Incursione di saraceni nell’area del Cassinate nell’866


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Studi Cassinati, anno 2008, n. 3

di Emilio Pistilli

La nascita di nuovi centri abitati
Il vasto fenomeno delle invasioni barbariche che scompaginò l’Impero Romano d’Occidente nelle sue strutture economiche, politiche e sociali sconvolse anche il tranquillo ed ordinato vivere quotidiano di quei centri abitati che ebbero la sventura di trovarsi lungo le strade percorse da quelle bande armate assetate di preda.
Avvenne infatti che numerose città si spopolarono: gli abitanti le abbandonarono e preferirono rifugiarsi nelle campagne, lontano dalle vie importanti, o sulle alture, che a mano a mano si andarono fortificando. Ebbero così origine gran parte dei paesotti caratteristici delle nostre contrade, arroccati sulle cime delle colline, in posizione sempre panoramica: questo fenomeno, poi, nella Terra di S. Benedetto, fu istituzionalizzato con l’ordine di incastellamento emanato dall’abate cassinese Aligerno alla fine del sec. X.
Analoga cosa accadde del centro abitato di Casinum, florido per tutta la durata dell’Impero, ma la cui popolazione, a seguito delle frequenti incursioni barbariche, si sparse nelle campagne circostanti, lontane dalla trafficata via Latina, maggiormente verso Nord, nell’alta Valle del Rapido, cioé nella fascia delimitata da Belmonte Castello, S. Elia Fiumerapido, Cervaro, S. Vittore del Lazio.
In quei luoghi i profughi dovettero adattarsi alla meglio, speranzosi di tornare quanto prima alle proprie case ed occupazioni; finirono, però, per rassegnarsi e si disposero ad una dimora stabile, dando vita a quei nuclei di abitazioni di cui troviamo traccia nei paesi e nelle frazioni disseminati per un largo raggio del Cassinate.
Ma molto presto nemmeno in quei luoghi si stette più sicuri, perché le orde barbariche, alla ricerca continua di bottino, capirono che lungo le vie principali era rimasto poco da predare, e cominciarono a battere le vie secondarie o interne, che diedero loro occasione di nuovi saccheggi, meno ricchi, ma più sicuri.
Finita la stagione delle incursioni barbariche del periodo imperiale (nel 410 i Goti, nel 455 i Vandali, nel 476 gli Eruli, nel 493 gli Ostrogoti1) e passata anche la bufera longobarda, che costò, tra l’altro, la distruzione dell’abbazia di Montecassino (anno 5772), nel sec. IX il territorio dovette subire ripetute incursioni saracene. È il caso di accennare a quelle che interessarono anche la città di Roma nell’846 e che indussero papa Leone IV a costruire delle mura a difesa della città di S. Pietro (le mura Leonine, appunto), e che costrinsero i monaci di Montecassino ad abbandonare il loro monastero sul Rapido3 per rifugiarsi in quello sul monte4: nell’839 nel Ducato di Benevento – corrispondente alla parte meridionale della Longobardia Minore – era scoppiata la guerra di successione al trono tra l’usurpatore Radelchi e Siconolfo; fu Radelchi per primo a chiamare in soccorso quei saraceni che, nell’842, si erano impadroniti di Bari5 (con analogo intento Siconolfo aveva chiamato altre orde mercenarie barbare). Con essi Radelchi devastò l’intera regione riducendo in cenere la città di Capua6. In quel periodo (l’846, appunto) i saraceni, giunti a Roma, devastarono la basilica di S. Pietro e la chiesa di S. Paolo7. Successivamente scesero verso Fondi e Gaeta, tra le cui mura trovarono rifugio. Furono affrontati da un esercito dei Franchi dell’imperatore Ludovico II, ma riuscirono a metterli in fuga; nell’inseguirli i saraceni giunsero al Garigliano e si diressero verso il monastero cassinese saccheggiando le celle monastiche incontrate8. I monaci, come già detto trovarono rifugio tra le mura dell’abbazia sul monte.
La guerra tra Radelchi e Siconolfo si concluse solo nell’851 con la divisione del principato in due parti: il principato di Benevento a Radelchi e quello di Salerno a Siconolfo9.
In tale contesto e per le ragioni appena accennate l’abate di Montecassino, Bertario (abate dall’aprile 856), decise di fortificare il complesso monastico sorto sulle rive del fiume Rapido ai piedi del colle Janulo, dove sorgeva anche la basilica del Salvatore, costruendo mura che potessero ospitare una nuova città, che egli stesso pensò di chiamare col difficile nome di Eulogimenopolis, cioè Città di Benedetto10. Purtroppo quel tentativo non andò in porto a causa della tragica fine dello stesso abate, trucidato, il 22 ottobre 883, da una masnada di saraceni che attaccarono e devastarono il luogo. Bertario aveva appena fatto in tempo a mettere in salvo la comunità monastica facendola rifugiare nel monastero di Teano11.

