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Studi Cassinati, anno 2008, n. 4
di Fernando Riccardi
La corposa documentazione conservata nei vari fondi dell’Archivio di Stato di Caserta relativa ai ‘fatti briganteschi’ che interessarono Casalvieri nel periodo post-unitario, segue praticamente tutta l’evoluzione del fenomeno, dalle origini fino al suo definitivo assopimento. Abbiamo scelto di fermare la nostra attenzione su di un accadimento che si verifica nei primi giorni dell’ottobre 1860, utile per fotografare la situazione che va maturando in quel periodo nelle province poste più a nord dell’ex regno di Napoli e, particolarmente, nell’alta Terra di Lavoro. Per inquadrare il contesto storico e cronologico dell’evento, occorre ricordare che il 6 settembre del 1860 il re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia di Baviera lasciano in tutta fretta Napoli e si rifugiano prima a Gaeta e poi a Roma1. Il giorno seguente Garibaldi fa il suo ingresso trionfale nella capitale del sud. Tutta l’Italia meridionale è ormai nelle mani dei garibaldini. Soltanto una parte degli Abruzzi e la Terra di Lavoro, al di là del Volturno, sulle cui sponde si sono ammassate le truppe borboniche superstiti, continuano a rimanere fedeli al Borbone, unitamente alle fortezze di Gaeta, Civitella del Tronto e Messina. La decisiva battaglia del Volturno (1-2 ottobre), dove il contrattacco dei soldati napoletani, sia pure con grande fatica, viene arginato, accelera sensibilmente il processo di unificazione. Dopo i plebisciti2, il 26 ottobre, a Teano o giù di lì, Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II di Savoia. Il 2 novembre cessa la resistenza di Capua. Il 7 Vittorio Emanuele fa il suo ingresso a Napoli. Garibaldi, invece, abbandona la città (9 novembre) e si ritira a Caprera3. Luigi Carlo Farini viene nominato luogotenente generale di Napoli4. Da questa sintetica ricostruzione si evince come l’evento oggetto della nostra attenzione si verifica a Casalvieri pochi giorni dopo la battaglia del Volturno, in un momento di grande confusione, quando ancora non appare chiaro lo sviluppo preciso della situazione. La gran parte dell’alta Terra di Lavoro non è stata raggiunta dai reparti garibaldini e in molti non conoscono l’esito dello scontro finale. E’ probabile che anche Casalvieri si trovi in una situazione del genere, con le notizie che, frenetiche e contraddittorie, lasciano la popolazione confusa e disorientata. Proprio in tale contesto si verifica quello che, qualche mese dopo, la Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro configura come un “attentato nello scopo di distruggere il governo del Re Vittorio Emmanuele e ripristinare quello di Francesco 2°”5. Autore di questo tentativo di sommossa filo-borbonica un tal Michele Cembrola, “sergente dell’ex gendarmeria stanziato una volta in Arpino”. Egli, ai primi di ottobre del 1860 (i testimoni ascoltati nel dibattimento parlano del giorno 6 o 7), si reca, con alcuni compagni, a Casalvieri “per eseguire il disarmo ordinato da La grange ed in tale occasione esternò l’idea di andare molto bene le cose di Francesco secondo e che il generale Bosco aveva già conquistato L’Aquila”. Nella ricostruzione dei fatti operata dal regio giudice del circondario di Arpino nel gennaio del 1861, si sottolinea come il Cembrola “facendo parte dell’orda comandata dal famigerato Lagrange che ha desolato questo distretto per abbattere il governo di sua maestà il Re Vittorio Emmanuele, inveiva contro tutti coloro ch’eransi mostrati favorevoli alla causa italiana, recavasi in Casalvieri per eseguire arresti e faceva quanto di criminoso potevasi escogitare per ripristinare il caduto governo borbonico”. L’episodio, dunque, va ad inquadrarsi nella ‘spedizione Lagrange’, un tentativo messo in piedi dal governo borbonico nell’intento di risollevare le sorti di una situazione ormai disperata, quando ancora le truppe napoletane del generale Ritucci sono attestate lungo la linea del Volturno. Gli eserciti piemontesi di Cialdini e Fanti che scendono dal nord, dopo aver occupato le Marche e l’Umbria, sconfitti i papalini a Castelfidardo (18 