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Studi Cassinati, anno 2008, n. 4
di Patrizia Patini
Molte persone amano manipolare le materie e riescono a trasformarle in manufatti; certamente ciò avviene grazie al proprio talento e, soprattutto, all’apprendimento che sopraggiunge dal contesto sociale in cui quelle stesse persone vivono e abitano. L’adattabilità e la scelta dell’arte intrapresa, però, trasformano molto spesso l’arte pura in quel “mezzo” indispensabile per il sostentamento, cioè una fonte di un reddito. Il caso che sto per illustrare è abbastanza diverso da ciò che s’intende oggi per “artigianato artistico” poiché non si tratta di un lavoro manuale indirizzato alla produzione o all’arte, ma è generato e maturato grazie all’esperienza quotidiana degli usi e costumi popolari, dettata da una educazione familiare tramandata da generazione in generazione e gestita come una volontà imprescindibile: è l’arte di costruir fuscelle.
Di fuscelle si parla già nei libri più importanti degli autori latini come: Magone, Isidoro, Virgilio, Plinio, Macrobio, Catone, Varrone, Marziale, Ateneo, Celso, Ennio, Orazio e Palladio; per cui si puó dedurre che la parola millenaria non ha modificato il suo significato originale, anzi, ne ha mantenuto i principi e l’eredità. Questi motivi rappresentano il vanto per un mestiere che usa vari componenti, ancora oggi tutti straordinariamente integrali ed originali, quali: la materia, la tecnica di composizione, l’utilizzo della lavorazione, il linguaggio e il messaggio antropologico.
Fuscello è il sostantivo maschile che deriva dal latino fusticellus, diminutivo di fustis, bastone; esso puó essere usato nella terminologia italiana con le alterazioni fuscelletto, fuscellino, fuscella; quest’ultima parola s’identifica spesso con la forma di un formaggio (umbro-laziale) che determina anche la tradizione del suo autentico contenitore, ovvero il cestino usato per trattenere il latte cagliato che diventerà ricotta o formaggio. Non potremmo sostituire questo gergo alimentare con altro lessico, perché la fuscella di giunchi non ha pari nella sua identità. La ricordiamo sempre presente nelle case dei pecorai e casari e ne leghiamo il suo aspetto alla tradizione dei pastori. Il vero gusto del formaggio artigianale e, soprattutto, il gusto delle ricotte fresche, è determinato dal contatto del caglio con il materiale di questo raccoglitore. Non a caso si parla di retrogusto del formaggio quando esso sprigiona sapori e profumi derivanti dall’affinamento (così come accade con il vino quando viene lasciato a macerare nelle botti di rovere, olmo, quercia ed altra tipologia di legno). Nel Lazio molti prodotti devono la loro tipicità proprio al sistema tradizionale di conservazione e manipolazione, per cui anche quello delle fuscelle è un caso molto interessante per le caratteristiche di alcuni formaggi, sia freschi, semi-stagionati, che stagionati. Insomma vale la pena assaggiare un prodotto infuscellato in involucri fatti con giunchi e non conservato in scatole di plastica; purtroppo confondiamo spesso il concetto di qualità con il concetto d’igiene, senza capire che l’una cosa non esclude l’altra. Inoltre, le regole della produzione a volte sono esagerate ed incompatibili, per cui mi auspico un sistema logico in cui possano convivere tradizioni e innovazioni a tutela di un mondo rurale ricco di significati e poesia, proprio come l’intreccio dei fuscelli di giunco tra le mani di un’abile artigiano.
Non ci si rende conto di quante siano in Italia le particolarità dei prodotti enogastronomici e gli antichi mestieri connessi, ma possiamo sperare che non sia la modernità a seppellire, tra i tanti ricordi, anche questa umile attività contadina che primeggia da sempre nel centro-sud della penisola.
Ad Atina, in località Sabina, c’è la signora Concetta Soave che lavora i fascetti di felce trasformandoli in precisissimi contenitori conici chiamati fuscelle. Chissà perché il nome è diventato un sostantivo femminile … forse perché le donne avevano questo compito durante la giornata? Forse perché le ricotte erano soprattutto prodotte con queste cestinelle? Cercheremo di saperne di più intervistando la signora che inizia il suo racconto con molta spontaneità.