La scorribanda dell’866
Alla luce di tutto ciò ora possiamo leggere una pagina della preziosissima Cronaca di Leone Ostiense12 (detto anche Leone Marsicano), che, al riguardo, è preciso, ma scarno, è dettagliato, ma freddo: le sofferenze e le traversie di quei giorni (diciamo pure di quegli anni) il lettore se le deve immaginare, se puó, ma non puó trarle dal racconto, che sembra essere stato disumanizzato quasi di proposito. Il compilatore della Cronaca sembra essere interessato più alla narrazione dei fatti che non al travaglio fisico e spirituale dei protagonisti dei fatti stessi.
Tale spirito di resoconto storico sembra essersi trasfuso anche negli studiosi successivi, che dalla Cronaca hanno attinto notizie, limitandosi quasi a farne una traduzione pedissequa e talvolta perfino inesatta.
Ma veniamo anche noi alla narrazione di una ennesima incursione di saraceni nel territorio dell’abbazia nell’anno 86613. Riferisce l’anonimo estensore della Chronica Sancti Benedicti Casinensis, che era quasi contemporaneo agli eventi di cui si occupava14 e dal quale attinse ampiamente Leone Ostiense: era l’inizio della Quaresima, domenica; i monaci, preoccupati della vicinanza delle orde saracene di Seodan, di stanza a Venafro, pensarono di rifugiarsi nel monastero superiore di Montecassino; il mercoledì successivo l’esercito barbaro si spinse fino a poco meno di quattrocento metri (“quasi stadia dua”15) dal monastero sul Rapido. Infatti i saraceni volevano raggiungere Atina attraverso i monti16, ma la loro guida (per errore o volutamente, non sappiamo) li fece scendere a Vallerotonda e quindi sul fiume Rapido. Giunti in pianura si diedero alle depredazioni iniziando con la chiesa di S. Elia, proseguirono per “Circlaria” verso l’orto “dominico”; passando per “Pascuario” si diressero a “Fontana Lucii”, di qui a “Peola”, dove uccisero, dinanzi ai cancelli (probabilmente del monastero di S. Michele, costruito dall’abate Potone tra il 771 e 77717), la vecchia guida che li aveva condotti sulla strada errata. La scorribanda proseguì per “Cesa Constantii”, per “Oliveto”, per “Matronola”, razziando giumente e vacche del monastero cassinese, fino a ricongiungersi, quando ormai era sera, con gli altri saraceni che stazionavano a Venafro18.
Oltre le questioni che qui ci interessano c’è da affrontare un punto controverso sul testo dell’Anonimo, ed è quello relativo all’identificazione del monastero presso il quale i saraceni si spinsero con la loro scorribanda (“Sancti Benedicti pervenit monasterium, haud non longe quasi stadia dua”): la distanza degli stadia dua (duo nel Chron. Cas.) si riferiva al monastero sul Rapido o a quello sul monte? Il prof. Paolo Bertolini dell’Università di Cassino, in un intervento pubblico nel 1981, contestava la tesi del sottoscritto che optava per il monastero a valle, lungo il corso del fiume Rapido, ritenendo che si trattasse, invece, di quello sul monte. Premesso che al tempo a cui ci si riferisce i monaci con l’abate risiedevano, come già detto, quasi stabilmente nella struttura a valle (che talvolta è detta anche monasterium maius), occorre ricordare che il monastero del Salvatore sul Rapido più volte è definito, nelle cronache cassinesi, “Sancti Benedicti monasterium” o “oratorium”: si veda in Chronica S. Benedicti Cas., I, 15: durante la costruzione delle mura della città da parte dell’abate Bertario – nell’episodio del muto guarito –, i monaci levavano lodi a Dio nell’oratorio di S. Benedetto (“dum fratres in oratorio beatissimi Benedicti Deo laudes peragerent”): a conferma che si trattava di quello del Salvatore troviamo che l’autore della cronaca precisa che il miracolato lavorava alla costruzione della città (“vir quidam tunc ibi erat suis cum sociis in constructionem civitatis”). Ancora: sempre nella stessa cronaca, a pag. 471, n. 4, si legge che l’imperatore Ludovico II con la moglie Angelberga giunse al monastero del santissimo padre Benedetto (“… ad monasterium veniunt sanctissimi Benedicti patris …”) e, subito dopo, aggiunge che dopo quella visita salì sul monte dove è sepolto il corpo del santo (“… Ascendens autem montem, ubi dicti almi patris pii Benedicti sacrum corpus humatum est …”). Ad eliminare ogni residuo dubbio c’è la precisazione decisiva dell’Ostiense che, nella sua Cronaca (I, 35) indica con molta chiarezza che il monastero era quello di giù (“quod deorsum erat”). Infine, per chiudere la questione, va rilevato come appaia improbabile che, nella fretta di tornare alla loro base nella stessa giornata, i saraceni di Seodan, già carichi di bottino fatto in precedenza, si cimentassero nella scalata del monte per assaltare un monastero ben protetto da solide mura.
Ma torniamo all’episodio che ci interessa seguendo gli autori che di essa si sono occupati, Marco Lanni19 e Luigi Fabiani20.
Marco Lanni, arciprete in S. Elia Fiumerapido (1808 1885) riferisce: “Gli antichi abitatori di Cassino vissero dispersi in tanti gruppi fino al X secolo; allorché uno stuolo di Saraceni condotti dal loro soldato Seodan il quale respingendo dall’assedio di Bari l’Imperatore Ludovico II, che ad intercessione del Vescovo di Capua e dell’Abate di Montecassino erasi indotto a venire con l’esercito a scacciare d’Italia i Mori, ridussero a macerie Alife, Telesia, Sepino, Boiano, Isernia e Venafro, risparmiando Benevento a prezzo di un tributo. Da Venafro poi, volendo recarsi in Atina, cittá allora di grande considerazione, per isbaglio della scorta di Peola, il che le costò la vita …”. Qui c’è una interpretazione errata della Cronaca, perché la scorta non era di Peola, ma a Peola fu uccisa; si trattava di un vecchietto che faceva da guida: “vetulus quidam qui eorum ductor erat”, ma ciò lo vedremo più innanzi. Luigi Fabiani riprende la narrazione: “… scesero a Vallerotonda, e di là, seguendo il corso del Rapido, nella pianura davanti al Monastero”.
Seguiamo ora la Cronaca di Leone Ostiense21: essendo giunti nella pianura, entrati nella Chiesa di S. Elia, presero ciò che trovarono. Di qui passando “per Circlarias” andarono in “ortum domnicum” e “per pascuarium in fontanam Luicii”; poi giungendo a Peola uccisero quel vecchio che aveva loro erroneamente indicato la via (“venientesque Peolam, senem illum qui eorum viam fefellerat interfecerunt”); questo è il passo che ha tratto in errore Marco Lanni e, dopo di lui, lo stesso Fabiani che confonde il toponimo Peola con il nome della vecchia guida.

