Viaggio dello scrittore “polacco Jozef Ignacy Kraszewski a metà Ottocento da Roma a Napoli passando per San Germano


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Studi Cassinati, anno 2009, n. 1
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di Weronika Uminska

La nostra collaboratrice da Kracovia ci suggerisce ancora una lettura del diario di viaggio di uno scrittore polacco in Italia dopo quello di Michal Wiszniewski, pubblicato nel numero precedente di Studi Cassinati.

Jozef Ignacy Kraszewski, uno degli scrittori polacchi più famosi e più fecondi; poeta, drammaturgo, storico e patriota polacco, visse tra il 1812 e 1887 (nacque a Varsavia nel 1812 e morì a Ginevra nel 1887); scrisse più di “250 romanzi storici. Fu anche un bravo disegnatore (illustrava personalmente le sue opere) e perfino appassionato archeologo. Durante il suo viaggio in Italia e negli altri paesi d’Europa occidentale, descritto nelle “Pagine di viaggio” ha visitato brevemente anche Cassino (San Germano).
Jozef Ignacy Kraszewski “Le pagine dal viaggio – 1858-1864” (Titolo originale: Kartki z podrozy 1858-1864 r.: Krakow, Wieden, Triest, Wenecja, Padwa, Medjolan, Genua, Piza, Florencja, Rzym / przez J. I. Kraszewskiego). Vol. II, cap. I, pagine 7-27

Da Roma

Siamo partiti da Roma il giorno 27 Luglio, secondo l’abitudine polacca ci preparavamo per la partenza già dal mattino, ma sempre qualche nuova difficoltà ci fermava, cosicché quando finalmente siamo saliti sulla vettura noleggiata, si poteva prevedere che prima della notte non saremmo riusciti a raggiungere Valmontone, il posto previsto per il pernottamento. Ma per forza si doveva finalmente partire da queste rovine maestose, che hanno un certo fascino pericoloso, alle quali l’uomo si abitua, si attacca, ritorna… Circola qui la leggenda di un signore inglese, che si preparava sempre per lasciare Roma, ma alla fine ci rimase fino alla morte. Non ci si deve meravigliare di tutto questo, qui ognuno si sente come nella seconda patria e dopo sente la mancanza di questa culla della civiltà e della fede, nella quale viveva con ricordi non solo della famiglia e della nazione ma di tutta l’umanità. Qui ci si sente estranei e non si puó affezionare a tutte queste sante rovine solamente chi ha troncato con le tradizioni e chi non sente che tutta la contemporaneità è fondata su di esse. A tutti noi il soggiorno a Roma, riempito con frenetico lavoro di conoscere questa città sembrava troppo breve e non sufficiente, anche se non ci siamo pentiti di aver perso qui neanche un’ora. Partendo si voleva dire “arrivederci”, ma chi si sente in tal modo il padrone del futuro per quasi sfidarlo osando pronunciare queste parole? È sempre più difficile salutare sia la gente sia i posti quando li si ama e in questo caso è più difficile dare la speranza del ritorno. La giornata era torrida, l’aria afosa, il cielo infuocato, la città esalava il calore delle mura arse. Ci aspettavamo almeno un po’ di fresco fuori le mura, ma la nostra vettura come anche noi si trascinava lentamente sul selciato millenario. Alcuni conoscenti sono arrivati per convincerci a rimanere. Il capitano Onofrio ci ha accompagnati fino a Porta Maggiore, ripetendo che era meglio fermarsi per poter il giorno dopo essere a La Sapienza testimoni del trionfo di un nostro giovane connazionale, che avrebbe dovuto ricevere diverse medaglie, aggiungendo che anche un’indulgenza, non ricordo più in quale chiesa, ci avrebbe dovuto fermare. Né le medaglie né l’indulgenza poterono però farci recedere dalla nostra decisione. Il tempo destinato era breve e sia Napoli sia Pompei erano davanti a noi … due nomi affascinanti. Allora abbiamo salutato Roma sporgendo le nostre mani nella sua direzione, catturando con gli occhi la sua fisionomia per poterla ricordare e trattenerla. Il decrepito viso di quella vecchia Roma ci sorrideva in una maniera lacrimosa dal di dietro delle rovine verdastre. Il capitano Onofrio ci strinse le mani a Porta Maggiore. Partimmo attraverso questa Porta da cui partono le antiche [vie] Labicana e Praenestina, sotto una delle arcate dell’acquedotto di Claudio.
Qui come dappertutto ci sono resti pezzi antichi, e per prima colpisce l’occhio un’iscrizione inglobata nel muro e una scultura, dedicate al ricordo di Marco Virgilio Eurisace, il fornaio che visse negli ultimi anni della Repubblica e fu un ricco fornitore di pane, con il quale guadagnò una fortuna. Il bassorilievo tombale raffigura il negozio del fornaio. A parte questo, frammenti di colonne, capitelli frantumati, statue non complete, coperte a metà da rami verdi giacciono sotto le mura, sulla strada o sono state inglobate nel muro più recente da una mano pietosa. Qui abbiamo trovato una piccola ferrovia, a quell’epoca appena iniziata, che circondata dalle rovine antiche colpiva per il suo anacronismo. Il treno da Frascati con tre carrozze arrivava proprio alla Porta, quando l’abbiamo attraversata. Ci ha fatto un’impressione molto brutta. La civilizzazione ha le sue esigenze – la civiltà ha bisogno di tutte queste innovazioni, bisogna sottostare alle necessità, ma il trascorrere del tempo non potrebbe salvare alcuni posti come reliquie? Sappiamo che la tenerezza per i ricordi nelle orecchie dei progressisti suonerà in maniera bizzara, il progresso è inevitabile. Il bisogno delle cose materiali viene oggi prima di tutte le altre cose – ma non si dovrebbe spegnere l’anima e il rispetto verso il passato. Il passato è la madre dei giorni odierni e nei dieci comandamenti non invano si trova l’ordine di Dio di rispettare la madre, qui la tradizione dell’umanità.
Le carrozze vincenti che hanno portato il secolo XIX alla Roma dei cesari ci sono apparse piccole, misere e brutte. La colpa è dei sentimenti, non delle carozze.
Roma da tutte le parti è circondata dal silenzio del grande cimitero delle generazioni, da ogni angolo è cinta dal tacere del deserto e delle rovine, proprio come da quel lato. Appena abbiamo lasciato la città, ci siamo trovati in mezzo ad un deserto maestoso. Prima le alte mura dei giardini e delle fattorie che proteggono impietosamente la strada. Davanti a noi si fanno vedere in distanza le montagne che si dipingono in nero e livide, nude all’orizzonte, coperte da boschi e con le mura bianche dei paesi sottostanti, sulle pendici e sulle cime.
Piano piano la strada si apre, l’occhio guarda nella lontananza infinita. Lasciando alla sinistra la vecchia strada Via Praenestina, percorriamo la Via Labicana.