settembre 1860), si apprestano ad invadere ciò che resta del regno di Napoli, ossia gli Abruzzi e la Terra di Lavoro, prendendo alle spalle le truppe sul Volturno. Per scongiurare la minaccia Francesco II ordina al generale Luigi Scotti Douglas e al barone colonnello Teodoro Federico Klitsche De Lagrange di marciare in direzione degli Abruzzi con reparti di truppa regolare e con il prezioso contorno di volontari raccolti cammin facendo, la cosiddetta ‘truppa a massa’6. Il colonnello organizza una brigata di 4 battaglioni e il 29 settembre parte da Itri alla volta di Sora. Lagrange ha inoltre intenzione di procurare “lo scioglimento della Guardia Nazionale e ripristino dell’Urbana, abolizione dei governi provvisori, arresto degli oppositori, requisizione di denaro pubblico, rispetto dell’ordine e della religione”7. Il 30 settembre la truppa borbonica giunge ad Arpino, Isola del Liri e Sora, ristabilisce il vessillo di re Francesco e va alla caccia dei reazionari liberali. Di qui la ‘missione’ del sergente Cembrola in quel di Casalvieri. “Il di lui incarico non era quello di eseguire il disarmo per ordine del colonnello Della Grange e che effettuò … cercava di molestare qualche liberale … avendo del livore con tal Pasquale Colella anche liberale, lo andava rintracciando per arrestarlo”. Un comportamento, quindi, perfettamente in linea con le ‘istruzioni’ impartite da Lagrange 8. Le testimonianze raccolte dagli inquirenti sulle azioni del Cembrola, successivamente assicurato alla giustizia e rinchiuso nel carcere di Santa Maria di Capua (l’odierna Santa Maria Capua Vetere), sono però contraddittorie. Infatti, se alcuni attestano che il sergente più volte abbia asserito “essere molto meglio il governo di Francesco secondo e che immancabilmente quello doveva essere il re di Napoli”, altri invece riferiscono di non aver udito dalla sua bocca propositi eversivi. C’è discordanza anche sulla attività di reclutamento a beneficio di Lagrange che il Cembrola avrebbe compiuto in quel frangente. Alcuni testimoni affermano che egli “unitamente ad altri gendarmi procurava arrollare gente per andare contro l’attuale governo” per la qual cosa “molti individui si arrollarono andando posteriormente in Sora, onde unirsi alla banda armata in quell’epoca diretta da Della Grange”. Altri sostengono che il Cembrola non fece niente di tutto ciò, dimostrando, anzi, di non essere affatto ostile al nuovo ordine di cose. Altri ancora, infine, riferiscono che “il Cembrola trovata aperta la caserma dovendosi mettere la Guardia Nazionale provvisoria di allora, fece non poco chiasso, soggiungendo la espressione fra giorni ce la vedremo”. Quale fu il comportamento dei giudici di fronte a queste risultanze testimoniali così contraddittorie? La sentenza, emessa dalla Gran Corte Criminale9 di Terra di Lavoro, presieduta dal giudice Fabrocini, il 23 marzo del 1861, “considerando che la istruzione non offre indizi sufficienti a tradurre in regolare giudizio l’imputato … a voti uniformi ordina conservarsi gli atti in archivio e che il Cembrola sia posto in libertà provvisoria”. Si tratta, in parole povere, di un proscioglimento per mancanza di prove certe e inconfutabili. Né la sentenza rimane isolata. Qualche mese dopo, infatti (27 giugno 1861), la Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro, presieduta dallo stesso giudice Fabrocini, proscioglie dall’accusa di “attentato avente per oggetto di distruggere l’attuale governo eccitando i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro lo stesso” il contadino roccaseccano Livio Mancini il quale aveva preso parte alla ‘spedizione Lagrange’10. Prima di concludere, due parole sull’epilogo del tentativo del barone prussiano. Dopo aver restituito il sorano all’autorità borbonica, il 5 ottobre Lagrange, con due battaglioni e due cannoni, si incammina in territorio abruzzese, procedendo lungo la valle di Roveto. Garibaldi, però, conosciuta la minaccia, ordina a Teodoro Pateras e a Giuseppe Fanelli di marciare con i loro uomini (400 Cacciatori del Vesuvio e 300 della Legione del Sannio) su Avezzano dove giungono il 3 ottobre. Lì trovano un centinaio di