S. Elia
Sarebbe interessante, a questo punto, identificare i luoghi segnalati nelle cronache dell’Anonimo e dell’Ostiense: si potrebbe, avere, in tal modo, un quadro, sia pure parziale, dei vari raggruppamenti degli antichi abitatori di Casinum in seguito alle invasioni barbariche.
Ci potremo servire, a tale scopo, in parte dei toponimi attuali, che, in qualche modo, derivano da quelli antichi22, e in parte della logica e del buon senso.
S. Elia, è chiaro, si identifica con l’attuale paese di S. Elia Fiumerapido, a Km. 7 a nord di Cassino. Va precisato però che esso nell’epoca di cui trattiamo (859 secondo Lanni, 866 secondo altri) era sito pìù a valle, dirimpetto alla gola di Belmonte, a cavallo del fiume Rapido. Oggi unica testimonianza è un ponte romano seminterrato e chiamato appunto “ponte di S. Elia vecchia”, da non confondere col ponte “Lagnaro”, anche se molto simile, posto più a valle e visibile dalla via Sferracavallo in prossimità della contrada Olivella. Sul ponte di S. Elia vecchia passava una strada, ora per gran parte in disuso, che, con percorso pedemontano, collegava il Molise con la Valle di Comino passando per S. Pietro Infine, S. Vittore, Cervaro, S. Michele e costeggiando il monte Cifalco23, poco al di sotto dell’attuale strada a scorrimento veloce; quest’ultimo tratto era segnato sulle vecchie carte IGM come “strada romana”.
Della chiesa di S. Elia abbiamo ancora notizia nella Cronaca di Leone Ostiense24, relativamente all’anno 987, quando l’abate Mansone (ab. 886-896), successore del grande Aligerno, e sul suo esempio, concesse ad alcuni abitanti della Terra di S. Benedetto, di abitare, entro certi confini, i luoghi attorno alla chiesa di S. Elia con l’obbligo di restaurarla essendo stata distrutta dai saraceni25, probabilmente in occasione di incursioni successive a quella di cui qui ci occupiamo26. Ma la citazione si riferisce alla sola chiesa, anche se il provvedimento fa pensare che da allora iniziò a formarsi una popolazione locale. Troviamo, invece, per la prima volta nominato il castello di S. Elia nel 1039, ai tempi dell’abate Richerio (ab. 1038-1055)27; ma la prima comparsa ufficiale è nel Privilegio n. 71 del 1057 (4368) di papa Vittore II all’abate di Montecassino Federico di Lorena (poi papa Stefano IX).
In seguito alle continue devastazioni operate dalle orde barbariche, che probabilmente si servivano della suddetta via, e, a causa soprattutto delle frequenti alluvioni del Rapido, gli antichi abitanti di S. Elia sloggiarono anche dal fondovalle e, unitisi con altri profughi, si arroccarono sulla collina vicina, più facilmente difendibile, in prossimità della chiesa di S. Elia, che diede quindi il nome al nuovo centro abitato, che è quello attuale.