Valmontone

 Dopo un’ora e mezza di viaggio, quando la luna era già alta e la notte si faceva più trasparente, e diventava sempre più bello, abbiamo visto in lontananza qualche luce. Era la Valmontone che aspettavamo. Quasi con il rammarico salutammo quelle valli, il bosco, la sorgente sopra la strada, le montagne coperte di verde e la fantasmagoria di questa escursione notturna. Sorridemmo guardando in direzione del nostro compagno, ma lui non ci ha dato retta.
– Sì, sì, se non avessi mostrato a quel vetturino traditore che ho le pistole pronte, sarebbe stata diversa la nostra sorte! Ma aveva capito che noi avevamo intenzione di difenderci e a Lugnano gliel’avevamo comunicato … Gli italiani sono paurosi … Questo ci ha salvato.
Aveva ragione o no quel sospettoso “mangia-Italiani” non lo so dire, ma è sicuro che dopo un attimo una larga striscia di luce proveniente dalla porta di una misera locanda, nella quale avremmo dovuto pernottere, ci ha mostrato dove era meglio fermarsi. Ci siamo fermati. Uno di noi era appena sceso dalla vettura per dare un’occhiata al paese, quando non potendo credere alle proprie orecchie abbiamo sentito una canzone molto popolare: “Perchè hai pianto…” che qualcuno canticchiava vicinissimo. In qualsiasi altro posto quel fatto potrebbe essere spiegato in qualche modo, ma a Valmontone? Ancora incantato dai paesaggi di Salvator Rosa? Tra queste montagne, di notte? Un uomo fumava un sigaro e camminava lentamente di fronte alla porta, canticchiava questa canzone piano piano, ci è sembrato di nuovo qualche fenomeno fantastico. Era canuto, non giovane, i baffi d’argento gli cadevano sulle labbra, ma si teneva dritto, come un soldato. Alla vista della vettura, quando ha sentito le voci, sbalordito quanto noi è rimasto senza parole.
Quell’incontro era veramente strano. Quel cantante si è rivelato il capitano degli ingegneri Zablocki, fratello di una famosa suora signorina Zablocka, che dal 1831 abita all’estero1 e adesso lavora sul progetto della ferrovia da Roma a Napoli, che dovrebbe attraversare proprio Valmontone.
Ci sono bastate poche parole per conoscerci e cominciare la conversazione, che è durata quasi tutta la notte. Alla vista dei suoi connazionali il capitano si è animato ma in modo triste. Si è ricordato della famiglia, del mondo diverso, dei tempi più remoti ed è diventato malinconico. Aveva già troncato con il passato e viveva con il lavoro e con quel dovere della vita, che aiuta a reggere l’onere fino alla fine, anche se non si vede più niente davanti a sé, se non la propria tomba tra gli sconosciuti, dimenticata e senza nome.
La locanda nella quale abitava il capitano era molto povera, misera, scomoda, facilmente si poteva capire che qui non si pensava proprio né al pernottamento né ad una buona cena. Il vino era aceto, il formaggio avariato, il pane secco, ma non ci lamentammo troppo. Avevamo ancora qualche scorta di Roma, il piacere della conversazione e il ricordo della paura immotivata ci sollevarono. Attraverso le finestre, sopra località montuose splendeva la luna chiara, pulita, serena, sorridente, qua e là tra gli alberi le mura sovrapposte del paese catturavano lo sguardo. La notte non era lunga, così per dire.
Per usufruire del fresco del mattino il nostro vetturino voleva partire all’alba, cosicché appena addormentati, senza spogliarci, dovemmo alzarci e lasciare la bella Valmontone. Il paese di giorno non ci sembrava meno bello, circondato da ogni lato da montagne verdi, con il castello o meglio il palazzo del XVII secolo, che apparteneva alla famiglia Doria Pamphili.
Il paesaggio, prima coperto di verde lussureggiante, fuori il paese è cambiato in una zona vuota, nuda e triste. Da lontano solamente si vedono montagne brulle o coperte di boschi, i castelli e le torri medievali. La sera prima avevamo oltrepassato, girando a sinistra verso Valmontone, l’antica Praenestum, odierna Palestrina, appoggiata sul pendio del monte; oggi nella stessa maniera a sinistra ravvisiamo solamente le mura di Anagni, un paese importante, famoso per il maltrattamento dell’ottantenne Bonifacio VIII da parte dei Colonna e di Guglielmo Nogaret.
In tutta questa Italia, per noi così affascinate e interessante, forse da nessun’altra parte ci ha colpito come qui la povertà della gente, così misera, così stanca dal lavoro, dall’aspetto sporco e abbandonato che ogni tanto assomigliavano ai paesani di Polesie.2 Il solo vestito delle donne e degli uomini attestava questa miseria. Le loro facce rozze, i tratti del viso informi, il corpo screpolato dal calore e dallo sforzo facevano un’impressione molto dolorosa. Tutto il tempo lungo la strada incontravamo donne con i vasi di rame per l’acqua sulla testa, coperta solamente con qualche straccio sporco, i carri carichi di granturco, le greggi di capre magre.

