Studi Cassinati, anno 2005, n. 4
di Alessandrina De Rubeis
L’intervista a Laura Fabrizio
Nell’agosto del 1993, la signora Laura Fabrizio, che tuttora vive a Roma, rilasciò la seguente intervista: «Era il 1941, quando il Podestà ci mandò a chiamare e chiese a mia madre di ospitare, nella nostra grande casa, una famiglia di Ebrei internati a San Donato. Ospitammo i Levi: Enrico, Gabriella e il piccolo Italo. Stettero con noi quattro anni e, nel frattempo, nacque la loro secondogenita che fu chiamata Noemi. I primi tempi trascorsero tranquilli. La nostra abitazione si trovava in via Sbarra, nella parte alta del paese; dietro la casa c’era un orto in cui seminavamo patate, cipolle ed altro ed allevavamo qualche gallina. C’erano anche un pozzo, dove avevamo nascosto una damigiana, delle candele e la zappa, e una profonda grotta incavata nella roccia e nascosta da un muro alto un metro e mezzo con una porticina piccola che non destava sospetti. Per procurarci il cibo che non avevamo, andavamo nelle campagne ed offrivamo in cambio qualche lenzuolo del corredo da sposa di mia madre. Avevo un fratello che si trovava prigioniero in Albania e, forse per questo, mia madre si prodigava nell’aiutare chiunque bussasse alla nostra porta: infatti la grotta divenne ben presto il rifugio dei compaesani ricercati dai Tedeschi, dei vicini di casa durante le incursioni aeree, dei militari fuggiaschi che di notte scendevano dalle montagne per chiedere viveri e cure. Ricordo che tra questi, gli Inglesi, volevano lasciarci delle lettere, che a guerra finita avrebbero attestato la nostra generosità e ci avrebbero dato diritto a benefici; noi, però, non le prendevamo oppure le bruciavamo immediatamente per paura di rappresaglie. I Tedeschi stanziati a San Donato erano Austriaci di Bolzano. Un giorno il camino della nostra cucina prese fuoco e, subito, alcuni giovanissimi soldati accorsero in nostro aiuto, salirono sul tetto e gettarono acqua nel comignolo finché le fiamme furono spente. Mia madre, per ricompensa, diede loro delle uova e quelli andarono via dicendole “tu, buona, mamma!” (chiamavano “mamma” tutte le donne sposate). Quando moriva un cavallo o un asino, distribuivano pezzi di carne anche alla popolazione; ricordo che erano tagliati così grossolanalmente che mi davano la nausea, ma la fame era tanta! Distribuivano anche il loro pane nero e il rancio che riportavano indietro dal fronte. Non erano cattivi con noi Sandonatesi e non ci davano fastidio; solo quando si ubriacavano erano imprevedibili: una sera, infatti, sentimmo sparare otto colpi uno dietro l’altro e vedemmo otto piccoli pulcini ammazzati. Intanto Enrico Levi si era adattato a lavorare come facchino nel trasporto dei rifornimenti alimentari per la popolazione. Mangiavamo tutti insieme nella nostra grande cucina: un tegame di patate, la pasta fatta in casa, le uova e un po’ di pane, quando c’era, ma il tutto senza sale. I bambini si erano affezionati a noi e viceversa. Spesso le altre donne ebree venivano a trovare Gabriella e s’intrattenevano a conversare anche con noi. Ricordo che un anno, per la Pasqua, i Levi ricevettero un pacco col pane azzimo e il vino per la loro cerimonia religiosa. Enrico