Peola
Ma le altre località: Circlaria, Ortum Domnicum (altrove: Hortum Dominicum), Pascuarium, Fontana Lucii, Peola, con quali contrade si possono identificare?
Depenniamo, per il momento, Hortum Dominicum, che, nel significato di orto padronale, è di difficile identificazione. Problemi invece non si hanno circa Peola, in quanto ancora oggi tale toponimo è in uso in comune di Cassino, tra la sede del centro militare di addestramento e le frazioni di S. Michele; anticamente però la denominazione Peola – abbiamo motivo di crederlo – si riferiva ad una più vasta zona, comprendendo anche le frazioni di Selvotta, S. Michele, S. Antonino28.
Restano da riconoscere le località Circlaria, Pascuarium e Fontana Lucii. Quest’ultima, per un motivo di “orecchio”, ci farebbe volgere l’attenzione verso i monti a N.O. di S. Elia dove troviamo località come Valleluce e Casalucense o Casaluce. Ma qui ci sovviene il buon senso: è possibile che un’orda di voraci predatori, quali erano i Saraceni, diretti verso il ricco centro di Atina, costretti a tornare indietro per l’errore di cui abbiamo parlato (infatti non avrebbero più potuto giovarsi dell’elemento sorpresa nei confronti dell’ignara Atina), si adattassero a razziare su monti pressoché disabitati, quali erano allora quelli di Valleluce e Casalucense, dove avrebbero trovato solo capre e poche capanne dì pastori?
Più logico invece che, pur di non tornare alla loro sede a mani vuote, si mettessero a saccheggiare “a mano a mano” i vari centri abitati sulla via del ritorno, anche a costo di allungarne notevolmente il percorso. Centri abitati di maggiore consistenza li avrebbero certamente incontrati nelle immediate vicinanze di Eulogimenopolis, la futura S. Germano, l’attuale Cassino, per i motivi cui abbiamo accennato all’inizio.

Circlaria
A qualche chilometro a Sud di S. Elia troviamo la frazione di Cassino “Caira”, il cui nome potrebbe appunto farsi derivare da Circlaria.
Infatti nelle cronache medievali troviamo spesso la denominazione Caria (ancora oggi nel dialetto locale viene detta Caria, e probabilmente non è una metatesi di Caira, ma il contrario). Da taluni il toponimo Caria è messo in relazione con il sovrastante monte Cairo, che, a sua volta, viene accostato al culto di Apollo Clanio, esistente sul vicino Montecassino in epoca pagana (da Clanio a Clario, quindi Cario – Cairo)29; ben si adatterebbe, secondo gli stessi, Circlaria, che deriverebbe da Circum Clario (attorno al Clario); la qual cosa è poco attendibile, perché in tal modo dovremmo accettare la contrazione del “cum” (e passi pure) e la trasformazione del suono forte “o” (Clario) in “a” (Claria) cosa glottologicamente poco ammissibile.
Sarebbe invece più credibile muovere da Circularia (rotondità in genere) con la sola contrazione della “u”; ci conforterebbe in ciò la presenza di alcune colline attorno a Caira quasi perfettamente rotonde (Colle Marino, Monte Rotondo) e la tradizione che ha ritenuto di dover tramandare il toponimo, sia pure volgarizzandolo in Monte Rotondo30, appunto. La volgarizzazione dei toponimi della lingua latina è un fenomeno assai frequente nel territorio cassinate.
Ma si accetti Circum Clario o Circularia, sembra non vi debbano essere dubbi che Caira derivi da Circolaria, dal momento che tale denominazione esiste già nel tempo di cui trattiamo (sec. IX) e viene ripetuta nel sec. XIII nel Regesto dell’abate Bernardo Ayglerio31.

Pascuarium
Pescuarium (o Pascuarium), invece, sembra voglia indicare una zona adibita a Pascolo e, basandoci solo su ciò, non ci è assolutamente possibile identificare il luogo cui il termine si riferiva, dal momento che di pascoli ce ne saranno stati tanti, vista l’economia del tempo.
E questa volta la logica deve chiedere l’aiuto della fantasia, perciò dobbiamo correre anche il rischio di far sorridere per quanto andiamo affermando.
Partiamo dal presupposto che i toponimi, per quante trasformazioni possano subire, lasciano sempre la possibilità di intravedere la loro radice originaria, a meno che non vengano coniati “ex novo”. Proviamo a cercare dunque una denominazione attuale di località che si avvicini a Pascuarium e che si trovi alla periferia dì Cassino, non troppo distante da Caira e S. Elia.
Una contrada che risponde a tali requisiti c’è ed è “S. Pasquale”, a Km. 3 a N.E. di Cassino. Ma come si fa a passare da Pascuarium32 a S. Pasquale? L’orecchio ce lo consente, ma non la logica.
Nella contrada in questione, a dire il vero, si erge una minuscola cappella dedicata a S. Pasquale, ma la venerazione di tal santo non è dato sapere a che epoca risalga. Certo è una venerazione un po’ inconsueta per le nostre zone.
Dopo la venuta di S. Benedetto ci fu tutta un’opera di “depaganizzazione” (passi il termine) nel Cassinate: sorsero così numerose chiese sugli avanzi dei templi o luoghi di culto pagani; intere contrade furono dedicate a santi o profeti e da essi trassero il nome che ancora oggi conservano: per tutti si vedano i paesi della “Valle dei Santi”.
Analogo destino ebbe sicuramente l’odierna frazione S. Pasquale: ammesso che il suo nome originario fosse Pascuarium niente di più facile che si pensasse, in epoca benedettina, a mutarlo nell’assonante S. Pasquale; ma come ignorare che il piccolo corso d’acqua perenne che scorre in quella zona e la contrada attigua hanno ancora oggi il nome di Pescarola33?
Certo la storia non si fa con i “se”, ma in mancanza di adeguate documentazioni ci si puó accontentare anche delle congetture.