Ferentino

Dovevamo arrampicarci lentamente verso l’antica Ferentino, che si trova su una quota abbastanza elevata. Del resto tutti i vecchi centri abitati e i paesi sono situati sopra i monti, siedono come i nidi alti, concentrati, amalgamati con le mura, si sente che chi li aveva costruiti aveva la necessità della difesa contro i nemici. Ferentino, antica città dei Volsci, è piena di resti di mura dei tempi remoti, costruite con grandi massi di pietra.
Queste pietre enormi, coperte da muschi sono molto pittoresche e rispecchiano bene le caratteristiche dell’epoca in cui furono costruite. Queste mura circondano la città e su una delle porte si puó leggere un’iscrizione su due pietre di marmo. Sicuramente l’aveva già copiata qualche studioso locale, ma poiché non siamo riusciti a trovarla da nessuna parte la riportiamo qui per ricordo: Juliae aug. matri aug. et cast. ror et senatus ac patriae piae felici. Imp. cas. M. Aurelio Antonii Felici uc. part. max. brit. max. german. trib. pot. XVII MPII. cos. prog. mag no inicto ac fortissimo princip. Senatus Romanus o ferentin3.
La porta sopra la quale si trova quest’epigrafe si chiama Porta Sanguinaria.
Ci siamo fermati qui, nella locanda “Des Étrangers”, nella quale sembra si fermano pochi stranieri. Questa locanda è quasi appoggiata ad una vecchia chiesetta di frati bernardini.
Durante il riposo tutto il tempo ci passavano davanti agli occhi le stanche figure popolari, le donne con i vasi sopra la testa, nei bustini e con i fazzoletti sui capelli, gli uomini cenciosi e neri. In nessun’altra parte la gente ci è sembrata così miserabile.
Da Ferentino la strada conduce attraverso un territorio deserto, molto montuoso e di grande carattere. Le vedute maestose, grandi, sempre nuove, le classiche linee del paesaggio ricordano le vedute di Poussin. Qua e là nelle curvature delle colline, come nelle pieghe di un vestito i paesi nascosti sulle falde delle montagne, o i castelli, o le rovine o le torri. Stupenda la vista sulla catena degli Appenini. Nonostante lo splendore del paese l’impressione è infelice e triste, ci manca la vita e la gente. Un territorio immenso spopolato, inutilizzato.

Frosinone

Solamente quando ci siamo avvicinati a Frosinone [il paesaggio] è cominciato a essere più popolato e più allegro. La strada stupenda, tortuosa, porta al castello e alla città che si trovano su una quota ben elevata. Sono famosi, sembra, i costumi folcloristici delle donne di qui, ma esse non si sono fatte vive con noi; ci siamo fermati per un periodo troppo breve per poterle osservare, ma nelle cartelle degli artisti le paesane di Frosinone appaiono non raramente. Ma i costumi di queste modelle non si fanno nello stesso modo come quelli cracoviani per i balletti!
Dopo esser partiti dalla città, ci siamo trovati di nuovo in un paesaggio vuoto, selvatico e con i personaggi folcloristici che assomigliavano ai dintorni di Ferentino; ma in compenso la maestosità delle montagne lontane ci confortava. Era la decorazione più bella che si poteva immaginare, visto che sia la giornata sia il cielo erano favorevoli con un’illuminazione fantastica, le catene delle montagne erano ben sovrapposte: livide, fredde o fuocose, arrossate, intagliate con le nuvole ci si presentavano come se ci volessero incantare e rendere queste giornate indimenticabili.