volontari che avevano seguito l’industriale arpinate Giuseppe Polsinelli11, riparatosi in Abruzzo per sfuggire ai filo borbonici. Lagrange intanto, dopo aver fatto sosta in Balsorano, il 6 ottobre giunge a Civitella Roveto dove avevano preso posizione gli uomini di Fanelli. Inevitabile lo scontro con i garibaldini che si ritirano con molte perdite in Pescocanale. Un ruolo decisivo nella vittoria borbonica svolge Luigi Alonzi, alias Chiavone12 che, camminando sulle montagne parallelamente al Lagrange, partecipa allo scontro con la sua banda di ‘selvaroli’. Il 9 ottobre a Sora giunge, passando per San Germano (l’odierna Cassino), il generale Scotti-Douglas. Torna in città anche la vittoriosa truppa di Lagrange la qualcosa è fonte di disordini, specie per le ruberie e i soprusi delle masse indisciplinate. Il 19, dopo un viaggio a Gaeta (sembra che anche il sergente Cembrola si sia recato a prendere ordini nella fortezza pontina), il colonnello Lagrange parte di nuovo per Avezzano. Il generale Douglas, invece, marcia alla volta del Molise e il 20 ottobre, al Macerone, si scontra con le truppe piemontesi di Cialdini riportando una rovinosa sconfitta. Lo stesso generale borbonico viene fatto prigioniero. Il 26 ottobre, giorno dell’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, Lagrange che si trova vicino L’Aquila, riceve l’ordine di ritirarsi dagli Abruzzi. Senza la copertura delle truppe di Douglas rischia di essere preso in mezzo e annientato dai piemontesi. Tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre la variegata compagnia di Lagrange ritorna nel sorano. Passando per Arce e Isoletta il colonnello si inoltra nello stato romano e il 6 novembre 1860, giunto nei pressi di Frosinone, scioglie definitivamente la sua brigata. Termina così l’avventura dei borbonici che pure era iniziata con buone prospettive. Ai componenti della ‘massa’ non resta che deporre le armi. Qualcuno si ferma in territorio papalino e trova impiego nelle opere di bonifica o nella costruzione della ‘strada ferrata’13. Altri tornano nei rispettivi paesi di origine. Altri ancora si danno alla macchia, fuggono in montagna e diventano briganti. Proprio da questo momento inizia, prospera e si intensifica quel fenomeno che interesserà la parte meridionale del nostro paese e che, tra recrudescenze e assopimenti, andrà avanti per tutta la durata del travagliato decennio post-unitario.
1 “Ospiti di Pio IX al Quirinale e poi a Palazzo Farnese i Borboni rimasero a Roma nove anni, cioè fino all’ingresso delle truppe italiane. E in tutto quel tempo, ma più particolarmente nei primi anni, tentarono con ogni mezzo di mantener viva la fiamma della reazione e di ostacolare il compimento delle aspirazioni nazionali. L’anima di questa reazione fu sempre Maria Sofia, giovane, bella, vivacissima e soprattutto di gran lunga superiore al marito per educazione e per intelligenza … Ed a Palazzo Farnese continuò ad essere regina, tenendo presso di sé i suoi ministri, abboccandosi coi capi della reazione e perfino coi peggiori elementi di essa onde affermare con la volontà anche i suoi implacabili diritti di sovrana di Napoli” (Cesare Cesari: “Il brigantaggio e l’opera dell’Esercito Italiano dal 1860 al 1870”, II edizione, Ausonia, Roma MCMXXVIII, p. 18). “Gli storici dei vincitori lo ridicolizzavano, ma lui (nda: il re Francesco II) non si rassegnava alla perdita del suo regno, mantenne in carica un Consiglio dei ministri e ricevette regolarmente fino al 1867 le rappresentanze diplomatiche degli Stati Europei” (Ottavio Rossani: “Stato, società e briganti nel Risorgimento italiano”, Pianeta Libro Editori, Lavello 2002, p. 19). Con il trascorrere degli anni però anche i fieri proponimenti di ‘Franceschiello’ e di Maria Sofia dovettero piegarsi alle ineluttabilità degli eventi che marciavano rapidamente verso la definizione della cosiddetta ‘questione italiana’. Nel 1867 venne sciolto il governo in esilio. Era la fine del sogno del riscatto borbonico. Nel 1869, qualche mese prima dell’irruzione dei bersaglieri italiani (20 settembre 1870), Francesco II abbandonò Roma e si rifugiò ad Arco di Trento dove morì nel 1894.