spesso organizzava rappresentazioni teatrali per i ragazzi del paese presso la casa delle Suore, dove c’era un salone col palco. Ma, dal settembre del ’43 alla primavera del ’44, la situazione precipitò tragicamente; in paese furono affissi manifesti che avvertivano la cittadinanza della esecuzione capitale immediata per chi avesse aiutato i partigiani o i soldati dell’esercito alleato. Ogni sera passava la ronda e, chiusi dentro casa, ascoltavamo impauriti il pesante rumore degli scarponi sulla strada; una volta il rumore s’interruppe davanti la nostra porta, facemmo nascondere tutti dentro la grotta, ma da quel momento mia madre capì che stava per accadere qualcosa. Una mattina arrivò un Abruzzese con un carico di patate; mia madre gli propose un affare: lei avrebbe acquistato l’intero quintale e lui avrebbe portato con sé, attraverso i sentieri di montagna, Enrico, Gabriella e i piccoli per lasciarli a Pescasseroli, dove avrebbero provveduto da soli a mettersi in salvo. Mentre le trattative erano in corso, giunse trafelata Enrichetta, amica dei Levi, a dire che il Comando tedesco aveva deciso di rilasciare il foglio di via per tutti gli internati e che, quindi, potevano finalmente considerarsi vicini alla liberazione. Mia madre capì che era un tranello e cercò di convincere anche Enrichetta a non presentarsi, ma non fece in tempo perché arrivarono “quelli col medaglione” e ordinarono ai Levi di prendere tutti gli oggetti di valore che avevano e di seguirli fino al Comando. Uscendo da casa, Italo si rivolse a mia madre chiamandola come sempre “zina Maria” e dicendole che non ci saremmo rivisti più. Andammo anche noi al Comando tedesco e mia madre portò persino i tagliolini in brodo che aveva preparato per pranzo, chiedendo ai soldati di far mangiare almeno i bambini ed offrendone un po’ anche a loro. Ad un certo momento arrivò un camion e li caricarono tutti come bestie.
Per una settimana la nostra abitazione fu piantonata giorno e notte e fu perquisita da cima a fondo. I soldati volevano requisirci molte cose ed anche due materassi di lana, affermando che tutto ormai apparteneva al Commandatur.
Noi opponemmo resistenza e, quando finalmente andarono via, urlarono “cattiva, mamma!”».
Il ritorno di Enrico
«Un anno dopo – continua Laura – ci arrivò un telegramma: “Vivo per miracolo, Enrico” e dopo un po’ di tempo arrivò anche lui, completamente calvo e scheletrito. Ci raccontò che, quando erano giunti nel campo di sterminio nazista, li avevano separati tutti, ma che Gabriella era riuscita a trattenere con sé i bambini ed insieme avevano trovato la morte nelle camere a gas. Disse anche di essersi salvato solo perché conosceva molte lingue e quindi capiva i discorsi dei carcerieri e che aveva salvato la vita anche ad altri. Poi Enrico partì per Firenze, città in cui aveva ancora degli amici su cui poter contare.
Poco tempo dopo mi sposai e, in viaggio di nozze, andai proprio da lui che ci fece visitare tutta la città. Per Enrico Firenze era il mondo. Quando nacque il mio bambino, Enrico ritornò a San Donato e portò un regalo per il piccolo. Disse che stava in una Comunità e che si trovava bene. Ma dopo qualche tempo ci arrivò la notizia della sua morte».
