determinante topografico e non il nome della chiesa scomparsa. Pagg. 53 e segg.: Da qui l’autrice ripete la trattazione sul racconto dell’Apparitio e, in maniera piuttosto confusa, sulle due chiese in contrada Melfi (S. Giovanni Appare e S. Giovanni dei Cavalieri di Malta), in perfetta sintonia con le riflessioni del Carcione, inserendo nel discorso, non si capisce bene a che ragione, un’altra chiesa, di S. Giovanni Decollato, che sopravvive in un edificio recentemente restaurato all’interno del paese. Poi, evidentemente affascinata dalle trasmissioni televisive sui “misteri” e considerando la presenza dell’Ordine Gerosolimitano e dei Cavalieri di Malta a Pontecorvo, l’autrice va ad occuparsi della presenza dei Templari nel Lazio meridionale.
C’è infine da notare, nell’ultimo saggio a firma dell’arciprete Luigi Casatelli, l’errore nella citazione di un celebre inno a Roma da un passo di Rutilio Namaziano, errore che si ripete due volte di seguito: “feristi” al posto di “fecisti”, che inverte il significato dei due concetti richiamati (p. 149). Si tratta sicuramente di un lapsus calami sfuggito sia all’autore e sia al curatore del volume. Nello stesso saggio il Casatelli, da un lato, con apparente distacco, sembra escludere l’assurda convinzione di una origine di Pontecorvo da Fregellae, dall’altro aggiunge: “quantunque alcuni aspetti particolari attendono ancora un’esplorazione risolutiva” (p. 150).
Credo che non vi sia alcuna possibilità per esplorare ciò che non esiste, ma se il Casatelli ha qualche diversa prova in merito dovrebbe comunicarla se non altro a soddisfazione della professione di fede di qualche nostalgico di retroguardia. In realtà il nostro autore non è nuovo ad affermazioni di questo tenore, come dimostrano i diversi lussuosi volumi e volumetti che ha pubblicato di argomento storico, in genere riprendendo da altri autori, ai quali, ma anche alla “tradizione popolare”, poi riversa la responsabilità delle false notizie diffuse. Ricordo la fantasiosa localizzazione della “casa natale di S. Grimoaldo” in un edificio del centro storico di Pontecorvo, situato all’angolo tra Via dei Ferrari e Via Duomo, evidenziata da una vistosa lapide marmorea dove, tra i promotori dell’iniziativa, ricorre al primo posto il nome del nostro intraprendente arciprete. Anche in questo caso la fantasia viene giustificata dalla testimonianza dell’“antica tradizione pontecorvese”, come si legge nella stessa lapide.
La pubblicazione di questo libro fa pensare anche a quelle umane debolezze “di posizione” che qui si manifestano su un piano di agonismo istituzionale e relazionale quando si consideri che alla “realizzazione” dell’iniziativa “ha concorso” l’Università di Cassino e che vengono chiamati in causa ricercatori dell’Università di Roma. Questi ricercatori sicuramente non si sentiranno toccati più di tanto per i giudizi, più o meno critici, nei loro confronti e ne è prova l’intenzione di Marcella Delle Donne, consultata con l’occasione, la quale ritiene più che sufficiente quanto è stato già scritto in merito agli argomenti di nuovo evocati.
Al contrario noi, che siamo territorialmente ed affettivamente sensibili all’immagine della locale Università cassinate, non possiamo “chiudere gli occhi” davanti ad un inopportuno invito al gioco di coloro con i quali vorremmo condividere idee e confrontarci con pari dignità. Allora viene da chiedersi quale funzione si debba assegnare alla letteratura di “promozione” e alla cosiddetta “letteratura locale” e che cosa quest’ultima sia realmente.
Ricordo quanto veniva scritto nell’“Editoriale” del numero 1 (2006) dell’“Annale di storia regionale” dell’Università degli Studi di Cassino: “La carenza di studi in grado di ricostruire con rigore scientifico e di problematizzare i diversi aspetti della storia regionale, all’interno del più ampio e articolato quadro di riferimento nazionale e talora anche internazionale… ha finito per lasciare ampi spazi all’eruditismo, alle ricerche di campanile, agli storici d’occasione che, sprovvisti delle conoscenze e del metodo necessari a fare della storia regionale un osservatorio e una chiave di lettura sulla e della storia nazionale, hanno spesso affastellato dati e documenti senza enucleare problemi o proporre ipotesi interpretative in grado di arricchire la riflessione storiografica”. Seguono altre annotazioni dello stesso pesante tenore tutte rivolte, con chiare espressioni, alle ricerche di storia locale, alla letteratura locale. Devo riconoscere che c’è tanta verità in queste osservazioni, nello specifico rivolte alle ricerche di storia moderna e contemporanea, ma, più in generale, non si può negare che esistono, sebbene minoritarie, una letteratura locale seria e di buon valore scientifico e una “letteratura universitaria” mediocre. Naturalmente esprimo una mia personale convinzione che non saprei se coincide toto corde con le opinioni già espresse in merito proprio in questa rivista nel 2006 (Studi Cassinati VI, 2 e 3, pp. 66-67 e 130)
Soprattutto negli ultimi due decenni la produzione libraria nei nostri paesi è interessata da un tale ritmo ascendente che, nonostante ogni buon proposito, per la rapidità e la quantità delle emissioni è praticamente impossibile essere presente in tutti i luoghi dove i libri vengono presentati. Se da una parte non può che rallegrare questo segno tangibile dell’interesse da e verso le nostre realtà locali, dall’altra dovrebbe, infatti, far riflettere sulla reale qualità dei contenuti che transitano attraverso questo ormai incontrollabile veicolo di informazione.