2 I plebisciti nell’ex regno di Napoli si svolsero il 21 ottobre del 1860. Sia in quello relativo alle province napoletane che nell’altro riservato alla Sicilia, fu schiacciante la maggioranza di coloro che si espressero per l’annessione allo stato italiano. Si registrò in quella occasione una percentuale che oggi si definirebbe ‘bulgara’, dalla quale non possono non scaturire perplessità e dubbi. “I plebisciti furono una farsa dovunque, ma soprattutto al sud dove ebbero diritto al voto (compresa la Sicilia) 2.225.000 elettori (su base censuaria) su circa 9 milioni e mezzo di abitanti. Votarono 1.745.128, di cui favorevoli all’annessione 1.734.826. Questi plebisciti agli occhi dell’Europa volevano essere una dimostrazione di democrazia: a parole il re di Sardegna avrebbe accettato l’annessione dei nuovi territori solo se ci fosse stato il consenso dei cittadini. Una falsità. Le consultazioni si fecero con i votanti che dovevano entrare nella stanza delle urne in mezzo a due ali di garibaldini vocianti e minacciosi e comunque il voto era controllabile. All’estero però contava l’immagine: la gente aveva votato per entrare nel nuovo stato. Questo legittimava le annessioni degli Stati preunitari al Regno di Sardegna” (Ottavio Rossani, op. cit., pp. 143/144). Più di qualche perplessità sullo svolgimento dei plebisciti traspare anche da Francesco Barra: “Le operazioni elettorali vennero perciò tenute senza alcuna garanzia di libertà d’espressione, il voto fu palese e non segreto, non vi fu alcuna corrispondenza fra iscritti nelle liste elettorali e votanti, e le stesse operazioni di scrutinio furono quasi ovunque grossolanamente falsificate” (Francesco Barra: “Brigantaggio in Campania” in “Archivio Storico per le province Napoletane” a cura della Società Napoletana di Storia Patria, volume CI (1983), anno XXII, Napoli 1985, p. 89). Si registrano, secondo i dati ufficiali, 1.302.724 si, contro soli 10.328 no, “troppo palesemente assurdi nella loro esiguità”. Vi fu nel contempo una percentuale elevatissima di astensioni; “a ragione dunque l’ambasciatore inglese Elliot poteva riferire il 10 novembre al suo governo che i risultati del plebiscito rappresentavano appena il 19% degli elettori” (Francesco Barra, op. cit., p. 90). In alcune province poi non si votò affatto. “In buona parte della Terra di Lavoro al di là del Volturno, ancora occupata dall’esercito borbonico, non si poté naturalmente procedere alle operazioni elettorali, per cui si votò soltanto in 89 comuni dei 238 che contava la provincia” (Francesco Barra, op. cit., p. 90).
3 Garibaldi, risalendo la Penisola alla testa delle sue camicie rosse, aggregò attorno a sé migliaia di contadini e di popolani attratti dalla promessa della distribuzione delle terre. Il generale si era fatto paladino di una vera e propria rivoluzione liberale che, spazzati via i Borbone dal meridione, avrebbe procurato il benessere e l’emancipazione delle classi più umili. Le cose però non andarono così. Le terre vennero ridistribuite ma finirono in gran parte nelle mani dei ricchi latifondisti borghesi del sud che aumentarono la loro posizione di privilegio. I contadini invece diventarono ancora più poveri e affamati. Oltre a non possedere il denaro per acquistare le terre, vennero a perdere anche quella preziosa risorsa degli usi civici sulle proprietà demaniali che, per secoli, aveva costituito l’ancora di salvezza per i ceti più umili (diritto di legnatico, di pascolo, di foraggio ecc.) e che, tutto ad un tratto, il nuovo governo abolì di sana pianta. Di fronte a questo oltraggio Garibaldi non riuscì a fare buon viso a cattivo gioco specie perché avvertiva la delusione profonda di tante migliaia di contadini e di ‘bracciali’ che lo avevano seguito con entusiasmo nelle varie tappe della sua impresa. E così, consegnato il regno a Vittorio Emanuele II, ritenne ultimata la sua missione e preferì ritirarsi nella quiete di Caprera. “Questi si congedò dai suoi uomini da solo e senza squilli di tromba perché Farini aveva perfino proibito il famoso inno …Farini vietò al Giornale Officiale di dare notizia della partenza di Garibaldi per Caprera” (Indro Montanelli: “Storia d’Italia”, volume 31, “L’unità d’Italia”, Fabbri Editore, Ariccia 1995, p. 126). Ma il peggio doveva ancora venire. Tanti contadini, viste svanire come neve al sole le fulgide illusioni, non se la sentirono di ritornare alla grama esistenza di un tempo e scelsero di salire sulla montagna, andando ad ingrossare le fila del brigantaggio. In tal modo molti garibaldini divennero briganti e si trovarono a combattere una lotta all’ultimo sangue contro i compagni di avventura di qualche tempo prima.
