L’organizzazione territoriale benedettina e le fasi dell’incastellamento nella Terra Sancti Benedicti

 

Studi Cassinati, anno 2005, n. 2

di Guglielma Sammartino 

Nel tentativo di una ricostruzione delle principali tappe dell’evoluzione del territorio cassinate vanno necessariamente considerati gli studi pubblicati nei decenni scorsi da Pierre Toubert sul Lazio meridionale1, dal suo allievo Jean François Guiraud sempre sul Lazio2 e da Luigi Fabiani sulla Terra di San Benedetto3 allo scopo di tracciare un quadro il più possibile completo e diacronico delle fasi salienti dei processi di territorializzazione.
La storia del dominio dell’Abbazia di Montecassino sull’intera Terra di San Benedetto così come l’evoluzione dell’insediamento dall’VIII al XIII secolo vanno scandite cronologicamente in tre tappe principali.
– La prima, cosiddetta “epoca della curtis” va dalla donazione, nel 744, del duca beneventano Gisulfo II, alla distruzione del monastero ad opera dei Saraceni nell’883. I secoli VIII e IX furono caratterizzati da una prima fase di espansione delle grandi abbazie e dalla nascita della curtis, elemento basilare della struttura fondiaria.
– La seconda tappa si colloca tra la fine del IX e l’XI secolo. Questo periodo è contrassegnato da una momentanea crisi che si inserisce tra il ritorno dei monaci da Capua a Montecassino (nel 949) e l’espulsione dei Normanni dalla Terra di San Benedetto. Questo periodo è detto “epoca del castrum” dal momento che il castrum, con la sua tipologia di abitato concentrato e fortificato, è divenuto ormai la struttura fondamentale dell’occupazione del suolo.
– La terza tappa va infine dalla fine dell’XI secolo, con la stabilizzazione dell’insediamento per castra, al XIII secolo, con la restaurazione del patrimonio dell’abbazia andato in sfacelo durante la dominazione sveva e la codificazione dei diritti del monastero ad opera dell’abate Bernardo I Ayglerio (1263-1282).
Epoca della curtis
Prima della donazione gisulfiana il territorio cassinate era costituito in parte dai patrimoni risalenti al basso impero e per il resto dai fondi imperiali e dei discendenti delle gentes Ummidia, Paccia, Luccia e di altre ricche famiglie locali.4
Il dominio temporale dell’Abbazia ebbe dunque effettivo inizio con la donazione, da parte del duca Gisulfo II di Benevento, di una cospicua porzione di possedimenti situati nel territorio circostante il monastero.
La donazione era in libera ed assoluta proprietà. I monaci potevano amministrare i beni e disporne in piena autonomia e a proprio piacimento.5
I beni erano divenuti proprietà privata monastica e a questo punto si imponeva per i monaci la necessità di organizzarli.
Le prime linee della ricostruzione e della organizzazione fondiaria si possono riscontrare nell’attività di bonifica di una zona, prima paludosa, situata verso il fiume Rapido e nella costruzione di una grande basilica dedicata al Divin Salvatore.
Con la fondazione di tanti piccoli monasteri, le cellae, si veniva così instaurando il sistema curtense, che apportò un vigoroso impulso all’attività temporale della comunità monastica.
Ogni cella rappresentava una curtis ed il nuovo monastero del Divin Salvatore fungeva da Curtis Maior.
Si suppone che, a rigore di logica, per la fondazione delle cellae furono scelte le zone allora più fertili e popolate.6
Le celle dunque, dipendenti dalla curtis maior, erano chiese minori alle quali erano annessi dei terreni, con cui formavano un piccolo organismo, lavorati direttamente dai monaci o da dipendenti (angarari) che avevano l’obbligo di prestare un certo numero di giornate lavorative (angariae) durante l’anno.
Seguivano poi le terre concesse in livello ai coloni ed infine le pertinentiae costituite da boschi, pascoli, prati, canneti ecc. che soddisfacevano alle primarie necessità degli abitanti della curtis.
Questa tipologia di organizzazione territoriale primitiva, in cui ogni curtis tendeva a garantirsi una sufficiente economia, corrispondeva non a caso allo spirito della stessa Regola Benedettina che aveva una impostazione similare per l’ordinamento dei cenobi: il sistema curtense aderiva dunque perfettamente alle finalità e alla struttura stessa del monachesimo benedettino.7
Epoca del castrum
In seguito alla minaccia saracena, con l’abbandono del monastero da parte dei monaci rifugiatisi a Capua, si era conosciuto un periodo di circa quaranta anni segnato da una grande insicurezza, da una crisi sociale, con il conseguente arretramento delle superfici coltivate.