L’intervista a Olimpio Salvucci
Olimpio Salvucci era nato il 16 novembre 1910; all’epoca dell’intervista aveva 84 anni: «Nel 1938 fui richiamato per la guerra d’Albania, ma dopo la visita medica fui dichiarato invalido e rispedito a casa: in un incidente di camion avevo riportato la frattura della base cranica ed ero stato in coma per diversi giorni. Facevo il trasportatore con autocarro di mia proprietà e durante la seconda guerra mondiale fui precettato per l’approvvigionamento della popolazione di San Donato. Il magazziniere delle scorte alimentari mi autorizzò a prendere con me un aiutante e mi consigliò Enrico Levi. Mi resi subito conto che Enrico non era all’altezza di trasportare sulle spalle un quintale di farina alla volta e mi faceva pena vedere che tentava di adoperarsi in tutti i modi, così decisi di aiutarlo invertendo i ruoli: io trasportavo i sacchi e lui mi aiutava a metterli sulle spalle. Quando andavamo a far rifornimento a Ponte Melfa da Maletti, questi mi regalava puntualmente tre, quattro chili di maccheroni che io, a mia volta, davo a Enrico per la sua famiglia e per gli altri amici suoi. Lo aiutavo anche regalandogli dello zucchero col quale realizzava dei dolcetti che mandava a vendere dal figlioletto, Italuccio. Ricordo che un giorno andammo a caricare lo zucchero a Sora. Al ritorno ci fermammo nei pressi di Ponte Tapino, dove c’era una trattoria, e mi accorsi di aver perso il sacco da un quintale che avevo sistemato su uno dei due parafanghi anteriori della F5. Sganciai il rimorchietto e lasciai Enrico di guardia; io ripercorsi la strada verso Sora con la speranza di ritrovare il sacco di zucchero. Giunto nella zona detta “Madonna della Stella”, mi sentitii chiamare: era il mio amico calzolaio Buccilli, seduto al suo deschetto, il quale fortunatamente aveva recuperato lo zucchero. Per me fu la salvezza, ed anche per Enrico: come avremmo fatto a convincere le autorità di San Donato di non esserci accorti di niente? Io ed Enrico siamo stati amici per tanto tempo e lui mi confidò di non chiamarsi Levi, ma Bodrinov e di essere nato a Tbilisi nel Caucaso. Mi fece conoscere Grete Bloch, che tutti chiamavamo Margherita, e spesso mi chiedeva di procurare qualche batteria per Marco Tenembaum, il medico che, a detta di molti compaesani, aveva una ricetrasmittente clandestina ed era in contatto con gli Alleati. Un brutto giorno, Enrico fu rastrellato dai Tedeschi insieme con tutti gli altri Ebrei e se li portarono. via».
Dopo la guerra
«Dopo la guerra, – continua Olimpio – Enrico ritornò a San Donato e venne a casa mia. Rifacemmo un pranzetto come avevamo fatto tante volte, a cavalcioni su una tavola sistemata su due blocchetti di cemento, con un bicchiere di vino ed una fetta di prosciutto a testa. Mi aveva portato in regalo tre metri di stoffa: ora faceva il direttore viaggiante per un lanificio di Prato. Si offrì di ospitare me e la mia famiglia in Toscana, dove, col camioncino che avevo, avrei potuto trasportare le stoffe da un cliente all’altro, ma io preferii rimanere a San Donato. Prima di andarsene, mi raccontò di come aveva visto Gabriella e i figli andare alle camere a gas: mentre lui, per il fatto che conosceva diverse lingue, era intento allo smistamento dei prigionieri, la donna con un asciugamano su un braccio e un pezzo di sapone in mano passò, in fila con i bambini e con tanti altri, su una passerella che immetteva alle “docce”, tra le urla disumane degli aguzzini che tuonavano “al bagno, al bagno”. Enrico concluse il tragico racconto, confessando che gli si era stretto il cuore, ma che aveva potuto fare solo un gesto di addio con la mano».
L’intervista a Pierina Negrini
Pierina Negrini era nata a Casteggio (Pavia ) il 26 marzo 1915 e si era trasferita a San Donato nel 1936. Il 17 aprile 1993 rilasciò l’intervista che segue: «Degli Ebrei internati in paese ricordo tre eleganti e ricche signore che alloggiavano nell’albergo di Gerardo Gaudiello, in via Duomo; Grete Bloch che abitava presso la famiglia detta “Carmagnola”, in via Napoli; Enrichetta con “babbo vecchio”, un uomo molto più anziano di lei, che abitavano da Vittoria e Donata De Rubeis, in via Nardone; gli Adler che alloggiavano in via Portella; il medico Tenembaum con la moglie ostetrica; e altri che stavano di casa presso la famiglia detta “l’Orefice”. Più di tutti ho conosciuto i Levi, perché Maria Paglia che li ospitava era cugina di mio marito. Sicché andavo spesso a trovarli e, quando potevo, portavo loro qualcosa da mangiare. Agli internati sapevo che il Governo elargiva qualche sussidio, come pure alle famiglie che li ospitavano.