4 L’approccio del primo luogotenente di Napoli con la difficile realtà meridionale non fu dei migliori. In una lettera inviata a Cavour il 27 ottobre del 1860, Farini così si esprimeva: “Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile” (Ottavio Rossani, op. cit., p. 23). Né migliore era l’opinione di coloro che si recavano nel sud per mantenere l’ordine pubblico. Alcuni carabinieri genovesi, destinati nel 1862 alla repressione dei briganti, dicevano di andare “a combattere il brigantaggio ed in questo modo …faremo la nostra scuola d’Africa” (Franco Molfese: “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, Feltrinelli, Milano 1964, p. 89).
5 Archivio di Stato di Caserta (ASC), Gran Corte Criminale, II camera, I° inventario, busta 165, fasc. 2551, “Cembrola Michele, preparativi di rivolta filoborbonica. Casalvieri” (1860).
6 “Il 23 settembre, poi, era già formata una brigata su quattro battaglioni di sei compagnie ciascuno, il cui nucleo era composto di gendarmi fuggiti dalla Sicilia e di soldati precedentemente sbandatisi e rientrati poi nei ranghi, ai quali erano state aggregate numerose e fitte squadre di contadini di Terra di Lavoro, reclutati col miraggio di una paga e del bottino e armati alla meno peggio” (Franco Molfese, op. cit., p. 14).
7 Michele Ferri-Domenico Celestino: “Il brigante Chiavone. Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia 1860-1862”, Edizione Centro Studi Cominium, Sora 1984, p. 57.
8 Per regolamentare l’attività dei volontari di Lagrange, a firma del ministro della Polizia Generale Cav. Pietro Ulloa, vengono emanate delle precise ‘istruzioni’ condensate in 10 punti. “1) Ricostruire il governo di Sua Maestà ed a tale scopo rimuovere le autorità costituite dal governo rivoluzionario, sostituendovi e le preesistenti al 20 giugno (nda: 1860) o altre che dassero garanzia di devozione pel Real Governo; 2) Procedere al disarmo delle Guardie Nazionali, componendo un corpo limitato di guardie di sicurezza provvisorie pel servizio interno, componendole di buona parte degli antichi urbani, ed armando co’ fucili del disarmo del resto degli abitanti i volontari che si aggregheranno alla colonna; 3) Impadronirsi delle casse pubbliche, esigere gli arretrati ed inviare con sicurezza il danaro o in questa Real piazza (nda: Gaeta) o nel capoluogo di distretto più vicino ove sarà consegnato al ricevitore; 4) Usare con prudenza e cautela, nel caso di urgenza, del diritto di imporre tasse, facendo giungere in questa piazza lo stato di quello che si è esatto, e di quello che ha potuto servire ai bisogni de’volontari; 5) Ove non fosse possibile esiger tutto in danaro, esigere l’equivalente in cereali, inviandoli ne’luoghi di quella provincia ove sono stanziate le regie milizie; 6) Arrestare tutti coloro che opponessero resistenza alla colonna, e tutti coloro che potessero ordinarla alle spalle, quando la colonna avesse lasciato i paesi occupati; 7) Arrestare egualmente coloro che potessero agitare lo spirito pubblico in un senso contrario al governo, ed inviargli indietro ne’luoghi sicuri; 8) Tenersi in istrette relazioni e corrispondenze con coloro che propugnano la regia causa; 9) Soprattutto fare che sia conservato l’ordine, il rispetto della religione, a’ ministri del santuario, ecc; 10) In tutte le proclamazioni, invocare l’antica fedeltà degli abitanti verso S.M., l’avversione contro gli invasori del Regno, senza far motto d’instituzioni pubbliche, le quali, dipendendo dal Re, non bisogna intorno l’avvenire svegliar apprensioni o timori da un lato né smodate passioni da un altro. N.B.: L’intera libertà di movimento al comandante; mantenimento delle colonne a