Ceprano

Senza renderci conto, ci siamo avvicinati al confine dello Stato Pontificio e alla città di Ceprano, dove ci aspettava il pernottamento.
A dir la verità avevamo grande voglia di proseguire ancora un po’, ma il vetturino burbero, che di nascosto si era messo d’accordo con il proprietario di un posto per bene “Locanda Trani”, che si trova in mezzo alla piazza, ci ha spiegato in una maniera poco delicata che non sarebbe andato oltre.
Dopo la lotta invana con lui, nella quale eravamo perfino costretti ad esporre le lettere di raccomandazione, che portavamo da Roma, la sera era già tanto inoltrata che il vetturino, umiliato, anche se avesse voluto essere obbediente, non avrebbe potuto proseguire a causa della sua lentezza.
Il proprietario della locanda stabilì i prezzi, come voleva lui perché, come dicevamo, non c’era un’altra locanda buona in tutto il paese, e noi avemmo il tempo di guardare la piazza di un’antica città dei Volsci e dei Sanniti. Alcuni studiosi localizzano qui l’antica Fregellae, distrutta dai Romani, e tanti reperti scoperti qui attestano l’importanza di questa località. Il paese è abbastanza pittoresco, a sinistra della locanda si trovano i muri di qualche torre, coperti di edera, a destra le case di diverse dimensioni, le chiesette, le vecchie porte e qualche edificio annesso. Attraverso una breccia, che sembrava essere stata fatta nella piazza appositamente per la veduta, si vedeva una catena di montagne dorate con il bagliore del tramonto, e le nuvole accumulate sopra di esse, sulle quali tuonava e lampeggiava.
Il paese quel giorno era particolarmente pieno di vita, si trattava di una sagra, la festa del patrono Sant’Arduino, il protettore del paese. È arrivata tanta gente dei dintorni, è arrivato perfino da Frosinone il monsignore delegato, che siamo riusciti a vedere mentre camminava sulla piazza circondato da numerosi ecclesiastici, con le calze viola e con il cappello ad ampie falde.
Visto che in Italia ogni festività religiosa è nello stesso tempo un’allegra festa popolare, non si è fatto a meno dei mastri di festa, dei festoni, delle lotterie, delle sparate, dell’illuminazione, dei fuochi d’artificio stupendi soprattutto come per una città piccola come Ceprano; al buio hanno liberato un pallone con una lanterna sotto, che per lungo tempo ha volato sopra la città, che diventando più piccolo splendeva come una stellina allegra e alla fine è caduto da qualche parte lontana.
Abbiamo avuto l’opportunità di vedere da una terrazza tutta questa allegria del popolo, i suoi costumi, che qui ci sono già sembrati molto suggestivi, i bustini delle donne allacciati sulla schiena, i fazzoletti sulle loro teste e diverse forme di vasi d’argilla, nei quali invano abbiamo provato a riconoscere i caratteri antichi.
Anche se il litigio con il vetturino ci ha rovinato la serata e ha avvelenato un po’ il riposo, dobbiamo ammettere che dovevamo a lui l’opportunità di vedere tutta questa festa, i fuochi d’artificio, il pallone e l’allegria di questo gruppo di animati paesani devoti, che festeggiava sotto le nostre finestre.
La giustizia ci obbliga ad ammettere che il vetturino si è pentito, che il pernottamento non era tanto male e il prezzo alto nella locanda, così frequente in Italia, alla fine ci ha fatto solamente sorridere.
Nonostante la mancanza di sonno nella notte passata, questa era talmente bella con il suo temporale lontano sulla montagna, che abbiamo deciso di andare a dormire molto tardi.
Da Ceprano non abbiamo potuto partire tanto presto quanto volevamo, i cavalli erano pronti solamente alle sette di mattino. Ci minacciava un’afa insopportabile, e il temporale notturno sembrava solamente prevederne uno nuovo di giorno. Quando partimmo da Ceprano attraverso una porta scura, abbiamo visto le montagne circondanti tutte coperte di nuvole bianche, che sembravano espirare e fumare come i vulcani.
In quel vestito, che con invariabile velocità si calava, si alzava, girava, scompariva e cresceva dalle falde, le montagne si presentavano in una maniera stupenda; il contrasto delle pareti appuntite con queste coperte vellutate, il colore delle rocce, da qualche parte la luce ardente che si faceva intravedere, le ombre e i bagliori, la massa viva delle nuvole, delle evaporazioni, le nebbie che si scioglievano nell’aria o apparivano dal nulla – tutto ciò formava un fascino molto suggestivo. Non ci potevamo accontentare di guardare quel dramma del mattino italiano. Lungo la strada incontrammo gente vestita in una maniera pittoresca, più allegra, coperta con un certo gusto artistico.
A Ceprano hanno controllato i nostri passaporti, poi ci siamo trovati alla prima dogana e al confine, successivamente un secondo confine, il visto e di nuova la dogana. Per fortuna in tutte queste dogane, il cui scopo era quello di controllare l’interno dei nostri bagagli, siamo riusciti a spiegare che questi non contengono niente di pericoloso. Ma tutte queste formalità al confine non ci hanno occupato troppo tempo.
I paesaggi abbastanza deserti della giornata precedente sono compensati da quelli di oggi, stupendi e allegri. A destra le montagne enormi, e sotto di queste una valle fertile, bellissimi boschi di querce, le vigne. Qua e là la terra scoperta colpiva con il colore rosso tipicamente italiano, simile a pozzolana, che in un paesaggio dipinto avrebbe sicuramente folgorato con il suo tono crudo gli occhi non abituati a questo. A sinistra la seconda catena delle montagne un po’ più distante, livida, con le stesse forme e linee nobili. Sullo sfondo dell’aria azzurra, il paesaggio che si bagnava nelle sue onde ha incantato tutti noi, ad eccezione di quel fantastico nemico degli Italiani. Sopra la strada sembravano sfidare la matita le catapecchie dei paesani, i pozzetti in muratura coperti di edera, conosciuti dalla pittura, queste casette senza architettura, ma costruite con la fantasia, le sorprese degli alberi vecchi e i solchi delle antiche vie.
Più proseguivamo, più nuove vedute ci si presentavano in quei soliti elementi del paesaggio italiano. Sopra la cima di un monte coperto di vegetazione le rovine di un castello, lungo la strada l’alveo di una sorgente, tra le querce millenarie una locanda come se fosse stata fatta appositamente per un’artista. Tutto ciò, accanto a quelle linee belle, ben colorite.
Ciò che non una sola volta visto su qualche pittura ci sembrava banale, qui assumeva il fascino particolare proveniente da tutti questi dettagli accumulati dalla mano generosa della natura. I motivi infatti sono conosciuti anche a quelli che non sono mai stati in Italia, ma ad eccezione di un piccolo numero di artisti illustri, i quali sapevano catturare il carattere spirituale di questa fisionomia, hanno più distrutto l’Italia che mostrarcela. In questo paesaggio, come nella bellezza di una scultura classica, a parte le linee a prima vista semplici, c’è qualcosa difficile da spiegare, che solamente un’ispirazione, una commozione, un’incarnazione, un amore per questa bellezza puó aprire. Perfino sui soffitti di tutte le locande in Italia i decoratori dipingono i paesaggi italiani, ma questi sono solao delle caricature.
Per sfortuna le vedute dipinte con le frasi sono sicuramente ancora meno preziose di queste pessime decorazioni; dipende dal lettore se sa riempirle con i suoi propri ricordi, il colore, la fantasia. Ecco perché le nostre “pitture” dipendono dai lettori, per alcuni saranno troppo vive, per altri troppo pallide, per noi stessi – insufficienti.