Hortus Dominicus
Se si ha voglia di accettare una simile transizione (da Pascuarium a S. Pasquale), potremmo anche azzardare l’identificazione dell’Hortus Dominicus, in S. Domenico, di cui ci è rimasto il solo toponimo di “Ponte di S. Domenico”, meglio noto come il “ponte del Carcere”. Nella zona anticamente sorgeva il convento di S. Domenico, cui, presumibilmente, doveva essere annesso un orto d’importanza tale da giustificare il riferimento dell’Ostiense, di per sé troppo generico (“… in hortum dominicum”); tuttavia l’appellativo “dominicum” o “domnicum” fa pensare, secondo la tradizione cassinese, che si trovasse a ridosso delle mura della città, dunque in piena concordanza con la località S. Domenico, dove ancora oggi sono visibili i resti delle torri medioevli, e, cosa importante, a circa 400 metri (quasi stadia duo) dal monastero sul Rapido, zona dell’odierna chiesa madre.

Fontana Lucii
Fontana Lucii, infine, meno di tutti gli altri toponimi si presta ad una identificazione. Non esiste, infatti, nella zona che abbiamo preso in considerazione, alcun nome che si possa far risalire ad esso.
Per orientarci, molto vagamente, possiamo ricorrere al senso della denominazione: una fonte, una sorgente; ma quale fra le tante esistenti nella zona? Certamente una fra le più importanti, dal momento che ha dato il nome ad un’intera contrada (per la quale sarebbero passati i saraceni). La più importante oggi è fuori di dubbio la sorgente di Capo d’Acqua, che, con le sue acque rinomate, ha alimentato, fin dai primi decenni del Novecento, gran parte dell’odierna Cassino34. Ma era altrettanto nota nell’antichità? Forse. Chi vi è stato non ne dubita.
Non è da escludere, dunque, che anche qui vi sia stato un processo di volgarizzazione: del tale Lucius si sarebbe perduta memoria, l’unica cosa rimasta sarebbe la fontana o sorgente, trasformata poi in Capo d’Acqua.
È inevitabile che tali argomentazioni possano sembrare artificiose e fantasiose. Ma per rendere loro un po’ del lume della logica e della fondatezza proviamo a far ripercorrere alle orde saracene di Soldao le località indicate dall’Ostiense e qui identificate nel modo su esposto.
Da S. Elia vecchia i saraceni avrebbero attraversato la piana dell’Olivella in prossimità del ponte Lagnaro, sarebbero giunti a Caira e, bordeggiando le pendici delle colline tra Caira e l’odierna Cassino, avrebbero continuato i loro saccheggi verso S. Domenico (la zona del carcere), quindi, evitando Eulogimenopolis-Cassino, si sarebbero diretti verso S. Pasquale e Capo d’Acqua (“… Per circlarias in hortum diminicum, per pascuarium in Fontanam Lucii”). Di qui, passando per Peola (S. Michele), dove trovò la morte la sfortunata guida, si diressero a Venafro razziando le campagne tra le odierne S. Michele e Cervaro: Cesa Constantii, Olivetus, Matronula.

Cesa Constantii
Quanto al luogo detto Cesa Constantii non mi lascio tentare di identificarlo con l’odierna “Casa Costantino” in territorio di S. Vittore del Lazio, tra le contrade “Taverna” e “Granarelli”: la segnalo solo per dovere di completezza. Al termine “cesa” (o “caesa”) si è soliti attribuire il significato di “luogo dove sono stati abbattuti degli alberi”, tuttavia non va escluso l’altro di “terreno recintato”, spesso da una siepe, corrispondente alle successive “chiuse”.
Personalmente propendo per questa seconda interpretazione perché di zone disboscate ve ne sono sempre state in abbondanza, destinate quanto prima a non essere più tali per via della ricrescita della vegetazione; quindi voler indicare un luogo con tale appellativo in un contesto da affidare alla storia sarebbe stato quantomeno aleatorio; mentre una “chiusa” costituiva una situazione abbastanza stabile e duratura; accompagnata dal nome del proprietario poteva indicare inequivocabilmente una precisa località: ed è quanto voleva il redattore della Cronaca. Il problema, in questo caso, è che non abbiamo notizia di quel Costanzo proprietario della “cesa”.

Olivetus
Olivetus è posto da H. Hoffmann35, sia pure con dubbio, in territorio di S. Elia, riferendosi, evidentemente, alla contrada Olivella. Oliveti erano (e sono ancora) un po’ dappertutto nelle zone collinari o nelle pendici montuose del territorio in esame: dunque da solo ci dice ben poco sulla sua ubicazione; in considerazione di ciò è da presumere che per il cronista doveva essere immediatamente identificabile grazie alla sua importanza/estensione e ai luoghi contermini da lui ricordati: Cesa Constantii e Matronula. Oliveti ancor oggi rinomati sono quelli in contrada S. Michele/Ascensione di Cassino e nei comuni di Cervaro, S. Vittore, S. Pietro Infine, Venafro: dunque sempre sul percorso dei saraceni qui ipotizzato. Tuttavia l’oliveto per eccellenza nei documenti cassinesi dei primordi era quello di S. Michele, presso l’omonima chiesa, oggi località volgarmente detta “il Palazzo”.

