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Studi Cassinati, anno 2007, n. 2
di Francesco Fossa*
Le guerre, nonostante tutte le possibili motivazioni, non sono mai comprensibili sul piano umano. Né puó ritenersi accettabile tutto ciò che essa comporta: violenza indiscriminata, distruzioni, stragi. La cosiddetta “legge della guerra” tende a giustificare ogni azione rivolta contro il nemico e, nell’ultimo conflitto mondiale, anche contro la popolazione inerme (!!!).
Ma chi potrà mai scagionare gli autori di un gratuito misfatto quale fu quello contro l’abitato di Castelnuovo al Volturno, bombardato quando il nemico era ormai in fuga altrove e solo per girare un filmato di propaganda?
L’episodio viene, di solito, raccontato come un fatto di cronaca da commentare brevemente per poi passare alla trattazione di argomenti ben più “importanti”: ne sono stati distrutti tanti di paesi … uno più o uno meno non cambia.
Ma i responsabili di quel misfatto non avevano una casa? Non sapevano cosa significhi “casa”? Se solo avessero pensato che casa non è soltanto un insieme di muri e di ambienti in cui ricoverarsi, ma molto di più, il luogo delle proprie cose più care, il luogo degli affetti più sacri, il luogo che fa per eccellenza “famiglia”, il luogo dell’inizio e della fine della vita di ogni componente di questa, se solo lo avessero pensato credo che ne sarebbero stati dissuasi: i muri si possono ricostruire, ma tutto ciò che c’era dentro, di materiale e spirituale, quello non si potrà mai più ricostruire.
Ma questo 2miracolo” di riflessione non è avvenuto, come non è avvenuto altrove, dovunque sono stati bombardati paesi e città inermi (noi del Cassinate ne sappiamo qualcosa).
La rovina di Castelnuovo non è servita a difendersi dal nemico né a procurargli danni strategici: è servita solo ad alimentare la propaganda anglo americana per l’autoesaltazione delle proprie forze combattenti e – come oggi in Iraq – per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica statunitense il loro permanere in guerra. Per questo chiamarono celebri registi mobilitando ingenti mezzi militari e soldati/comparsa.
Qualcuno mi dirà: però ci hanno liberato dalla tirannide nazista. Amen.
Infine non mi risulta che il comune di Rocchetta al Volturno, di cui Castelnuovo fa parte, abbia ricevuto onorificenze di sorta per il sacrificio della sua frazione; ma qui la responsabilità è tutta italica: probabilmente la motivazione di un eventuale conferimento potrebbe urtare la suscettibilità degli alleati storici.
Riproponiamo, qui, un efficace – e soprattutto pacato – racconto di quei fatti da parte di Francesco Fossa, già pubblicato nel 2003 sul quotidiano “Rinascita”.
e.p.
Dal giugno del 1944 sono trascorsi quasi 60 anni, ma i ricordi di Giovanni Tomassone, classe 1929, una vita da falegname a Castelnuovo al Volturno, sono nitidi come se i fatti che stiamo per raccontare fossero accaduti ieri: “… ma ancora oggi non capisco perché il mio paese che fortunatamente aveva riportato solo pochi danni nella guerra vera del 1944, è invece finito in macerie per una guerra finta”.
È una storia assurda che ci riporta alla primavera del 1944, quando Castelnuovo – un paesino di settecento anime appoggiate alla catena montuosa delle Mainarde, dove nasce il fiume Volturno, in un angolo di meridione incastrato tra Lazio, Molise, e Campania – viene tagliato da quella linea che i tedeschi, in ritirata lungo lo stivale, hanno tracciato sulle loro mappe: è la linea Gustav, un poderoso schieramento di uomini e mezzi dispiegato da Cassino a Ortona che, secondo le intenzioni del maresciallo Kesselring, dovrebbe bloccare l’avanzata degli alleate sbarcati il 9 settembre del 1943 a Salerno. Castelnuovo al Volturno è a circa cinquanta chilometri ad est di Cassino, a mezza costa sotto il monte Marrone. Già dal novembre 1943 il paesino è stato evacuato, o meglio rastrellato dai tedeschi, i suoi abitanti sono stati incolonnati e trasferiti con treni merci, prima ad Anagni, poi più a nord, a Ferrara e Modena. Solo un piccolo gruppo di persone, quasi tutti uomini, si era sottratto alla cattura e per diversi mesi aveva sopportato il freddo dell’inverno in anfratti e fienili nascosti dalla vegetazione. Tra questi c’è anche Giovanni Tomassone, aveva 15 anni. “I tedeschi si erano ritirati sulla cresta del monte Marrone e sulle cime circostanti mentre gli americani avevano preso tutta la pianura sottostante. Collaboravamo con loro indicando le postazioni, i nidi di mitragliatrice dei tedeschi…”.