Una ripresa del controllo sul territorio da parte dell’aristocrazia locale si riottenne all’indomani della vittoria del Garigliano nel 915.
Il nuovo punto di partenza per una rinascita a largo spettro venne affidato al ritorno dei monaci a Montecassino nel 950, periodo in cui era abate Aligerno.
Aveva inizio una fase storica senza precedenti, la Terra di San Benedetto vedeva attuarsi ora una sistematica opera di ripopolamento, di bonifica, di messa a coltura e di fortificazione contemporaneamente ad una organizzazione giurisdizionale con l’instaurazione di un nuovo sistema amministrativo che durerà secoli.
Un privilegio del 967 concesso dal signore Pandolfo Capodiferro riconosceva all’abate Aligerno lo Ius Munitionis, ossia il diritto di fortificare liberamente gli abitati della Terra di San Benedetto8.
La signoria monastica si ricostruiva e si riorganizzava così sulla base del castrum, mediante la rioccupazione dei siti abbandonati il secolo precedente e mediante l’insediamento attorno alle antiche cellae come punto di aggregazione dei nuovi centri che in questo periodo si moltiplicavano.
Dunque l’abate e i signori laici si resero promotori della nuova aggregazione della popolazione contadina, in un periodo che registrava una iniziale crescita demografica, con abitanti che riempivano i villaggi concentrati e fortificati sorti su alture, prima anche disabitate.
La nuova unità insediativa, mediante la quale si attuava l’occupazione del suolo era dunque il castrum, un tipo di insediamento, come già detto, fortificato e accentrato, con aree a destinazione agricola disposte concentricamente nello spazio circostante.
La colonizzazione del territorio veniva attuata con la concessione di terre per lo più dietro contratti livellari della durata di ventinove anni, rinnovabili, per mezzo dei quali veniva così frazionato quello che in passato aveva costituito il vasto latifondo cassinate in piccoli possessi, alienabili solo entro la comunità monastica, che costituivano quasi delle proprietà soggette però al pagamento dei terratici.
La scelta da parte dell’abate Aligerno dei contratti livellari era dettata dalla volontà di attrarre sulle sue terre il maggior numero di coloni, offrendo loro le condizioni più vantaggiose possibili con contratti a lungo termine in cambio del pagamento al monastero della settima parte del raccolto delle colture del tempo (orzo, grano, miglio) e la terza parte del vino prodotto.9
Queste condizioni contrattuali furono trovate convenienti non solo dagli abitanti locali ma soprattutto da quei coloni che vennero chiamati dall’esterno per trasferirsi nel territorio con le proprie famiglie.
Il Chronicon Cas. (II, 3)10 infatti ci informa che intere famiglie di agricoltori provenienti dalle zone dei Marsi si erano stabilite sui possedimenti del monastero e che ad essi erano state concesse terre a condizioni molto favorevoli mediante contratti di livello, di modo che la Terra di San Benedetto fosse rapidamente ripopolata.
Dunque il raggruppamento dei coloni all’interno di mura di fortificazione e la concessione ad ogni colono di parcelle di terreno rappresentavano i due aspetti salienti di questa fase di ripopolamento per castra.
Purtroppo poco o niente ci è dato di conoscere circa la condizione giuridico-sociale dei contraenti così come riguardo eventuali clausole contrattuali particolari, dal momento che non è giunto fino a noi nessuno dei contratti di livello stipulati in questo periodo.
Un documento però, molto significativo per questo periodo, si possiede ancora ed è la Carta di Fondazione di S. Angelo in Theodice.
In base a questo contratto circa trentaquattro famiglie si stanziavano nella contrada “at Teudice”, dove era stata costruita una chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo.
Ogni famiglia aveva ricevuto, su concessione dell’abate Aligerno, un lotto di terra su cui costruire la propria abitazione, più un altro terreno fuori del castello, da destinarsi alle varie colture.
I coloni avevano il diritto appunto di risiedere con le proprie famiglie e con gli eventuali dipendenti (commenditi) sul lotto assegnato e avevano l’obbligo di partecipare alla costruzione del castello (conciare castellum vene et iuxta ratione) a condizione che il monastero fornisse loro i cosiddetti magistri fabricatores.