Matronula
La località Matronula in I Regesti dell’Archivio di Montecassino36 è posta in territorio di S. Germano, e le persone interessate a quegli atti pubblici provengono per lo più dalla località S. Michele del monte. Va notato che il cognome Matrundola, evidente derivazione di Matronula, è presente da tempo immemorabile nella contrada Sprumaro, che oggi è comune di Cervaro, ma contigua alla contrada S. Michele: dunque possiamo concludere che il cronista si sia limitato ad elencare località pertinenti o limitrofe al territorio di quella che sarà S. Germano, trascurando le residue località fino a Venafro perché non di interesse dello stesso.

Cervaro
Occorre precisare che, al tempo di cui vado trattando, non si ha ancora notizia dell’abitato di Cervaro: la prima menzione certa del luogo si ha nella Cronaca dell’Ostiense37 come “Cervarium oppidum”, relativa all’anno 1038 secondo A. Pantoni38, all’anno 1039, invece, ma con dubbio, secondo H. Bloch39; una successiva menzione di Cervaro, come Cervara, è nel già ricordato Privilegio papale del 1057, dove figura tra i castella, donati all’abbazia; ma in entrambi i casi ci si riferisce ad un luogo già abitato, probabilmente fin dal tempo dell’incastellamento voluto dall’abate Aligerno nella seconda metà del sec. X.
Molti autori, però, ritengono di poter anticipare la prima citazione di Cervaro al 744 riferendo ad esso la località “Pesclum nomine Corvarium” citata nella descrizione dei confini della Terra di S. Benedetto riportata nella donazione di Gisulfo del 74440, la qual cosa è da ritenere decisamente errata poiché, se fosse vera, i confini del patrimonio di S. Benedetto in quel periodo sarebbero andati dal Garigliano a S. Pietro Infine (passo dell’Annunziatalunga), quindi a Cervaro, di lì al lago di Viticuso, escludendo, tra l’altro, il territorio di S. Vittore; mentre da recenti studi il “Pesclum nomine Corvarium” è da porre sullo spuntone roccioso (pesclum) di Corvara, al di sopra di Ceppagna (Molise), dove ancora oggi passa il confine di regione, che per lungo tratto ricalca quello della donazione di Gisulfo41.
Allora, visto il silenzio del nostro cronista circa la località “Cervaro”, possiamo arguire – ma con ragionevoli dubbi – che al tempo in cui egli scrive (seconda metà del sec. IX) ancora non esistesse un centro abitato di tal nome e che, al suo posto, fosse noto solo l’agglomerato dei Matronola.

Bilancio dell’incursione
Da tutto ciò si puó dedurre che le vie percorse dai Saraceni nella loro scorribanda corrispondessero all’antica pedemontana che ancor oggi da S. Michele, bordeggiando le pendici del monte Aquilone, passa per Cervaro, di qui va a S. Vittore (a monte dell’attuale centro abitato), a S. Pietro Infine; in tal modo il percorso diviene accettabile e, anzi, probabile, poiché si nota una netta continuità topografica, l’unica, del resto, che consentisse ai predatori di ritornare al luogo di partenza senza mai ripassare dove già erano stati e con un buon bottino.
Si puó infine osservare che la scorribanda saracena doveva essere composta da una banda non troppo consistente, dal momento che si limitò ad attaccare solo contrade isolate, ignorando il costruendo centro abitato di Eulogimenopolis, pur avendolo sfiorato, e contando soltanto sull’effetto sorpresa per l’assalto ad Atina. Inoltre, coprire le svariate decine di chilometri dell’intero percorso, quasi tutto montano, in una sola giornata, era possibile solo ad uomini non vincolati da ordini di schieramento e con armatura leggera; da questo si puó anche arguire che il bottino delle razzie non dovette essere molto ingombrante. Le stesse località menzionate nel testo probabilmente erano costituite da piccoli gruppi di contadini e massari. Va, infine, rilevato, che, tranne a S. Elia, dove i danni non furono ingenti (parum aliquod damnum ibidem facientes), non furono interessate le chiese o celle del luogo, altrimenti l’anonimo cronista, da buon monaco (?), non avrebbe mancato di annotarlo, come invece ha fatto quando ha narrato la scorribanda saracena dell’846 presso le celle di S. Apollinare, S. Stefano, S. Giorgio: dunque siamo proprio agli albori della formazione dei centri abitati della Terra di S. Benedetto.
Per concludere: gli Atinati, hanno mai pensato a quale devastazione si sono risparmiati grazie all’errore (voluto o casuale) di uno sventurato vecchietto? Non sarebbe il caso di ricordare quest’ultimo con una targa all’angolo di una via di Atina?

