Studi Cassinati, anno 2007, n. 3
di Fernando Riccardi
Da che esiste il mondo le donne hanno sempre condizionato, nel bene o nel male, la vita dell’uomo. E non bisogna certo ritornare ad Eva che offre la fatidica mela del peccato ad Adamo per convincerci dell’inequivocabile assunto. Né bisogna credere che esse abbiano sempre svolto la serafica missione di angelo della casa e del focolare, attente soltanto alle giornaliere faccende domestiche. Niente di più sbagliato e di inesatto. Vi sono state donne, infatti, che si sono distinte anche in ambiti tipicamente maschili. Come al tempo della rivolta brigantesca quando i contadini del Sud presero le armi contro i Piemontesi che avevano invaso ‘manu militari’ il Regno di Napoli. Non c’era banda di briganti, piccola o grande, in cui il capo non avesse al suo fianco una donna; donna che seguiva dappertutto il suo uomo, anche quando si trattava di partecipare a marce estenuanti, nottate all’addiaccio, assalti e scontri a fuoco. Era, insomma, la donna del capo e, in quanto tale, andava rispettata, ossequiata e persino temuta. Vestita con abbigliamento tipicamente maschile, pantaloni, camicia, gilet e cappellaccio, con al cinturone pistola e pugnale, incuteva timore agli stessi briganti che pure non erano certamente degli agnellini. A volte esse erano molto più risolute e determinate dei loro compagni, con una tempra che destava, nello stesso tempo, ammirazione e spavento. Nella drammatica storia del brigantaggio post-unitario si incontrano parecchie di queste donne che i Piemontesi, con termine sprezzante e dispregiativo, chiamavano ‘drude’ ossia femmine di malaffare. Molte di esse sono cadute a fianco del loro uomo; altre hanno affrontato un lungo periodo di carcere duro, senza mai rinnegare la scelta, fatta, il più delle volte, solo per amore. Una pagina triste quanto poco conosciuta è il dramma di donne disperate che, mettendo da parte il ruolo tipico della rassegnazione, hanno scelto di seguire i loro uomini sulla montagna, svolgendo un ruolo attivo nella dilagante rivolta contadina.
Tra le più note, sicuramente, Maria Oliviero, detta Ciccilla, calabrese, una ragazza bellissima, dalle lunghe chiome nere e dagli occhi corvini, andata in sposa a Pietro Monaco, ex soldato borbonico datosi poi alla macchia. La sua crudeltà (per gelosia non aveva esitato ad uccidere la sorella che insidiava il consorte) spaventava gli stessi briganti che, in breve tempo, iniziarono a considerarla il vero capo della banda, specie dopo la morte del marito. Alla fine i soldati piemontesi riuscirono a catturarla e la gettarono in carcere dove persino la madre e i parenti si rifiutarono di andarla a trovare. Il processo, celebrato a Catanzaro, si concluse con l’inevitabile condanna a morte, commutata, poi, nel carcere a vita.
Anche il Lazio meridionale, territorio dove il brigantaggio, nel decennio post-unitario, raggiunse punte di particolare intensità e virulenza, ha conosciuto, le ‘gesta’ di alcune brigantesse.
Ad iniziare da Michelina De Cesare, compagna del brigante Francesco Guerra. Tanto bella quanto coraggiosa, seguì dappertutto il suo uomo condividendone la tragica fine. Nell’agosto del 1868 la banda Guerra fu sterminata, Francesco cadde morto sul campo e Michelina, ferita ma non doma, fu catturata dai militari sabaudi i quali non ebbero alcuna pietà. Sottoposta ad atroci sevizie ben presto rese l’anima a Dio; il suo corpo nudo e martoriato fu esposto al pubblico e lì rimase per parecchio tempo a dimostrare quale fosse la sorte riservata a coloro i quali infrangevano le regole dello Stato.