spese delle casse comunali e provinciali. Il Ministro della Polizia Generale Cav. Pietro Ulloa” (Michelangelo Schipa: “Un documento inedito dell’ultimo ministero di France-sco II di Borbone” in “Rassegna Storica del Risorgimento”, anno III, fasc. I e II). Un riferimento all’impresa di Lagrange è contenuto anche nella relazione della commissione d’inchiesta parlamentare letta alla Camera dei Deputati da Giuseppe Massari il 3 e 4 maggio 1863. “Nell’ottobre del 1860 la bandiera borbonica sventolava ancora sulle mura di Capua: dalla riva destra del Volturno fino al confine romano regnava ancora Francesco II: ed in quell’andar di tempo per l’appunto si formavano le bande del Lagrange, le quali si reclutavano fra i contadini più miseri e più cenciosi di quella parte di Terra di Lavoro, e recavano dovunque passavano la devastazione ed il saccheggio; assalivano parecchi paesi, fra’quali la città di Arpino, che strenuamente difesa dai suoi cittadini, le sbaragliava e le respingeva. Il contadinume fu dovunque aizzato ed associato i gendarmi ed alle truppe” (“Il palazzo e i briganti. Il brigantaggio nelle province napoletane”, Pianetalibroduemila, Lavello 2001, p. 51).
9 Il decreto n. 36 del 14 settembre 1860 emanato da Garibaldi, estendeva al meridione lo Statuto Costituzionale vigente nel resto d’Italia. L’art. 70 di tale Statuto stabiliva che in via provvisoria fossero conservate le istituzioni giudiziarie in vigore nell’ex regno di Napoli. “Al vertice dell’ordinamento giudiziario del Regno di Napoli vi erano le Corti Supreme di Giustizia di Napoli e Palermo istituite per garantire l’esatta osservanza delle leggi e, come l’odierna Cassazione, non conoscevano del merito delle cause ma della conformità delle sentenze della legge. Nel merito, invece, erano competenti le Gran Corti Criminali che, a Napoli come in Terra di Lavoro, erano divise in due camere. Esse furono istituite in ogni provincia o Valle e nella stessa sede del tribunale civile. Le Gran Corti Criminali erano giudici di primo ed ultimo grado dei misfatti … erano composte, di regola, da un presidente, sei giudici, un procuratore ed un cancelliere … per alcune materie, come nei misfatti contro la sicurezza esterna ed interna dello Stato, nei misfatti di falsità di moneta, di carte, di bolli, nei misfatti di associazione illecita, nei misfatti di pubblica violenza come quello di comitiva armata o quelli commessi da tali comitive … nei misfatti di evasione da luoghi di pena e di custodia erano competenti le Gran Corti Speciali” (ASC, Introduzione a “Processi politici e di brigantaggio” a cura di Remo Stella, Archivista di Stato, pp. 4/5). La fase provvisoria durò per qualche mese. Il 16 e il 17 febbraio del 1861, il principe Eugenio di Savoia Carignano, luogotenente di Napoli, emanava tre distinti decreti contrassegnati dai numeri 237, 238 e 239. “Con il primo si stabiliva che a partire dal primo luglio 1861 sarebbe entrato in vigore nelle Province Napoletane il codice penale in osservanza negli antichi Stati di S.M. ed in altre province con alcune modificazioni … Con il secondo si stabiliva che, a partire dalla stessa data, avrebbe avuto vigore, con alcune modificazioni, nelle Province Napoletane il codice di procedura penale del 20 novembre 1859. Con il terzo, infine, si approvava l’ordinamento giudiziario per le Province Napoletane con la corrispondente legge organica, nel quale si stabiliva, all’articolo uno, che sarebbe andato in vigore dal primo luglio 1861. Detta legge organica prevedeva all’articolo uno del Titolo Primo che la giustizia nelle materie civili e penali sarebbe stata amministrata nelle forme e secondo le competenze stabilite