1 G. Carettoni, Casinum, Istit. di Studi Romani, 1940, pagg. 21-22.
2 Secondo Suso Brechter, in Montecassinos erste Zerstörung, SMGB 56 (1938), ma la data è da ritenere comunque convenzionale.
3 Il monastero era stato costruito dai monaci di Montecassino sulle rive del fiume Rapido, dove ora sorgono la chiesa collegiata di S. Germano e la curia vescovile (a quel tampo il Rapido lambiva i piedi di Rocca Janula); lì risiedeva di preferenza l’abate.
4 Anonymus – Chronica S. Benedicti Casinensis, ed. Georg Waitz, MGH SS, Rerum Langobardicarum, Hannover 1878, pagg. 468-488, pag. 472; Leone Ostiense; Chronica Monasterii Casinensis, ed. H. Hoffmann, in M.G.H., Scriptores, XXXIV, Hannover 1980 (d’ora in poi solo Chron. Cas.), I, 26 e success.; M. Dell’Omo, Montecassino, un’abbazia nella storia, Montecassino 1999, pag. 28.
5 Chronica S. Benedicti Cas., cit., pag. 471: “Nam eo tempore dictus Radelchis princeps per Barensem Pandonem gastaldeum in ausilium sibi transmarinos invitabit Saracenos, qui diu erga Barim residentes, in tempesta videlicet noctis hora more solito nominatam rapuerunt civitatem”; cfr. L. Fabiani, La Terra di S. Benedetto, Montecassino 1968, I, pag. 28.
6 Chronica S. Benedicti Cas., cit., pag. 472: “Cum his quoque Radelchis totam devastavit Siconolfi regionem Capuamque primariam universam redegit in cinerem”.
7 Ibid.; “His diebus Saraceni egressi Romam, horatorium totum devastaverunt beatissimorum principis apostolorum Petri beatique ecclesiam Pauli”.
8 Ibid.; anche L. Fabiani, op. cit., I, pag. 29.
9 Radelchi et Siginolfi principum divisio ducatus Beneventi, in M.G.H., Legum, III, pagg. 2221 e sgg.; Chron. Cas., I, 29; Fabiani, op. cit., pag. 29, preferisce datare la divisione all’849.
10 Chronica S. Benedicti Cas., pag. 479, 20; Chron. Cas., I, 33; vd. Anche A. Pratesi, in Dizionario Biogr. degli Italiani, 9, s.v. Bertario; T. Leccisotti, Montecassino, X ediz. 1983, pag. 37-43; M. Dell’Omo, op. cit., pagg. 28-29.
11 Ibid.
12 Chron. Cas., cit., I, 35.
13 La data non è del tutto certa, la si fa capitare tra l’859 e l’866; quest’ultima è da considerare come terminus ante quem secondo H. Hoffmann, op. cit., I, 35, pag. 97, nota 18, ma H. Bloch in “Monte Cassino in the Middle Age”, I, 1986, pag. 196 la pone all’anno 867.
14 I Chronica dell’Anonimo furono scritti intorno all’872.
15 Lo stadio romano, adottato dai Longobardi, era di m. 185, 25).
16 Probabilmente seguendo percorsi montani lungo i quali poi sorsero i centri abitati di Acquafondata, Cardito, S. Biagio Saracinisco.
17 Chron. Cas. I, 10.
18 Chronica S. Benedicti Cas., pag. 478: “Initium siquidem tunc erat quadragesimae sanctae. Eo autem die sanctam dominicam more solito Berthari abbas suum exortabat divinis praeceptis beatissimum gregem. Cuius vicinitatem cum certo fratres comperissent, concito gresu ad Sanctum conscenderunt Benedictum. Sequenti die Mercoris nefandus ipsius regis exercitus secus Sancti Benedicti pervenit monasterium, haud non longe quasi stadia dua. Hoc est, dum vellent Saraceni per montes descendere Atinen, hic qui eos deducebat descendit cum eis in vallem Rotundam, dehinc in Rapidum. Cumque in planitiis devenissent, praedari coeperunt. In sancti aecclesiam dum introissent Heliae, parum aliquod damnum ibidem facientes, per Circlarias in Ortum dominicum, et per Pascarium in Fontanam Lucii, abhinc Peolem, ibidemque senem ante cancellos interfecerunt, qui eorum fallitus est viam. Cesam Constantii, Olibetum, Matronolam loca perscrutantes, omnes iumentas et vaccas monasterii auferentes, ad socios in Benafrum iam sero reversi sunt. Hic finis in his fuit, Deo propellente partibus beati Benedicti tam Seodan regis quamque omnium satellitum eius”.
19 Marco Lanni, S. Elia sul Rapido, Napoli, 1873.
20 Luigi Fabiani, op. cit, pag. 31.
