Remo Tagliaferri, l’eroe di Collepardo

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Studi Cassinati, anno 2008, n. 1

di Fernando Riccardi

L’articolo pubblicato di recente da Marcello Gelfusa (‘La Provincia’, n. 14/2008) avente ad oggetto la vicenda che ha visto protagonista il signor Remo Tagliaferri merita di essere approfondito. Già qualche anno fa ci siamo occupati dell’argomento: lo stesso Tagliaferri, vispo ultranovantenne abitante a Salerno, rilasciò al collega Gelfusa una intervista nella quale ricostruiva a grandi linee ciò che aveva fatto nel settembre del 1943 (‘Corriere del Sud Lazio’, n. 23/2003). La storia è ormai nota. Vale, però, la pena di ripercorrerla sinteticamente.
Remo Tagliaferri, classe 1916, nativo di Collepardo, agente di pubblica sicurezza, fin dal 1939 era tra le guardie (12 carabinieri e 15 poliziotti con 3 sottufficiali) preposte alla sorveglianza del campo di internamento di Campagna, località del salernitano molto vicina ad Eboli. Il campo allestito in due vecchi conventi, (S. Bartolomeo, oggi sede del museo civico, e Immacolata Concezione), di proprietà del comune, già utilizzati dagli allievi ufficiali del Regio Esercito, poteva ospitare 800 persone. Le condizioni di vita erano accettabili: in tre anni morirono solamente, e di tifo, due reclusi. “Gli internati – racconta Tagliaferri – potevano uscire tre volte al giorno, mattina, mezzogiorno e sera, ed erano liberi di camminare per il paese, entro i confini delimitati da strisce di calce e da cartelli scritti in cinque lingue”.
Il campo ospitava ebrei rumeni, russi, boemi, iugoslavi e, almeno all’inizio, anche un piccolo contingente di italiani. Fu soprattutto un luogo di transito con deportati che andavano e venivano.
Nell’estate del 1943 lì si trovavano 150 reclusi: i più provenivano dalla Germania e dall’Austria. Gli altri erano cechi, polacchi o ebrei di Fiume. Con l’armistizio dell’8 settembre le cose cambiarono radicalmente. I militari italiani dovettero cedere il posto ai reparti tedeschi.
Tagliaferri intuì subito la minaccia e, temendo per la sorte dei reclusi, d’accordo con il comandante del campo, lasciò aperto il cancello di San Bartolomeo facilitando la fuga dei prigionieri. E così, nottetempo, una cinquantina di ebrei prese il largo verso le montagne limitrofe. Nell’ex convento rimasero soltanto due anziani reclusi che non potevano muoversi. Il suo gesto eroico (i tedeschi gli dettero la caccia e lui si dovette nascondere per tre mesi “brancolando come un animale che fugge”) aveva salvato la vita a quei poveretti.
Nel 1953 il Parlamento d’Israele incaricava l’istituto Yad Vashem di Gerusalemme di accordare il termine di ‘Giusti tra le Nazioni’ a coloro che avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei dalla repressione nazista. In questo corposo elenco puó e deve trovare posto anche Remo Tagliaferri, come richiesto dal sindaco di Collepardo. Anche perché la sua, al di là dell’atto in sé, non fu una storia marginale.
E adesso vediamo il perché. Negli ultimi tempi, grazie anche ad una bella fiction televisiva, è stata riscoperta la figura di Giovanni Palatucci e il suo eroico impegno nel sottrarre gli ebrei al carnefice nazista.
Nato a Montella, nell’avellinese, nel 1937, fu trasferito a Fiume e qui divenne responsabile dell’ufficio stranieri, commissario e, infine, questore reggente. Pur iscritto al Pnf, Palatucci, fervente cattolico, non aveva condiviso le leggi razziali e si adoperava per attutirne le conseguenze.