Enrico,oltre a fare il facchino con Olimpio, lavorava anche coi Tedeschi, aveva la tessera del fascio ed aveva fatto battezzare i figli per cercare di “camuffare”. Era molto amico dei Bemporad, industriali tessili di Prato ed aveva tanti amici importanti anche a Roma, i quali gli mandavano qualcosa tramite il “postalone”, l’autobus di linea che veniva a San Donato una volta la settimana e che arrivava alle 20,30. In paese si era fatto benvolere da tutti. Diceva di essere stato impresario teatrale e sapeva, quindi, organizzare recite e intrattenimenti. Gabriella era ungherese ed era stata una bravissima ballerina. Enrico fu consigliato da Tenembaum di non stare troppo a contatto coi Tedeschi, di non fidarsi di loro e, negli ultimi tempi, gli suggerì anche di mettersi in salvo con la famiglia e di lasciare il paese. Finalmente Enrico si convinse e insieme con Maria Paglia aveva preso accordi con due uomini di Pescasseroli, i quali sarebbero venuti di nascosto a San Donato con un asino per il trasferimento della sua famiglia. I preparativi erano in corso, quando arrivò quella “matta” di Enrichetta che lo convinse a non partire, dicendogli che il Comando tedesco stava preparando il lasciapassare per tutti loro. Ma, poco dopo, arrivarono “quelli col medaglione” e li condussero alla Casa del Fascio; passarono davanti casa mia e il bambino mi chiamò. Maria seguiva il triste corteo ed andai anch’io. Chiedemmo al Comando di farci portare la bambina per farle bere un po’ di latte e acconsentirono. Nella disperazione del momento, credemmo di essere riuscite a salvare almeno lei, ma dopo una decina di minuti i soldati bussarono alla mia porta e si ripresero la piccola Noemi. “Non impensieritevi, – ci dissero – non mettetevi cose strane in testa perché li portiamo solo ad Alvito per far loro i documenti; oggi è giovedì e al massimo entro sabato ritorneranno a San Donato”. Nel pomeriggio arrivarono i camion e li “insardarono” come bestie. Mi avvicinai il più possibile per salutare i Levi, ma mi vidi puntare addosso più di una baionetta. “Pieretta, vieni a trovarci ad Alvito, – mi gridò Enrico – che noi due o tre giorni ci tengono lì e per sabato sera ritorniamo”. Era il giovedì santo, il 6 aprile 1944. Trascorso un anno dai fatti raccontati, di ritorno da Roma con un camion, feci sosta a Frosinone e d’improvviso mi sentii chiamare “Pieretta, Pieretta”… trasalii: era proprio lui, Enrico che mi disse di essersi salvato perché, due giorni dopo la morte di Gabriella, di Italo e di Noemi, il campo di sterminio era stato liberato dai Russi».
L’intervista a Marco Tenembaum
Di Marco Tenembaum e dell’intervista da lui rilasciata il 25 aprile 1994 si parlerà nel prossimo numero di Studi Cassinati. Qui si riportano solo le sue considerazioni su Enrico Levi.
«Enrico era fuggito dal suo paese d’origine appena diciassettenne, subito dopo la Rivoluzione Russa.
Ebbe una vita difficile ma, poiché era abile ed intelligente, seppe adattarsi ben presto ai compromessi delle varie situazioni in cui venne a trovarsi. Fece tanti mestieri, tra cui l’acrobata in un circo. Giunto in Italia, si mise a fare il patriota tanto da chiamare il suo primo figlio Italo. Lo fece battezzare e si fece battezzare anche lui per trarne vantaggi: infatti potette viaggiare liberamente tra San Donato e Roma ed instaurò rapporti di amicizia col Vescovo di Sora. Ma Levi non fu mai cattolico religioso così come non era mai stato Ebreo religioso. Neanche Gabriella sentiva il problema ebraico: nel presente lei era parte in causa, il passato non la riguardava. A me non interessavano le scelte religiose di Enrico, ma quelle politiche non le condividevo e trovavo che le sue manifestazioni di patriottismo italiano fossero decisamente fuori posto. Al suo ritorno da Auschwitz, ci siamo rivisti a Roma, dove mi ero trasferito, e abbiamo parlato molto; poi mi giunse la notizia della sua morte».
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