San Germano

Dalla dogana della Murata la strada conduce attraverso uno dei paesaggi più belli fino alla cittadina di San Germano, o meglio Monte Cassino. All’improvviso, in mezzo al bosco, in alto sopra le teste appare, come un decorazione artistica, un castello con le torri rotonde e con i maschi, il castello di Manfredi che si erge su un monte roccioso, tutto coperto di massi frantumati. Ai suoi piedi si trova la piccola ma ben ordinata cittadina. Ancora prima di questa, tra la folta macchia si trova ben conservato l’anfiteatro romano dalla pianta circolare4, l’unico di questa forma giunto fino ai nostri tempi. Le mura esterne, le porte e le entrate con la volte a botte si sono salvate finora molto bene. Fuori sono coperte con l’opera reticolare. È una stupenda rovina di un edificio, costruito a proprie spese dalla matrona romana Ummidia Quadratilla. Inoltre ci sono anche le rovine della cosiddetta villa di Varrone.
Questi resti antichi diroccati, coperti di verde, imboscati, addobbati di edera, qua e là scoperti, tra gli alberi sono bellissimi. Presto si svela la veduta del castello e il monte visti di profilo, il monte tutto ricoperto di massi frantumati, come se lanciati da qualche guerriero. Ancora più in su si vede in alto quell’antica abbazia, una delle culle della rinata cultura. Monte Cassino dall’aspetto fresco e pulito adesso. La parte di quel monte sembra essere brulla e solamente in basso è coperta da alberi. Tutto il paesaggio, il castello, il monte, l’abbazia, l’allegra cittadina in basso, sono graziosi e non mancano i ricordi né quelli antichi né quelli medievali.
Monte Cassino, sotto i cui piedi giaceva l’antica città dei Volsci, Casinum, occupa un posto importante nella storia della cultura medievale. Qui nel 529 San Benedetto sulle rovine del tempio di Apollo ha fondato la famosa abbazia, distrutta nel 589 dall’attacco e dal saccheggio dei Longobardi e nell’884 bruciata dai Saraceni. Nonostante queste distruzioni, gli incendi, i terremoti ai quali era sottoposto, si sono salvati qui preziosi manoscritti antichi e grazie a loro nel XIII secolo fu possibile il risorgere della cultura, sulla base della tradizione. I meriti dei benedettini sono innegabili, anche se si rimprovera loro che ci sono stati dei momenti in cui raschiavano le pergamene con i manoscritti dei testi di Tacito per ricoprirle con qualche canzoncina. Il motivo per menzionarlo è il ricordo del commentatore di Dante, Benvenuto da Imola durante la visita a Monte Cassino di Boccaccio, che curioso di vedere degli antichi manosritti, ha trovato la biblioteca non protetta, senza porta, coperta di polvere, i libri strappati e mal custoditi5. Poteva essere così per un breve periodo, ma nonostante tutto questo i benedettini hanno salvato più antichità degli altri monasteri e sono diventati celebri per i lavori straordinari.
Da qui degli studiosi partivano per tutto il mondo come gli apostoli della fede e della luce e nello stesso tempo qui arrivavano da paesi lontani per studiare e per fare le ricerche come studenti affamati di sapere.
Oggi è difficile stimare ben custoditi libri e manoscritti dell’abbazia, ci vorrebbe più tempo di quello che il comune viaggiatore si puó permettere. Si va solamente su per vedere l’abbazia costruita su un piano rettangolare, enorme, simile a un bastione e la chiesa stupenda, anche troppo.
Questo viaggio è abbastanza stancante e richiede tanto tempo, ma il posto merita un inchino e un certo atto di riverenza. Una mulattiera che gira sulla montagna porta lentamente alle porte cupe del monastero, ma nel suo genere non senza un certo fascino.
I chiostri sono addobbati con le gallerie coperte e colonne di granito, che secondo una tradizione provengono dal tempio di Apollo; le statue di San Benedetto e di Santa Scolastica, le fontane.
La chiesa stupenda, ma forse decorata in una maniera troppo sfarzosa. Si vedono i danni causati dai fulmini, che a questa quota colpiscono spesso. Adesso è protetta dai parafulmini. Gli affreschi ai quali si fa troppa pubblicità6 e le altre pitture danneggiate non sono un granché. Non si vedono neanche i caratteri esterni dell’antichità molto remota.
La biblioteca, che oggi raccoglie antichi testi, non è molto copiosa, ma è celebre soprattutto per i manoscritti. Il più antico di questi è del VI secolo. I paleografi, per la storia dell’arte ci troveranno qui opere molto interessanti.
Per informazioni più precise che riguardano loro dobbiamo cercare i libri specialistici e quelli della storia dell’abbazia e del monastero, che non mancano. Soprattutto in questo viaggio nel quale si devono contare i giorni non si deve programmare troppo. Non abbiamo neanche avuto la possibilità di rimanere a San Germano per conoscere meglio le ricchezze dell’abbazia. Avremmo dovuto restare qui per lunghi giorni.
L’aria fresca delle montagne, il clima salubre, le sorgenti abbastanza famose, rendono questo posto la villeggiatura preferita dei malati e di quelli che sentono la mancanza del silenzio e del tranquillità.
Noi ci siamo fermati per il riposo nella “Locanda Nuova” che si trova fuori la città e il fiume Rapido e che è abbastanza ben tenuta.
Si è potuto capire che abbastanza spesso ospita qualcuno, perché abbiamo trovato qui tutto ciò che ci serviva. Il temporale, che dopo una giornata torrida è scoppiato all’improvviso sopra Monte Cassino, assieme con il vento forte ha coperto tutto l’orizzonte e le belle montagne circostanti, ma è passato abbastanza presto.
Ma prima della nostra partenza, siamo stati costretti ancora una volta a presentarci con i nostri passaporti alla polizia napoletana.
Si è rasserenato un po’, e il vetturino ci incitava a intraprendere il nostro viaggio, le nuvole spezzate sono sospese sulle cime e sui pendii delle montagne, e noi siamo partiti lungo la strada molto bella, verso Capua.