21 Chron. Cas., cit., I, 35: “Erat tunc initium quadragesimalium dierum, timentesque Monachi nefandissimi, ac pessimi illius propinquitatem, omnes sursum ad Beatum Benedictum se contulerunt. Post paucos dies venit prope monasterium, quod deorsum erat (il monastero del Salvatore, che sarà, in seguito, la sede della chiesa attuale di S. Germano), nequam illius exercitus, quasi stadia duo, quod tamen ductoris evenit errore. Namque dum vellent per montana ad Atinam descendere, vetulus quidam, qui eorum ductor erat, descendit cum eis in Vallem rotundam, dehinc in Rapidum. Cumque in plana venissent, ingressi Ecclesiam sancti Heliae tulerunt quod invenerunt. Inde per Circlarias in Ortum Dominicum, perque Pascuarium in Fontana Lucii, venientesque Peolam, senem illum, qui eorum viam fefellerat, interfecerunt. Demum cesam Constantii, olivetum, nec-non et Matronulam sollicite perscrutantes, vaccasque Monasterii, et equas, quotquot invenerunt diripientes, Venafrum ad suos reversi sunt, nec multo post Barum regressi.” Il passo è stato tratto interamente dalla Chronica S. Benedicti Casinensis, pag. 478, con trascurabili variazioni.
22 A. Della Noce, nelle note alla sua edizione del Chronicon (Parigi 1668, I, 35, nota h), nota g, ancora ai suoi tempi li trova abbastanza rispondenti: “… nomina adhuc retinent, non tamen universa”: conservano ancora i nomi, anche se non tutti.
23 G. Lena, Scoperte archeologiche nel Cassinate, Lamberti, Cassino1980, pag. 16.
24 Chron. Cas., II, 13, pag. 192.
25 Loc. cit. “Hic abbas fecit libellum quibusdam nostratibus iuxta tenorem abbatis Aligerni et posuit eos circa sanctum Heliam, ut et ipsam ecclesiam a barbaris destructam restaurarent et terras in circuitu eius iuxta terminos statutos excolerent”; L. Fabiani, op. cit., pag. 60, colloca il ripopolamento al 991.
26 L. Fabiani, op. cit., pag. 60, si rifà, invece, all’incursione dell’866.
27 Ibid., II, 67, pag. 302; L. Fabiani, op. cit., pag. 70.
28 Vd. E. Pistilli, Le chiese di Cassino, Origini e vicende, ed. Ugo Sambucci, Cassino 2007, pagg. 206-208; anche Angelo Della Noce, loc. cit., scrive: “Peolam: pagus erat prope olivetum Sancti Michaelis, ut ex ruderibus, adhuc extantibus, apparet”: Peola: era il villaggio presso l’oliveto di S. Michele, come si deduce dai ruderi ancora esistenti.; A. Caplet, Regesti Bernardi I Abbatis fragmenta, Tipografia Vaticana, 1890, pag. 58, n. 114, nomina una “villa Peole” in contrada S. Michele; H. Hoffmann, Chron. Cas., I, 35, nota 26, pone Peola “presso S. Michele a N.O. di Cervaro”.
29 Mi riferisco qui alle discussioni da me avute sull’argomento con i cultori di storia locale negli anni Settanta: non esistono pubblicazioni al riguardo, se si eccettua l’articolo del prof. Antonio Giannetti, Un’epigrafe di Diana Karena sulla base di un’ara, in “La Gazzetta Ciociara”, Frosinone, 1979, n. 7, da cui si vuol rilevare l’origine dell’appellativo Karias di “Apollo Kario”, donde, per metatesi, l’omonimo monte Cairo; cfr. anche Gaetano Lena, op. cit., pag. 7, nota 11.
30 Collina e piccolo centro abitato sulla via Cassino-Caira.
31 In Regesti Bernardi I Abbatis fragmenta, op. cit., n. 432, pag. 188 troviamo la località “Cerclara”.
32 In Chronica S. Benedicti Cas., cit., pag. 478, si legge “per Pascarium”.
33 Nei documenti cassinesi troviamo spesso il toponimo “Piscaria”, come luogo di pesca: si veda ad esempio in Regesti Bernardi I, cit. pag. 210, nota 1 (sec. XIII), che, molto probabilmente, si riferiva alla località dell’odierna S. Pasquale.
34 Il primo ad esporre l’esigenza di utilizzare le acque della sorgente di Capo d’Acqua per alimentare l’acquedotto comunale di Cassino fu l’avv. Caio Fuzio Pinchera, sindaco di Cassino dal 1910 al 1919, nella sua relazione al consiglio Comunale del 26 febbraio 1907, quando egli era Assessore ai Lavori pubblici e Sindaco Antonio Martire: Risanamento della Città di Cassino, pag. 18 e sgg.
35 H. Hoffmann in Chron Cas., I, 35, nota 27.
36 Leccisotti-Avagliano, I Regesti dell’Archivio, XI, Roma 1977, pag. 14, n. 18 (4383), pag. 81, n. 172 (4537), pag. 138, n. 312 (4677).
37 Chron. Cas., I, 68, pag. 304, come “Cervarium oppidum”.
38 A. Pantoni in “Bollettino Diocesano di Montecassino”, n. 2/1968, pag. 68.
39 H. Bloch in “Monte Cassino in the Middle Age”, cit., pag. 195.
40 Chron. Cas., I, 5, pag. 26.
41 Per la questione si veda E. Pistilli, “I confini della Terra di S. Benedetto, dalla donazione di Gisulfo al sec. XI”, CDSC onlus, Cassino 2006, pagg. 23-24.

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