Un po’ tutti vogliono scrivere il “loro” libro: il medico, il farmacista, l’avvocato, il prete, lo studente appena laureato, l’insegnante ed altri ancora. La maggior parte di questi libri si occupano di tematiche storiche, altre volte sono relazioni o memoriali più o meno personali o raccolte di poesie. I primi di più, i secondi molto meno per il loro carattere intrinseco, trasmettono notizie “a condizione”, nel senso che vengono assimilate in maniera differenziata secondo la tipologia e la capacità di discernimento dei lettori. Oltre ai rischi indicati nel citato “Annale”, le affermazioni contenute in questi libri possono essere credute tout court, dal lettore generico o dallo studente bisognoso di completare al più presto gli studi, e quindi trasmettere e far consolidare notizie storiche infondate, assurde e inesistenti, con tutte le conseguenze che ne derivano. Non si può nascondere che i libri più a rischio siano quelli finanziati dagli enti pubblici, spesso conseguenza di amicizie personali o di affinità politiche: essi sfuggono a qualsiasi prudente controllo (che importa ad un pubblico amministratore o ad un politico?).
Un caso esemplare è il libro finanziato dall’amministrazione comunale di Esperia del 2004 nel quale viene furbescamente elusa la paternità nominale del manoscritto di un concittadino vissuto prima della seconda guerra mondiale che disgraziatamente non trova eredi per promuovere un’azione legale contro il deplorevole plagio (Corriere del Sud Lazio VII, 31, 2005, p. 45).
In conclusione bisognerà pure chiedersi quale e quanta responsabilità ha l’Università in questa fabbrica di prodotti editoriali e più in generale nell’educazione culturale dei cittadini.
Quante tesi di laurea mediocri vengono premiate con il massimo del punteggio?
Quante tesi banali vengono poi pubblicate con la esaltante presentazione del professore dell’Università?


1 P. Cayro, Replica ad un opuscolo contraddicente il vero, ed incontrastabile sito di Fregelli, Napoli 1816, pp. 74-88. “Vorrei… che si domandasse a’ dotti Teologi, se i Demonj, da Dio discacciati dal Paradiso, e condannati perpetuamente a penare nell’Inferno, se dopo la Legge di Grazia, han potuto a lor libertà uscir da quelle pene infernali in sembiante umano, vestir abito, e proccurarsi tazza d’argento, denari, ed altro per ingannare le anime de’ Fedeli, ed impedir a questi la gloria del Paradiso” (pp. 83-84). Al Cayro bisogna riconoscere il merito di aver abbozzato anche una lodevole analisi testuale del documento. Per i favorevoli apprezzamenti del Mommsen ved. CIL X, p. 531.
2 Archivio Segreto Vaticano, S. Congr. Concilii Relationes, Relationes ad limina di Aquino, b. 67A, f. 15r. Si tratta di una chiesa non di una cappella (“domus”, “ecclesia” ed “arcus” sono i vocaboli usati nel testo degli AA.SS., Iunii IV, pp. 800 e 801.
3 Synodus Aquini, et Pontis Curvi ab illustrissimo, et reverendissimo domino D. Flaminio Filonardo… anno Domini MDLXXXI approbata, et confirmata ab illustrissimo, et reverendissimo domino D. Josepho De Carolis…, Roma 1738. Qui S. Giovanni Battista è registrato solo e semplicemente nei due elenchi delle festività ufficiali della Chiesa Romana (pp. 29 e 33). Inoltre nel breve elenco dei vescovi di Aquino stilato dal Filonardi è perfino assente il nome del vescovo Guarino connesso con l’evento narrato nell’Apparitio (pp. 268-270).
4 F. Romano, Camele e il Diavolo. La festa di S. Giovanni Battista a Pontecorvo, in La ricerca folklorica 17, 1988, pp. 90-91.

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