dalle leggi dai giudici conciliatori, dai giudici di mandamento, dai tribunali di circondario, dai tribunali di commercio, dalle corti di appello, dalle corti di assise e dalla cassazione” (ASC, Introduzione a “Processi politici e di brigantaggio”, op. cit., p. 6). E così in materia di brigantaggio la competenza passò dalle Gran Corti Criminali o dalle Gran Corti Speciali, alle Corti di Assise. “Le corti di assise, che si trovavano nell’ambito della giurisdizione di ogni corte di appello, erano composte da un presidente e di due giudici scelti tra i consiglieri delle corti di appello con decreto reale all’inizio di ogni anno giudiziario. Le assisi si tenevano ordinariamente ogni trimestre nelle città capoluogo di circolo. Le assisi straordinarie potevano essere convocate in ogni tempo con decreto del presidente della corte di appello, sia nelle città capoluogo, sia in qualunque altra città del circolo” (ASC, Introduzione a “Processi politici e di brigantaggio”, op. cit., p. 7). Per effetto della legge 17 febbraio 1861 Cassino, che fino al 1863 continuò a chiamarsi San Germano, divenne sede di tribunale nella provincia di Terra di Lavoro, andandosi ad affiancare a Santa Maria Capua Vetere. “La stessa legge del 1861 prevedeva in linea generale che le Assise potessero riunirsi, ove se ne ravvisasse l’opportunità, in un luogo diverso dalla loro sede istituzionale. Questo è appunto ciò che avvenne negli anni 1863-1865 per quel che riguarda Cassino … in S. Maria C.V. non esisteva un locale idoneo per la celebrazione dei processi in cui figurasse un gran numero di imputati e quindi in particolare di quelli per reati di brigantaggio, in cui gli imputati erano talvolta intorno al centinaio” (ASC, Prefazione a “Corte di Assise di Cassino”, p. 1). Dopo il 1865 “essendosi trovati in S. Maria C.V. locali idonei e spostatosi nel frattempo verso sud il baricentro del fenomeno brigantesco … la Corte di Assise tornò a riunirsi stabilmente nella sua sede naturale, fino al momento in cui venne istituita una seconda Assise nella provincia” (ASC, Prefazione a “Corte di Assise di Cassino”, op. cit., p. 2). Ciò accadde a partire dal 1873. Infatti quella che fino a quell’anno si chiamava “2^ Corte d’Assise Straordinaria del Circolo di S. Maria Capua Vetere sedente in Cassino”, dopo tale data si trasformò definitivamente in “Corte d’Assise di Cassino”.
10 ASC, Gran Corte Criminale, II Camera, I° Inventario, busta 188, fasc. 2915, “Mancino Livio, incitamento alla rivolta armata. Roccasecca” (1861). Su tale vicenda cfr. Fernando Riccardi: “Piccole storie di briganti”, Associazione Culturale “Le Tre Torri”, bollettino n. 2, anno VII, Tipografia “Arte e Stampa”, Roccasecca 2003, pp. 11/20.
11 “Giuseppe Polsinelli nacque in Arpino (Frosinone), da Francesco ed Elisabetta Tessa, nel 1782. Appartenne alla Carboneria italiana, ma nel 1820, avendo preso parte al movimento liberale, dové fuggire da Napoli, dove si era trasferito, e ritiratosi in Arpino, si dedicò con molta fortuna all’industria lanaria. Nel 1848 fu eletto Deputato e nel 1876 Senatore del Regno. Morì all’età di 98 anni, il 13 agosto 1880” (Willy Pocino: “I Ciociari dizionario biografico”, Edizione Piramide – Roma, Casamari 1961, p. 374). Quando la ‘massa’ di Lagrange, tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre del 1860, giunse ad Arpino, il Polsinelli, temendo le ritorsioni dei filo borbonici, preferì mettersi in salvo, trovando rifugio ad Avezzano. Portò con sé un centinaio di volontari che parteciparono, con scarsa fortuna, allo scontro del 6 ottobre a Civitella Roveto, che vide i garibaldini soccombere dinanzi alla truppa eterogenea di Lagrange.