San Vittore

I lati rocciosi delle vette, nella parte bassa coperta da boschi, il contrasto tra il verde e i toni grigi dei massi, la fertilità e la bellezza della valle, che come un solo giardino costeggia la strada ci incantavano. Le immense montagne si innalzavano tutto il tempo sopra la strada, particolarmente belle a sinistra, sopra di queste qua e là le grigie rovine dei castelli. La strada ben mantenuta portava attraverso un paesaggio particolarmente bello, la cui fisionomia cambiava in continuazione con il diverso panorama delle montagne. Tutto questo è durato , se non sbaglio, fino a San Vittore. Alla sinistra, sopra una montagna si è fatta vedere in lontananza una cittadina, e sopra la strada una casa modesta con una lastra commemorativa che diceva della visita di Francesco I7.
Ai piedi delle montagne, in una maniera pittoresca giace San Vittore, una città e il castello con una torre rotonda e con le rovine coperte di edera. A destra, in distanza si vede la seconda solitaria torre rotonda. Le colline diventano più piccole, tutte coperte di boschi. Alla destra il bellissimo paesaggio lontano con i poggi verdi. Il sole al tramonto lo illumina con toni limpidi e particolarmente caldi. Oltrepassiamo i terrapieni sotto la ferrovia che si sarebbe dovuta costruire qui.
Faceva già abbastanza buio, quando proseguendo lungo la strada sempre più deserta, siamo arrivati ad una locanda solitaria tra le montagne e i campi di “Ponte Storto”.
Al nostro compagno, che ricordava bene quest’Italia antica, in cui non si sentiva sicuro a viaggiare senza scorta, non piaceva affatto la posizione solitaria di quell’albergo. L’idea di soggiornare in quel vuoto assoluto, assieme con un mucchio di vetturini sospetti, di vagabondi, di paesani, di montanari e di altri individui non più belli, ha suscitato in lui di nuovo qualche sospetto verso il nostro vetturino.
Infatti questa locanda “Porte Storto” era una cosa talmente orribile, come quelle taverne nei romanzi dei briganti, nelle quali si svolgono episodi sanguinosi. I suoi muri rovinati, con le finestre incomplete, con le porte che non si chiudono, con le terrazze sporche, il cortile pieno di detriti, di carri, di cavalli; la locandiera vecchia, di malumore, che girava attorno ai viaggiatori in una maniera molto sospetta; la mancanza assoluta di cibo, alla fine una camera sgradevole destinata al nostro pernottamento, che non aveva neanche una maniglia intatta, tutto ciò ci faceva andare giù di umore.
Nella fisionomia della locanda c’era qualcosa di terribilmente triste, in lontananza il paesaggio montuoso, deserto, attorno il silenzio del cimitero, di fronte alle finestre qualche cappella che sembrava la tomba di qualche viaggiatore con un cipresso e un salice piangente, sugli attrezzi i segni di qualche passato sconosciuto, nei quali l’occhio di uno studioso sarebbe pronto a riconoscere tracce di sangue, tutto ciò non inculcava né coraggio né buon umore.
Dopo aver provato invano a richiedere qualcosa da mangiare di sera, costretti a limitarci a qualche secco panino romano e il resto del nostro vino, nella luce esigua di una piccola lanterna, che avevamo deciso di non spegnere, dopo aver bloccato la porta, ci siamo sdraiati senza svestirci sui letti che non incoraggiavano al riposo. Attraverso la porta non solida che dava sul corridoio gli occhi curiosi della locandiera, dei vetturini e di qualche altre persone seguivano le nostre attività. A noi quel pernottamento drammatico con tutta quella sua originalità è abbastanza piaciuto, ma l’esuberante fantasia del nostro compagno su questa base costruiva dei quadri terrificanti. Quasi inermi, tra più di venti persone, nelle circostanze favorevoli potevamo facilmente diventare una facile preda … Così sosteneva il pessimista. Ridemmo un po’, cosa che lo irritava abbastanza fortemente, e visto che laggiù la banda di vetturini cenava in maniera molto chiassosa e con canti, tutta questa eccitazione delle anime, quel rumore e il correre nei corridoi suscitava sempre qualche nuovo sospetto. Quante volte si è fatto vedere in qualche fessura della porta l’occhio-spia di qualche abitante di questa locanda, tante volte il nostro sveglio compagno afferrava le pistole.
Si puó capire facilmente che in queste condizioni il pernottamento non fu una delle cose più piacevoli e ciò ha lasciato il ricordo di un riposo agitato accompagnato dal selvatico canto dei vetturini. Ma perfino tali notti senza sonno, piene di ansia alla fine finiscono con l’alba del giorno.
Piano piano i canti dei vetturini si sono placati, un silenzio tombale ha invaso la locanda. Adesso anche questo terrorizzava il nostro compagno diffidente verso gli Italiani. Considerava quel silenzio ancora più sospettoso del rumore, e quando in questo silenzio ogni tanto o i cavalli che rimanevano nel cortile, o la gente si muoveva, il più sottile fruscio attirava subito la sua attenzione, e stando all’erta ci obbligava immediatamente ad essere prudenti. Addormentati, ci alzavamo appena sui gomiti per ascoltare in silenzio.
Alla fine quando il sonno ha cominciato a chiudere le palpebre in una maniera sempre più insistente, alle finestrine è apparsa la pallida luce di una nuova giornata, s’infiltrava tra i vetri sporchi; nel cortile si è mossa la gente, si sono fatte sentire le voci, la notte finiva, il giorno che aspettavamo per arrivare a Napoli fortunatamente cominciò.
Solamente adesso lo sveglio custode della nostra sicurezza russava, sicuro che gli Italiani non avrebbero osato più attaccarci di giorno, ma il rumore dei vetturini, il movimento della locanda non hanno permesso a nessuno di noi di dormire a lungo. Avevamo ancora un bel pezzo di strada fino a Capua, e da lì verso la capitale del Regno delle Due Sicilie.
Molto stanchi ci siamo alzati dal letto in maniera molto lenta.
Non una volta sola qualcuno ha notato che il popolo romano con il suo carattere e modo di vivere si differenzia completamente da quello napoletano; si spiega questo fatto con la tradizione della popolazione stabilitasi qui tanti secoli fa, il sangue degli antichi coloni greci. Innegabilmente questa differenza si fa sentire qui, mentre ci avviciniamo a Napoli. La serietà taciturna dei Romani e delle Romane diventa allegria invadente, loquacità e ilarità pungente, che spesso attesta un talento comico insolito. La predilezione per gli addobbi, per le decorazioni, per la bigiotteria, per le cose variopinte si rivela in qualunque posto.
Dopo essere partiti, incontrando sulla strada diversi veicoli, abbiamo avuto l’opportunità di convincerci di questo: le vetture, i caretti su due ruote che ci sorpassavano, erano decorate in una maniera molto peculiare, cominciando dai cavalli e dai muli, che sollevavano pesi enormi, i cui collari erano addobbati con specchietti, bandiere, selle, medaglioni, quadretti, torrette, fino ai piccoli cavallucci che trainavano i carretti sotto il baldacchino e con le panchine in mezzo.
Ogni cavallo, asino, mulo era talmente decorato con numerosi addobbi quanto un’Italiana in un giorno di festività con gli anelli e le collane. I carri per il trasporto della gente qui già si caratterizzavano delle stesse cose come a Napoli: dell’arte imparagonabile dell’ammucchiamento delle persone sedute, agganciate, sospese. Questa compagnia accumulata era particolarmente allegra, rumorosa, e anche se il rumore non permetteva di sentire le loro conversazioni, la gesticolazione dimostrava con quale vivacità discutevano.
La strada quel giorno non era affatto pittoresca, abbiamo attraversato una valle poco variegata, in lontananza le montagne coniformi diventavano sempre più piccole per scomparire alla fine. All’altezza di Calvi, se non sbaglio, sopra una sorgente in un burrone profondo, abbiamo notato qualche struttura antica, con quattro baluardi rotondi, completamente abbandonati. All’esterno coperta con massi di pietra, Norma (?)
Le locande lungo la strada, costruite con pietra grigia, non si presentavano tanto accoglienti. Ne abbiamo notato una al posto di una chiesa, accanto a tante altre sotto lo stesso tetto si trovavano gli oratori e le taverne, le cappelle e le cantine. Sia le une che le altre erano mantenute male, sporche, abbandonate e indecenti.