Fin qui la storia di Castelnuovo raccontata dall’anziano falegname non è molto diversa dalle tante vicende belliche che segnano la penisola nel 1944.
Dopo gli americani, nel paese fecero campo i nordafricani del contingente francese. Ne morirono quasi mille tentando di conquistare la cima del monte Marrone. Poi arrivarono gli alpini del Corpo Italiano di Liberazione. Saranno proprio le penne nere del battaglione Piemonte a espugnare, all’alba del 31 marzo, la cresta a 1800 metri dalla quale si dominava tutta la valle del Sangro. Il 16 maggio la battaglia di Cassino arriva al suo apice, l’Abbazia e tutto quello che gli sta intorno per decine di chilometri non esistono più. Il piccolo paese di Castelnuovo al Volturno però conta solo quattro case distrutte dai colpi d’artiglieria: è un miracolo.
Gli abitanti, quelli che non erano stati evacuati, ritornarono così alle loro abitazioni, mentre la guerra andava velocemente allontanandosi verso il nord e l’incubo sembrava passato. Ma la mattina del 5 giugno una jeep si arrampicò lungo i tornanti che portavano a Castelnuovo. A bordo c’era un tenete inglese che si presentò al sindaco, Vincenzo Martino, con un ordine perentorio: “Il paese deve essere immediatamente sgombrato, dobbiamo effettuare una disinfestazione che durerà almeno dieci giorni”.
La gente di Castelnuovo fu caricata sui camion, come già era accaduto con i tedeschi, e costretta ad abbandonare nuovamente le case: “Ci portarono più a valle sulla piana di Rocchetta al Volturno”. Giovanni Tomassone rivive incredulo quelle ore: “La mattina del 6 giugno fummo svegliati da un rombo assordante, tutta la valle si era riempita di mezzi militari, carri armati, cannoni, camion carichi di soldati. Si assestarono attorno a Castelnuovo. Qualcuno di noi provò ad avvicinarsi, ma venne sempre allontanato dalla polizia militare. C’erano soldati di tutte le razze … ma non capivamo cosa volessero fare”. Gli abitanti di Castelnuovo avevano fatto largo a un grosso contingente della 82ª divisione dell’ottava armata alleata. Truppe affiancate da un buon numero di cineoperatori. La bugia della disinfestazione era durata poco: doveva essere girato un documentario.
“Per alcuni giorni”, racconta Tomassone, “osservammo dalle cime degli alberi le scene di una battaglia in piena regola, esplodevano bombe fumogene, i soldati correvano a testa bassa e sparavano. Qualcuno faceva finta di essere stato colpito e allora arrivavano i barellieri, l’ambulanza che portava i soccorsi … urlavano ma era tutto finto!”.
Le cineprese le ricorda Carmine Miniscalco, anche lui abitante sfollato di Castelnuovo. All’epoca aveva 17 anni: “Sparavano e filmavano, qualcuno mi disse anche di aver visto uomini con le divise tedesche, ma io in quella confusione non le ho notate. Le piante di quercia minate con la dinamite e fatte saltare come fuscelli invece sì, quelle non le scordo”.
Ma nessuno tra la gente della vallata avrebbe mai immaginato che lo scherzo, quella finzione, si sarebbe trasformata di lì a poco in tragedia. Ora i ricordi, i racconti di Tomassone e di Miniscalco si intrecciano alle voci sdegnate di un gruppo di anziani seduti attorno a un tavolo nella piazza del paese.
Smettono di giocare a carte e anche quelli che non avevano voluto rispondere alle domande sui fatti di allora, quando si arriva alla cronaca del 17 giugno 1944 cambiano atteggiamento, si infervorano, lanciano imprecazioni: “Ci svegliammo, con i colpi dei cannoni, tiravano verso la montagna, un piccolo aereo girava in tondo nel cielo, qualcuno giura d’aver visto una cinepresa spuntare da finestrino… poi i colpi cominciarono ad avvicinarsi al centro abitato. A mezzogiorno il fuoco si concentrò sulle case… il campanile della chiesa fu il primo edificio a essere colpito, un colpo di cannone lo centrò in pieno! Vedevamo le nostre case cadere una dopo l’altra senza sapere perché. I carri armati attraversavano i campi di patate e i soldati, americani, inglesi, neozelandesi, marocchini, si riparavano dietro i cingoli … ma da cosa?”.