Questo documento riveste senza dubbio una grande importanza dal momento che rappresenta l’atto di fondazione del primo castello abitato della Terra Sancti Benedicti.
Sebbene non esistesse una minaccia esterna incombente, il ricordo delle passate incursioni saracene imponeva la costruzione di torri e castelli a fianco delle chiese faticosamente risorte o costruite ex novo.
Non mancava comunque anche la necessità di difendersi dai potenti signori vicini che in passato non avevano esitato a compiere atti di usurpazione non appena se ne era presentata l’occasione. I monaci dovevano assolutamente difendere i beni che avevano faticosamente recuperato, assicurare la tranquillità della vita degli abitanti e tutelare le terre dissodate.
Per tutto il X e poi ancor più fattivamente nell’XI secolo si susseguono dunque le costruzioni di nuovi castelli e rocche che sorsero immediatamente dopo la costruzione della Rocca Janula e del castello di S. Angelo in Theodice in tutta la Terra di San Benedetto.
Si deve all’abate Mansone, successore di Aligerno, la colonizzazione, nel 991, di S. Elia e la fondazione di Roccasecca.
A circa un chilometro da Aquino, in prossimità della Via Latina (odierna Casilina) fu fortificata un’antica cella benedettina dedicata a S. Gregorio. Accanto al monastero era stata edificata una imponente torre a tre piani (poi distrutta dal terremoto del 1349 e non più riedificata) da cui ancora oggi la località è identificata con il toponimo “Torre di S. Gregorio”.11
Sempre in questo periodo appaiono i nomi del castello di Pignataro, di Mortola, di Rocca di Vandra.
Proprio nel territorio limitrofo a Rocca di Vandra fu poi costruito il castello di Cocuruzzo lì dove era stato fondato qualche anno prima, ad opera dell’abate Guido, il monastero di S. Salvatore.12
Nel 1115 il castello di Cardito, ceduto al monastero dai conti di Venafro, fu fortificato dall’abate Gerardo con mura e torri, al pari di Viticuso, Pontecorvo e Suio, dal momento che sorgeva su un’altura presso Valle Trotta, luogo di confine della signoria abbaziale.
La stessa città di San Germano, che come già detto era stata fondata dall’abate Bertario e poi distrutta dai Saraceni nell’883, in questo periodo fu ampliata e ricostruita ad opera dell’abate Atenolfo.
Nasceva, sempre nell’XI secolo, anche il castello di Iuntura, che sorgeva dove oggi c’è la frazione Giuntura del Comune di S. Apollinare, così chiamato perchè sito nel territorio dove il fiume Gari si unisce al Liri formando il Garigliano.13
Accanto al territorio di Iuntura fu costruito il castello di Vandra Monastica, così denominata per distinguerla da Rocca di Vandra sita al di là del fiume Peccia e del Garigliano, fiumi che segnavano il confine tra la Terra di San Benedetto e il gastaldato di Vandra appartenente ai conti di Teano.
I conti di Aquino invece si fecero promotori, intorno al 1051, della costruzione del castello di Teramo.14
Infine risalgono sempre all’XI secolo anche i castelli di Vallerotonda e di Torrocolo (Trocchio).15
Il pericolo rappresentato dalla presenza normanna impose inoltre all’allora abate Richerio la necessità di apprestare una adeguata difesa delle proprie terre, affidando la difesa militare del territorio agli stessi abitanti della Terra di San Benedetto, provvedendo a scegliere tra questi gli elementi che si sarebbero dedicati esclusivamente alla professione delle armi.
Da questo momento ebbe origine la formazione di una milizia abbaziale che, vedremo, andrà a costiture una classe sociale propria a cui gli abati nel tempo concederanno terre esenti da ogni onere, oltre ad una serie di altri privilegi.16
In questo periodo, in cui l’abbazia di Montecassino era al suo apogeo, il popolamento per castra che, come abbiamo visto, stava interessando l’intera Terra di San Benedetto, ha assunto delle caratteristiche del tutto originali e peculiari che non si riscontrano altrove, anche nella stessa regione.
Mentre, infatti, nelle altre zone del Lazio il fenomeno dell’incastellamento aveva conosciuto nell’XI secolo una fase di stabilizzazione e di attenuazione, nel territorio cassinate invece, la presenza normanna in Campania aveva avuto l’effetto di prolungare il movimento di popolamento per castra ancora per molti decenni.