Capua

Tutta la strada verso Capua non ci ha potuto occupare troppo. Il nome storico della città attirava, ma questa famosa con le sue delizie antica Capua oggi è una località piccola appartata dalla città stessa e si chiama Santa Maria di Capua. I Pelasgi, gli Etruschi, i Sanniti, i Romani la conquistarono a turno; fiorì durante l’Impero, fu distrutta dai Barbari. È difficile credere alle fonti che stimano la sua popolazione a trecentomila abitanti; Cicerone ricorda quarantamila gladiatori, qui addestrati per la gioia del popolo romano.
La nuova Capua, una città abbastanza piacevole, non ha niente in comune con quella di Annibale. Dopo aver attraversato alcuni vicoli stretti, abbiamo raggiunto la locanda “La Posta” per far riposare i cavalli. Da vedere qui c’era solamente la chiesa cattedrale in stile gotico, con colonne di granito, che una volta sorreggevano il tempio di Giunone e quello di Ercole. Diverse sono anche le loro dimensioni. Dappertutto, nei monumenti pubblici, nelle case private si vedono inglobati resti di sculture e di statue frantumate. Persino nell’albergo, in cui ci siamo fermati, le anticamere erano decorate con frammenti di sculture di bassa epoca, ma anche queste sono decorazioni interessanti e danno all’edificio un certo carattere.
Quando camminavamo per la città, ci siamo imbattuti in un funerale, accompagnato da una delle confraternite religiose, i membri di questa organizzazione in costumi bianchi, con i cappucci bianchi e i mantelli verdi con grandi lamine d’argento. Portavano il morto nella bara della confraternita, sulla quale era attaccato il suo costume da penitenza.
Come dappertutto in Italia, solamente i preti e i confratelli accompagnavano il defunto alla tomba, secondo il costume italiano non c’era nessun familiare né amico. Avevamo già avuto l’opportunità di menzionare questa tradizione, che ci sembra crudele, anche se la chiamano pietosa. Veramente il Dio cristiano non puó essere tanto geloso da chiedere la negazione delle relazioni più care, e neanche queste relazioni possono separare da Dio così fortemente, essendo opera sua.
Il soggiorno a Capua non lo ricorderemo per nessuna cosa bella, perché queste a Capua moderna non ci sono, ma per l’odore della frittura, che friggeva sotta la finestra, tanto che perfino la chiusura di questa non dava nessuna tregua. S’infiltrava attraverso le fessure, arrivava dalla cucina, e ci ricordava non tanto piacevolmente i tempi studenteschi e l’odore di una candela non ci faceva venire l’appetito.
Siamo partiti nell’ora dell’afa più forte, per fortuna l’aria ha avuto pietà di noi, tirava il vento tiepido e la temperatura come per l’Italia è diventata abbastanza mite. Abbiamo attraversato la parte delle fortificazioni perché Capua è fortificata all’antica maniera di Vauban.
Più in là il paese era piatto, il paesaggio non attraente, da ogni parte solamente gli alberi piantati in lunghe file regolari, coperti di edera. Da qualche parte questa monotonia era alterata con qualche pozzetto in pietra grigia, qualche misera casetta in muratura, qualche sporco albergo, e sulle pareti un mucchio di pitture religiose, delle quali non ho mai visto in Italia di peggiori.
Per qualche motivo però erano interessanti, se non per la storia dell’arte, almeno per la storia dei concetti e delle idee dei Napoletani.
La maggior parte di esse raffigurava le fiamme del purgatorio e le anime con le mani giunte per la preghiera. L’artista ha provato a suscitare la pietà, ma non ha ottenuto il risultato desiderato. Altrettanto fatte male erano le effigi di Santa Maria e quelle dei diversi patroni. Uno degli affreschi su una capella in muratura raffigurava una vettura rapinata dai briganti in quel posto e probabilmente miracolosamente salvata. Questa raffigurazione aveva un forte impatto sui viaggiatori. L’abbiamo mostrata al nostro compagno, che ha fatto un cenno con la mano e con la testa; anche se era pieno giorno, non si sentiva ancora pienamente sicuro.
A qualche miglio da Napoli la strada è diventata più larga in una maniera splendida, gli alberi che l’affiancavano sono diventati più possenti, grazie al traffico si sentiva la vicinanza di una grande città, ma invano aspettavamo la sagoma del Vesuvio e del mare, la pianura rialzata non ci permetteva di vederli da lontano. Attorno a noi un vero fermento, carri, carretti, carrozze con due o tre sedili, ci sorpassavano gridando e cantando, cariche, piene di gente seduta, in piedi, appesa, che si agganciava in qualche modo o correva accanto ad esse. Questi veicoli particolari solitamente erano dipinti in rosso per il piacere degli occhi, e trainati, come avevamo già menzionato, o da un povero cavallo magrissimo ma decoratissimo, con i fianchi picchiati, o da un misero asino, il più grande lavoratore di tutti gli abitanti d’Italia, o da una coppia di questi poveracci, o da un mulo con la sella decorata con bronzo, con stracci e fiocchi. Alcune di queste scatolette pretenziose avevano sui loro lati cifre, stemmi e si decoravano con l’ingenuità di un bambino.
La gente ci è sembata possente, forte, ma sopratutto allegra, sveglia e vivace, ma molto sporca. Alla vista della nostra vettura come se apparsi da sottoterra dei giovani lazzaroni ci seguivano gridando:
– Celenza! Celenza, piccola moneta! Povero! Miserabile! Moribondo! Fame! E visto che in Italia non si puó fare a meno di gesticolare, ridendo ci mostravano la bocca, lo stomaco e ci facevano capire come piacerebbe loro mangiare una pasta alla salute di questa celenza.
La strada nonostante questi episodi drammatici, che la rendevano più interessante, nonostante la sua spettacolarità, gli alberi bellissimi, gli edifici interessanti e pittoreschi, con l’impazienza di arrivare a Napoli, ci sembrava molto lunga e anche un po’ noiosa.