Non si puó, poi, non ricordare Olimpia Cocco di Scifelli, l’amante di Luigi Alonzi, alias Chiavone, il celebre brigante di Sora, nella cui abitazione gli insorgenti filo borbonici si riunivano spesso e volentieri, per studiare in tutta tranquillità piani e azioni belliche. Con il passare del tempo Chiavone, sempre meno propenso a scontrarsi con i soldati piemontesi sulle montagne, fece della casa e del talamo della conturbante Olimpia il suo quartier generale. Era soprattutto qui, accanto alla sua donna, protetto dagli uomini più fidati, che veniva a godersi le generose prebende che la centrale capitolina gli versava per incentivare la guerriglia contro le truppe sabaude lungo la linea di confine con lo Stato Pontificio. Ben presto, però, la situazione si fece insostenibile; gli stessi capi legittimisti, accortisi che Chiavone non aveva più tanta voglia di menare le mani, decisero di passare all’azione. E così, radunato un tribunale straordinario, senza frapporre indugio, lo rimossero dal comando delle masse sorane e lo condannarono a morte. Era l’estate del 1862. Ancora una volta, quindi, le grazie di una donna erano riuscite nella non facile impresa di ammorbidire l’animo di un brigante. Anche se, in questo caso, furono la causa prima della sua rovina.
E ancora Maria Capitanio di San Vittore del Lazio, figlia di un agiato proprietario terriero: si invaghì perdutamente di Agostino Luongo, seguendolo nella sua attività brigantesca. Catturata nel 1868 e sottoposta a processo, fu prosciolta da ogni incriminazione, soprattutto grazie all’intervento del ricco e influente genitore che, evidentemente, seppe oliare a dovere gli ingranaggi giusti. Per ottenere la liberazione della figlia il padre versò una cauzione di 1500 lire; tutto, però, risultò inutile. Non riuscendo a stare lontano dal suo spasimante sottoposto ad un regime carcerario particolarmente duro, Maria, poco dopo, si tolse la vita ingoiando dei pezzi di vetro.
Significativa, infine, la storia di Cristina Cocozza, amante del brigante di Colle San Magno Bernardo Colamattei, che fu catturata dai soldati piemontesi nell’aprile del 1868. Non potendo vivere senza di lei il feroce capobanda decise di deporre le armi e di mettere fine alla carriera di fuorilegge: pochi giorni dopo si costituì presso la stazione dei Carabinieri Regi di Sant’Elia Fiumerapido. È proprio vero, dunque, che al cuor non si comanda: e ciò è valso anche per i briganti.
Senza dimenticare, poi, tutte quelle donne di modesta estrazione sociale che, per sfuggire ad una vita grama, di stenti e di inenarrabili patimenti fisici e morali, presero la risoluzione di seguire i loro uomini, dandosi alla macchia e mettendosi, di fatto, nel bel mezzo di una strada pericolosa e, il più delle volte, senza ritorno.
Molte di esse, poi, non furono brigantesse ma soltanto mogli, compagne, amanti di uomini che avevano deciso di combattere gli ‘invasori’ nordisti. Un dramma nel dramma, dunque, consumatosi nell’indifferenza, nel silenzio e nel disprezzo. La storia, infatti, come sempre scritta dai vincitori, con un’energica sbianchettata, ha cancellato completamente queste tragiche e dolorose vicende, limitandosi a fare di tutta l’erba un fascio. E così quelle tante donne sono diventate ‘drude’, ossia prostituite, concubine, femmine di malaffare e da bordello, additate al pubblico ludibrio e alla più feroce esecrazione.
Ecco un’altra pagina del nostro passato che andrebbe, quanto meno, ‘sistemata’ tenendo conto dei documenti di archivio e del reale svolgimento degli eventi. Se poi si sarà in grado di non considerare più alla stregua di un intoccabile Vangelo la ridondante e ampollosa ‘vulgata’ risorgimentale che una storiografia ideologicamente indirizzata e troppo palesemente schierata ci ha propinato per così tanto tempo, si avvierà, di sicuro, quell’operazione verità che ormai da più parti, persino nell’ingessato mondo accademico, viene avvertita come una esigenza non più derogabile.
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