12 Luigi Alonzi, alias Chiavone, nacque a Sora, in contrada La Selva, nel 1825. Suo nonno Valentino era stato uno dei più fedeli luogotenenti del famigerato Gaetano Mammone che tanto negativamente si era distinto nel 1799. Dopo l’avvento dei piemontesi e la fuga dei regnanti borbonici prima a Gaeta e poi a Roma, divenne uno dei più audaci sostenitori del deposto re Francesco II, nel sorano e nei paesi limitrofi. Messosi alla testa di un folto stuolo di ‘selvaroli’, iniziò a contrastare con le armi le iniziative del nuovo governo, rendendosi protagonista di numerose azioni che riscossero l’apprezzamento della centrale borbonica che, dall’esilio romano, dirigeva le operazioni legittimistiche nei territori dell’ex regno. Proprio in virtù delle sue azioni ri-cevette titoli altisonanti quali quello di ‘Generale’ e, persino, di ‘Comandante in capo delle truppe del Re delle Due Sicilie’, orpelli al quale Chiavone dimostrò sempre di essere molto sensibile. Ben presto, però, egli entrò in netto contrasto con la visione più militare e pragmatica degli altri capi legittimisti, specie stranieri, che erano giunti sulle montagne di Sora per coordinare le iniziative brigantesche. Nell’estate del 1862 i dissidi diventarono insanabili e culminarono con l’arresto dell’Alonzi. Un tribunale di guerra presieduto dal Tristany, condannò Chiavone alla pena di morte. Il 28 giugno, alle prime luci dell’alba, in una radura della valle dell’Inferno, un plotone di esecuzione eseguì, mediante fucilazione, la sentenza. Assieme a Chiavone fu giustiziato anche il fido segretario Lombardi. Qualche tempo dopo i loro corpi furono bruciati e del ‘generale’ Chiavone non rimase che uno sparuto mucchietto di cenere. “Il corpo di Chiavone fu sotterrato nei pressi di Trisulti e sopra il tumulo furono sparse ossa di montone abbruciate per far credere che quivi fosse stata uccisa una pecora. Così le ricerche dei soldati italiani riuscirono infruttuose e il terrore della sorte ignota del bandito continuò a manifestarsi fra le popolazioni e fra le truppe per parecchio tempo ancora” (Cesare Cesari, op. cit., pp. 102/103). Sulle ‘imprese’ di Chiavone cfr. Michele Ferri-Domenico Celestino, op. cit., e il più recente Michele Ferri: “Il Brigante Chiavone. Avventure, amori e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello”, Centro Sorano di Ricerca Culturale, Cassino 2001.
13 La ‘strada di ferro’ a cui si fa riferimento è la linea ferroviaria che il governo pontificio sta facendo realizzare in quegli anni da Roma verso il confine meridionale dello Stato, con capolinea Ceprano. La linea Ciampino-Ceprano venne completata nel gennaio del 1862. L’altro tratto fra Tora-Presenzano e Ceprano, nel territorio dell’ex regno delle Due Sicilie, che rendeva finalmente possibile il collegamento diretto fra Roma e Napoli, fu ultimato dal governo italiano poco più di un anno dopo (febbraio 1863), riprendendo i lavori messi in atto dai Borbone che avevano portato la ‘strada ferrata’ prima a Caserta (1843) e poi a Capua (1844). Il tratto da Capua a Presenzano, invece, fu realizzato nel 1861 (Dario Ascolano: “Storia di Roccasecca”, Cassino 1988, pp. 216/217). Moltissimi contadini della Terra di Lavoro, nel periodo estivo, confluivano nel vicino Stato Pontificio dove trovavano impiego nei lavori agricoli e di bonifica. A settembre “facevano ritorno ai loro paesi, divisi in compagnie, ciascuna guidata da un capo, autorizzato dai latifondisti dell’agro ad erogare loro, durante l’inverno, sussidi ed anticipazioni sul salario, oltre la caparra dell’ingaggio per l’anno successivo” (Francesco Barra, op. cit., p. 117). Superfluo sottolineare che, specie nei primi anni della reazione anti-unitaria, il brigantaggio pescò a piene mani proprio nella cospicua schiera dei lavoratori stagionali.
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