Aversa

Attraverso questi viali ombrosi, che sempre annunciano una capitale, che non vedevamo l’ora di vedere, siamo arrivati ad Aversa, l’ultima città prima di Napoli, che è famosa, come dicono tutte le guide, per il manicomio e il vino simile allo spumante: l’asprino. Non essendo amanti del vero spumante, non eravamo curiosi di gustare quello finto.
Aversa si decorava e si preparava con illuminazioni per qualche festività. È una cosa strana che nei paesi, dove la gente è più povera, la miseria più grande c’è nello stesso tempo il desiderio del divertimento e delle feste più grandi. Le strade erano addobbate dai mastri di festa, ma erano anche decorate con le botteghe en plein vent, perché qui, come nella maggior parte d’Italia, si lavora, si mangia, si dorme e si vive a cielo aperto. Questo modo di vivere si spiega in una maniera migliore con le piccole dimensioni delle case dei Romani e dei Greci, i quali dovevano vivere sulla strada in modo simile. Ad Aversa davanti a quasi ogni casa c’era la bottega del sarto, del calzolaio, del venditore di frutta, del sellaio che ripara i collari e perfino del fabbro. Le strade erano già decorate con i festoni delle lampade colorate, con i paletti verdi di bosso, e sulle facce rozze della gente spuntava già il presentimento del piacere che doveva arrivare. Per renderlo tanto rumoroso come piace ai Napoletani, non potevano mancare né la musica né i petardi. Più si fa rumore e chiasso, più la festa è ben riuscita.

Napoli

Dopo Aversa di nuovo le strade alberate, ma in queste il traffico è sempre più intenso; si sente la grande capitale, vicino alla quale il flusso è più forte. Le ville occupano il posto delle casette, entriamo nei sobborghi con le strade ampie, piene di straccioni, allegri, curiosi, invadenti, girano tanti lazzaroni, perché in condizioni favorevoli quasi tutti lo diventano, la sola vista dello straniero incoraggia a mendicare. Sulla strada i negozietti dove si vende il vino, la limonata, la frutta e i venditori che aspettano con i sacconi e i cestoni per il concime sparso sulla strada, che mettono sugli asini.
Alla fine si entra nell’antica città delle sirene attraverso una strada stupenda, ampia, che caratterizza la capitale, non tanto sporca quanto si potrebbe aspettare dalle descrizioni. Il traffico della gente sempre più intenso e il rumore incredibile per quelli non abituati a questo fracasso meridionale. Gli asini almeno tanto numerosi quanto la gente; le pile dei pomodori a terra, i festoni della pasta che si asciugano stesi sui bastoni, le fontane con l’acqua decorate con i limoni, il pesce che frigge nell’olio. In un pentolone la zuppa di pomodori, nel secondo il granturco lesso, poi l’arrosto sul carbone.
Si sarebbe potuto pensare che mangiare e bere è l’occupazione più importante degli abitanti, ma non è affatto così. Dopo aver sorpassato un’entrata stupenda, segnalata con obelischi di granito e con un tempio (dogana) entriamo dalla periferia in città.
Strade ampie, case abbastanza ben mantenute. La dogana si mette a perquisire i bagagli, ma si fa persuadere, prendono solamente i nostri passaporti pieni di innumerevoli visti. Siamo a Napoli che attraversiamo a lungo. Alla sinistra il Vesuvio e il monte Somma, e davanti a noi finalmente il mare e l’isola che dorme su di esso e la costa antistante al golfo, con le montagne coperte di boschi. Abbiamo già il presagio della bellezza che qui ci aspetta.
Il quadro del porto pieno di originalità e di vivacità. I lazzaroni rozzi girano attorno come le formiche. Dalle edicole chiamano per il teatro dei pupi, davanti al quale un violinista suona accanitamente, il tamburino suona con tutte le forze, e l’araldo vestito in maniera bizzarra accenna ad un quadro avvenente appeso sopra la porta, che dimostra le scene del dramma. Accanto di nuovo i negozietti, le edicole, le bancarelle, le panchine, le pile di arance, i frutti di mare, la frittura immancabile, le angurie, la pasta, e tra tutto questo tanta gente, la folla abbronzata, nera, sorridente con i denti bianchi, gesticolante in maniera drammatica, che sfrutta i polmoni per le grida espressive.
Le strade addobbate come ad Aversa con le lampade preparate, con i festoni, l’illuminazione, l’esercito si esibisce in una parata. Si tratta della vigilia del compleanno della regina, il pretesto per il gioco e il chiasso, ma ecco che arriviamo alla porta della locanda “Delle Crocelle” e la nostra vettura, circondata dalla folla dei lazzaroni anche troppo gentili, entra in maniera trionfale nel cortile.

1 Il capitano Zablocki è uno dei partecipanti alla cosiddetta “Insurrezione di Novembre” scoppiata nel 1830 contro l’occupazione russa. Dopo il suo fallimento tanti dei suoi partecipanti erano stati costretti all’esilio [n.d.c.].
2 Polesie è la regione geografica attualmente tra Polonia, Bielorussia e Ukraina, anche adesso è una delle regioni più povere della Polonia [n.d.c.].
3 IULIE AUG. MATRI AUG. ET CASTROR ET SENATUS.AC. PATRIAE. PIAE FELICI IMP.CAES. M. ANTONIN. FELICI. AUG, PART. MAX. BRIT. MAX. GER. MAX. TRIB. POT. XVI. IMP. II COS. PROC. MAGNO ET INVICTO.AC FORTISSIMO PRINCIPI SENATUS POPULUSQUE FERENTIN – “A Giulia Augusta, madre di Augusto, madre dell’esercito, del Senato e della patria, pia e felice; All’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Pio Felice Augusto, Partico Massimo, Britannico Massimo, pontefice Massimo, Germanico Massimo, nella 16ª potestà tribunizia. acclamato imperatore per la 2ª volta, console, proconsole grande invitto e fortissimo principe; il Senato ed il Popolo di Ferentino (dedicano)” [n.d.r.].
4 In realtà la pianta è ovoidale [n.d.r.].
5 Al tempo della visita del Boccaccio la badia di Montecassino era stata da poco distrutta dal tremendo terremoto del 1349 (la 3ª distruzione) che sconvolse tutto il meridione d’Italia; il certaldese in realtà trafugò dalla biblioteca del monastero alcuni preziosi codici, tra questi il Tacito e l’Apuleio ora nella Laurenziana di Firenze [n.d.r.].

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