Da subito si dette da fare per salvare gli ebrei (solo a Fiume ve ne erano 3.500) sottraendoli alle grinfie della Gestapo, anche se il suo impegno cozzava contro l’intransigenza del prefetto Temistocle Testa, inflessibile antisemita. Rifiutò persino il trasferimento a Caserta pur di continuare la sua opera.
È stato calcolato in più di 5.000 il numero di ebrei salvati da Palatucci nel corso della sua permanenza fiumana. Nel novembre del 1943 le cose precipitarono: Fiume passò sotto il comando tedesco e in città arrivarono le famigerate “SS”. Palatucci, pur avendo la possibilità di fuggire, decise di rimanere al suo posto.
Per lunghi mesi, lì dove lo stato italiano non esisteva più, a capo di una questura fantasma, continuò a nascondere e far scappare gli ebrei facendosi beffe dei nazisti. Bruciò gli schedari per impedire l’identificazione, dette soldi e viveri a chi si doveva nascondere, procurò il passaggio su navi dirette verso l’Italia meridionale.
Nel settembre del 1944 venne arrestato dagli agenti della Gestapo e rinchiuso nel carcere di Trieste. Fu poi trasferito nel campo di Dachau dove morì qualche mese dopo a soli 36 anni.
Nel 1990 lo Yad Vashem lo nominò ‘Giusto tra le Nazioni’ e nel marzo del 2004 Giovanni Paolo II lo proclamò Beato. A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: cosa c’entra Palatucci con Tagliaferri? I rapporti furono molto più stretti di quanto si possa immaginare. Quando nel 1940 scoppiò la guerra Palatucci riuscì ad inviare nel campo di Campagna, spesso anche via mare, numerosi ebrei. Proprio in quel campo dove Tagliaferri faceva il custode.
Giovandosi della preziosa collaborazione dello zio, mons. Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, il coraggioso avellinese fece giungere lì centinaia e centinaia di persone salvandole dai lager nazisti. “Sembra che Campagna fosse l’epicentro – scrive il collega Sergio De Gregorio – di un gigantesco piano di salvataggio architettato da Palatucci per salvare da sicura morte centinaia, forse migliaia di israeliti”. Piano che non si concretizzava solo inviando gli ebrei nel campo: gli stessi abitanti di Campagna accolsero molti di quei profughi nelle loro abitazioni, correndo rischi gravissimi. Circostanza che ha indotto il ‘Comitato Palatucci’ ad intraprendere presso lo Yad Vashem una pratica mirante a far attribuire a Campagna il titolo di ‘Città dei Giusti’. L’intesa con lo zio-vescovo era totale. Quando intuiva che gli ebrei correvano seri rischi li faceva trasferire nel salernitano. Stratagemma che riuscì fino al settembre del 1943 quando anche nel campo di Campagna arrivarono i tedeschi.
Ormai i due non avevano più spazio per manovrare. E fu allora che protagonista diventò Remo Tagliaferri di Collepardo. La decisione di far scappare i prigionieri rinchiusi in San Bartolomeo fu repentina quanto convinta: era l’unica maniera per sottrarre quei poveretti ad una sorte nefasta.
Egli, forse, non se ne rese conto ma aveva compiuto un gesto grande e generoso, del tutto degno della nobile impresa di Palatucci. Anzi la sua mirabile prosecuzione. Senza il suo intervento, infatti, un altro manipolo di ebrei sarebbe stato deportato nei lager nazisti. E invece la provvidenza divina e il coraggio di un uomo figlio della nostra terra hanno reso possibile un piccolo ma grande miracolo. Un miracolo che consentirà a Remo Tagliaferri di camminare a testa alta nel ‘Viale dei Giusti’ accanto a Palatucci, Perlasca e agli altri 300 italiani insigniti di tale titolo. Anche in suo onore, quando sarà il momento, lo Yad Vashem, pianterà l’albero che, assieme agli altri 20.000, dà vita al rigoglioso bosco degli ‘uomini giusti’.

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