Quid est Ciociaria? ‘Regnicoli’ contro ‘Papalini’


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Studi Cassinati, anno 2006, n. 4

di Fernando Riccardi

Cos’è la Ciociaria? Quali i suoi limiti territoriali? Quando è nata la denominazione? E il ruolo delle ciocie? E l’influenza del fascismo? Esistono ciociari del nord e ciociari del sud? E se, invece, si trattasse ancora, proprio come un tempo, di papalini e di regnicoli? Questi e tanti altri interrogativi hanno caratterizzato il convegno svoltosi nella ‘cantina’ ottocentosca di casa Corradini, ad Arce. Un appuntamento, giunto alla quinta edizione, la cui organizzazione è a cura dell’Istituto di Storia e Arte del Lazio Meridionale di Anagni (Isalm), uno dei sodalizi culturali più prestigiosi dell’intero comprensorio provinciale e non solo. Alle relazioni svolte da Eugenio Maria Beranger e da Ugo Iannazzi, si sono affiancati gli interventi di illustri studiosi del territorio che, in tempi più o meno recenti, si sono interessati all’argomento. È venuto fuori un dibattito vivace, a volte anche passionale, che a stento il pur abile Gioacchino Giammaria, presidente dell’Isalm, è riuscito a moderare. Alla fine, però, quel grande punto interrogativo, nonostante le buone intenzioni di chi, a vario titolo, ha preso la parola, è rimasto “sospeso etereo e sfuggente nell’aere”. E, francamente, c’era da aspettarselo. Una cosa, invece, è stata ribadita e anche a chiare note: malgrado lo scorrere inarrestabile del tempo ancora oggi esiste, sia pure dal punto di vista cultural-geografico, la suddivisione, rimasta in piedi fino al 1860, tra ‘papalini’ e ‘regnicoli’.
I primi, ossia coloro che risiedono al di là del Liri, verso Frosinone, appaiono come gli alfieri dell’identità ciociara, orgogliosi di essere tali e di sbandierarlo ai quattro venti, persino sugli spalti del ‘Matusa’, in occasione delle partite di calcio della loro squadra del cuore approdata, finalmente, dopo tanti anni di tribolazione e di delusioni, ad un palcoscenico di tutto prestigio.
Gli altri, invece, quelli che abitano dall’altra parte del fiume e che fino al 1927, data di nascita della provincia di Frosinone, appartenevano a Caserta e alla Terra di Lavoro, proprio non vogliono saperne di essere chiamati ciociari. Il punto centrale di tutto il discorso sta proprio lì, in quel Liri di dantesca memoria, già tanto caro ai Romani, che, nel susseguirsi dei secoli, è andato ad acquistare un ruolo ben più importante della sua stessa connotazione fluviale. Quel corso d’acqua, un tempo ‘verde’ e limpido, ora limaccioso, sporco e inquinato, ha costituito fino all’unità d’Italia, e anche oltre, l’antico confine tra due stati limitrofi; oggi, però, lungi dall’aver esaurito il suo compito separatorio, continua a rappresentare, in maniera indelebile, la linea di demarcazione, l’ermetica cerniera fra la porzione centrale della Penisola e il meridione. Una barriera naturale, dunque, ma, nel contempo, storica, culturale, economica, sociale, linguistica, di costume, che la nascita della provincia di Frosinone non è riuscita ad abbattere incamerando nel suo unitario grembo territori distanti e, soprattutto, disomogenei. Una semplice operazione di ‘collage’, sia pure abilmente studiata a tavolino, non poteva eliminare alla radice le fin troppo evidenti contraddizioni. Proprio da qui parte quella differenziazione netta, caparbia, ostinata sull’uno e sull’altro versante, che non riesce a trovare punti di contatto. Però, mentre i ‘papalini’ (fino al settembre del 1870 Frosinone era parte integrante dello Stato della Chiesa) sarebbero disposti ad accorpare nel ‘progetto ciociaro’ anche il lembo meridionale della provincia, la media e la bassa valle del Liri tanto per intenderci, da parte dei ‘regnicoli’ si registra una chiusura netta e totale: essi, infatti, non si sono mai considerati ciociari né, tantomeno, hanno intenzione di diventarlo. Questa che abbiamo testé riportato è soltanto una curiosa ed anacronistica sfida tra campanili oppure nasconde tra le sue pieghe qualcosa di più pregnante? In effetti, al di là di alcuni aspetti folcloristici (e qualche intervento ad Arce lo è stato davvero), la questione è seria e va affrontata con acume e serietà di intenti.
Qui, infatti, è in gioco l’identità di una provincia, di un territorio compresso e quasi schiacciato tra Roma e Napoli, che, a distanza di tre quarti di secolo dalla nascita, ancora non riesce a svilupparsi in tutta la sua pienezza. È indubbio che il governo fascista, creando quasi di sorpresa la provincia di Frosinone, sia andato ad infrangere gli equilibri sociali, economici e culturali esistenti, compiendo solamente un’operazione di mero assemblaggio. Grazie all’impegno del governo centrale il ‘concetto’ di Ciociaria iniziò a prendere forma, a materializzarsi, uscendo dalle nebbie indistinte nelle quali, fino ad allora, era stato relegato. Il mito del ‘ciociaro forte, valente e coraggioso’, discendente diretto di quei Romani che avevano conquistato il mondo, cominciò ad imperversare in lungo e in largo, agevolato da una politica tutta diretta a far risaltare la fede fascista della nuova provincia a fronte degli atteggiamenti tiepidi o, addirittura, avversi che provenivano dal casertano.
Non è un mistero che Mussolini, dando vita alla provincia di Frosinone, volle soprattutto punire Caserta, covo pullulante di riottosi antifascisti. Fu proprio da allora, dunque, che la nuova provincia diventò ‘ciociara’, senza esclusione alcuna. La costruzione artificiosa, comunque, rimaneva tale e, perciò, il fuoco della contestazione, culturale o identitaria che dir si voglia, continuava a covare sotto la cenere e ad essere ben presente in chi ciociaro non si era mai considerato. Caduto il fascismo, superate le difficoltà inenarrabili del dopoguerra e della ricostruzione, puntualmente, i nodi sono venuti al pettine e la ‘vexata quaestio’ è tornata di grande attualità. Come dimostra il convegno di Arce che ha fatto seguito ad analoghe iniziative. ‘Quid est Ciociaria’ dunque? Difficile dirlo e, soprattutto, arduo tentare di trovare un accordo tra i ‘belligeranti’. Anche perché la Ciociaria continua a rimanere un concetto molto variabile: alla stregua di un elastico ognuno la tira da una parte o dall’altra, facendosi interprete soltanto dei propri convincimenti.
E così, come per incanto, puó restringersi o allargarsi a seconda di chi conduce il gioco. Come, del resto, già avevano fatto, nelle epoche passate, geografi, storici, cartografi e redattori di mappe. Stando così le cose, difficilmente, si riuscirà a trovare il bandolo della matassa. Anche perché quella ‘barriera’ continua ad ergersi imponente ed invalicabile o quasi. Se non sopraggiungeranno radicali, ma assai improbabili, mutamenti di carattere amministrativo (il progetto della nuova provincia bipolare Cassino-Formia, con l’insediamento del governo Prodi, sembra, ormai, definitivamente tramontato), l’antica contraddizione continuerà a rimanere in piedi. Dovremo rassegnarci, quindi, ad una provincia profondamente divisa nel suo interno? Oppure, prima o poi, le diverse anime riusciranno a convergere su qualche punto comune? Ai posteri, come sempre, ‘l’ardua sentenza’.

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