Per giorni il paese rimase avvolto da una nuvola di polvere dentro la quale si intravedevano cumuli di macerie. Agli abitanti di Castelnuovo al Volturno fu consentito di ritornare alle loro case solo ai primi di luglio: l’85 per cento delle abitazioni non c’era più. A testimoniare l’assurdo, il paese prima e dopo il bombardamento, restano solo due foto, tra altri cimeli bellici, in un piccolo museo allestito in una delle poche case risparmiate dalle granate. La gente non riusciva a farsi una ragione di un simile scempio. E anche la vicenda dei filmati era passata in secondo piano, quasi dimenticata.
Finché non cominciarono ad arrivare le prime lettere, come quella scritta da un cugino di Giovanni Tomassone, Domenico, fatto prigioniero dagli americani in Nordafrica e trasferito in un campo di detenzione negli Stati Uniti.
Nella lettera voleva sapere se davvero il paese era stato distrutto, perché aveva visto un filmato dove era raccontata la storia di Castelnuovo e del monte Marrone eroicamente conquistato dalle truppe alleate con i soldati tedeschi che venivano snidati casa per casa…”. La guerra finisce e le lettere cominciano ad arrivare anche da Boston, da Los Angeles, spedite da gente del posto emigrata in America ma con amici e parenti a Castelnuovo.
Tommaso Pitassi, da pochi mesi a Filadelfia, rimase senza parole nella sala cinematografica dove proiettavano un “Combat film” sulla guerra in Italia.
La battaglia di Castelnuovo veniva descritta come una delle più cruente, i soldati dell’Ottava Armata raffigurati come eroi votati al sacrificio.
Ma Pitassi sapeva che quelle scene di guerra, i corpo a corpo, erano una pura messa in scena. Perché lui era lì, su quella piana, quando erano state fatte le riprese, e sapeva anche che gli unici ad aver combattuto a monte Marrone erano stati i soldati marocchini e gli alpini del battaglione Piemonte. Perché per inglesi e americani la parete di roccia alle spalle di Castelnuovo era assolutamente imprendibile. In tanti videro negli Stati Uniti il documentario, figlio della propaganda bellica americana, la storia riscritta con la cinepresa e le comparse.
A chi, come Esterina Ricci aveva fatto delle ricerche a Chicago, avrebbero detto che quella drammatica farsa era stata necessaria perché alcune “pizze”, avvincenti filmati della campagna in Italia, erano bruciate e andavano rimpiazzate. Recentemente qualcun altro si è nuovamente messo sulle tracce di quel Combact Film: Michele Peri e Giuseppe Tomassone, rispettivamente insegnante al liceo artistico di Cassino e presidente de “Il Cervo”, un’associazione culturale di Castelnuovo al Volturno. “Non è solo curiosità. Quel filmato è un pezzo di storia, vorremmo dare luce a questa vicenda della quale si è parlato poco”. Finora le ricerche hanno dato pochi frutti.
Negli archivi dell’Istituto Luce, Peri e Tomassone sono riusciti a scovare solo alcuni spezzoni di un filmato girato nella zona prima della distruzione del paese. Sono immagini dei soldati marocchini che per circa tre mesi tentarono di conquistare monte Marrone: eccoli camminare in fila indiana verso la montagna, e poi in momenti di relax nell’abitato di Castelnuovo, dove si divertivano ad aprire scatolame con i denti e a molestare le donne del paese. Sono poche sequenze, non hanno niente di epico ma, almeno queste, nella loro semplice crudezza, sono vere.
* Da L’ultima Crociata – Rinascita, 1 agosto 2003.
CURIOSITA’
Il martirio della città di Cassino nella seconda guerra mondiale, al pari di Coventry in Gran Bretagna, è preso come termine di confronto per indicare il sacrificio di una città.
Per Coventry si è coniato il verbo “coventrizzare” come equivalente di “radere al suolo”, a causa dei bombardamenti a tappeto che furono effettuati dalla Luftwaffe sul centro industriale inglese di Coventry nel 1940.
La distruzione di Cassino è stata addirittura presa come riferimento nella motivazione per il conferimento della medaglia d’argento al merito civile al comune di Randazzo, in provincia di Catania, il 25 gennaio 2005: “Comune, occupato per la posizione strategicamente favorevole dall’esercito tedesco, fu sottoposto per trentuno giorni, tanto da essere definito “la Cassino di Sicilia”, a violentissimi bombardamenti che provocarono numerose vittime civili e la distruzione dell’intero abitato. Ammirevole esempio di spirito di sacrificio ed amor patrio. 13 luglio – 13 agosto 1943/Randazzo (CT)”
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