La signora Concetta Soave è una delle poche persone che costruisce artigianalmente le “fuscelle”, piccoli contenitori per ricotte e formaggi, utilizzate dai pastori della Valle di Comino e altre zone dell’Italia Centro-Meridionale.
Ci troviamo ad Atina, in località Sabina, e la signora ci accoglie nella sua casa per permetterci di filmare i vari passaggi della lavorazione di questo particolarissimo prodotto artigianale, il cui nome proviene direttamente dal latino.
La testimonianza della nostra visita sarà inserita tra le documentazioni che raccogliamo sul mondo rurale e sui protagonisti della realtà territoriale della Valle di Comino. La signora Concetta porta con sé due fascette di giunchi, materia prima del prodotto: si tratta di sottili fili di legno, morbidi e flessibili, dai colori sfumati. Questi, ci spiega Concetta, provengono dalle paludi presenti nella zona di Battipaglia, e le vengono forniti, da sempre, da un amico di famiglia, che fa visita alla signora periodicamente. Questo materiale non si trova nelle nostre zone e fin dai tempi più remoti si importava dalle regioni vicine.
Per poter essere lavorati, i giunchi si devono tagliare nelle paludi all’altezza del terreno, essiccati per una settimana circa e bolliti immediatamente prima della fase di intreccio delle fuscelle.
Concetta infatti li ha pazientemente fatti bollire in un pentolone prima del nostro arrivo, questo perché siano disinfettati e resi abbastanza flessibili, per poter essere intrecciati.
Il lavoro ha inizio: Concetta si appresta a costruire sotto i nostri occhi curiosi un cestino di media grandezza, che servirà per contenere una caciotta ( calcoliamoun diametro di circa 10 cm.).
Prende tre mazzetti rispettivamente di 14, 16 e 4 fili. Ci spiega che, a differenza di quelli reperibili nella zona, questi di cui lei dispone sono gli unici adatti alla lavorazione dei cestini, perché gli unici resistenti e non vuoti all’interno: i giunchi vuoti si romperebbero con estrema facilità una volta intrecciati. I due mazzi di 14 e 16 fili serviranno come base di costruzione dei cestini, i 4 restanti serviranno invece per “tessere” la fuscelle, ovvero per costruire l’intreccio che sosterrà l’intero recipiente.
Durante il lavoro i 4 fili verranno continuamente sostituiti, e notiamo che, non appena si esauriscono, Concetta ne toglie le parti terminali, aguzze, e ne inserisce con estrema rapidità e precisione dei nuovi.
L’operazione segue tre fasi:
– costruzione della base
– la costruzione del cilindro
– la chiusura del bordo.
Notiamo che la prima fase è sicuramente la più complessa, a livello di intrecci.
Mentre procede con il suo gioco di dita, prendendo ogni tanto le forbici per tagliare le punte aguzze dei giunchi, Concetta ci racconta che questa attività costituiva un tempo, per la sua famiglia, l’unica fonte di reddito.
Le fuscelle venivano vendute ai pastori della Valle e a quelli del Cassinate, che si recavano a Belmonte appositamente per comperarle presso la sua famiglia e altre vicine. Adesso la signora le costruisce per hobby, le regala agli amici e conoscenti, dedicandovi pochi minuti della giornata, il tempo che le rimane dopo aver svolto i lavori casalinghi e campestri.
Ci racconta che ha insegnato questa arte ad una ragazza di Atina e le piacerebbe che questa tradizione non si perdesse nel tempo.
Mentre parla e tesse, Concetta ci mostra le sue mani e dice: “Guardate, ho le mani piene di terra; nella terra sona nate e continuano a far uscire terra, nonostante le abbia lavate”.
Le chiediamo quanto durerà un cestino del genere, come dovrà essere trattato, quanto resisterà, e ci risponde che potrà essere lavato più volte ma difficilmente si rovinerà.
È orgogliosa quando dice che sa di un’amica che li lava in lavastoviglie, ottenendo risultati sorprendenti.
Dentro di me penso che questo sia davvero un “oltraggio” allo spirito dell’oggetto, ma in fondo sembra essere un buon compromesso con la modernità.
Ringrazio le mie due figlie Dalila e Daniela Di Paolo
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