Il timore infatti che scaturiva dalla presenza normanna alle porte dei possedimenti abbaziali aveva prodotto un duplice effetto: da un lato aveva contribuito ad aumentare l’importanza strategica dei castra già edificati al tempo dell’abate Aligerno, posti ora a protezione delle frontiere, dall’altro aveva spinto alla creazione di nuovi castra, sia su iniziativa del monastero o anche dei signori locali (come abbiamo visto per le costruzioni dei castelli di Viticuso e Acquafondata, voluti dai conti di Venafro) sia su iniziativa dei Normanni stessi.17
In questo fenomeno singolare risiede dunque la grande specificità e la peculiare organizzazione del patrimonio monastico che non ha conosciuto situazioni equivalenti in tutto il Lazio.
Un chiaro panorama della situazione generale dei castra che gravitavano intorno al monastero benedettino nella seconda metà dell’XI secolo ci è offerto dalle bolle e dai vari privilegi papali con cui il pontefice confermava all’abbazia gli elementi costituenti l’intero patrimonio cassinese.
Nella bolla del 1057 di papa Vittore II18 si elencavano già diciannove castra, divenuti addirittura più di trenta nelle bolle di fine secolo, dopo le importanti acquisizioni operate dall’abate Desiderio19.
I nomi di tutti castelli allora fondati furono incisi sulle porte di bronzo della Basilica di Montecassino, ordinate a Costantinopoli dall’abate Desiderio sul tipo di quelle presenti nel duomo di Amalfi.20
Tali informazioni ci permettono di cogliere tanto gli aspetti quantitativi che seguirono all’instancabile opera di organizzazione territoriale da parte degli abati succedutisi in questi anni, apprezzando l’importanza e la vastità dei possedimenti raggiunti dal monastero, quanto le caratteristiche qualitative di un processo che ha indelebilmente segnato un solco significativo in tutta la storia della Terra Sancti Benedicti.
Dal Castrum all’Universitas Civium
La vita associata all’interno dei castra, superate le fasi iniziali, entrava a questo punto, tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, in una fase ormai matura e di assestamento che permise alle popolazioni dei vari castelli cassinati di prendere maggiore coscienza e consapevolezza della propria condizione di cittadini. Fu per rispondere a questa legittima esigenza, infatti, che essi cominciarono ad organizzarsi come Universitas, anche per far valere, in qualche modo e per quanto possibile, i propri diritti nei confronti del monastero.
In effetti il campo d’azione per gli abitanti dei castelli rimaneva piuttosto limitato, dal momento che agli abati era riservata la piena amministrazione della Terra di San Benedetto, così come la nomina delle principali cariche pubbliche.
Le popolazioni non potevano vantare nessun diritto sul territorio, dal momento che l’abate considerava l’intera Terra come una vasta proprietà privata del monastero. Una conferma in tal proposito si riscontra nelle Inquisitiones dell’abate Bernardo I Ayglerio dove è testualmente dichiarato che “Item montes, plana, silvae, pascua, flumina, aquarumque decursus territorii eiusdem castri et muri dompnici viae pubblicae ipsius castri sunt de demanio Monasterii Casinensis”.21
Tuttavia una certa organizzazione municipale si era venuta a creare. Spettava infatti all’Universitas civium organizzare e dirigere gli interventi di polizia urbana, annonaria e tributaria, attraverso rappresentanti che avevano il compito di tenere i contatti con l’abate per stabilire i pagamenti dei vari oneri fiscali, da ripartire poi tra i cittadini.
Tra i primi documenti che ci attestano l’avvenuta formazione delle Universitates ci sono le Chartae Libertatis mediante le quali l’abate fissava con i rappresentanti dei cittadini (viene dunque attestata chiaramente l’esistenza di una organizzazione municipale) le condizioni e gli obblighi che avrebbero regolato i reciproci rapporti. Lo stesso abate si impegnava a pagare una penale in denaro all’Universitas in caso di mancato rispetto degli obblighi assunti. 22
Un esempio è offerto dalla Charta Libertatis di Suio del 1079 in cui si legge “concedo vobis legem et iustitiam facere, iudice vel vicecomes extraneum non ordinabo supra vobis sed tantum de vestra terra cum vestro consilio”.23
Ancora Papa Gregorio IX, in occasione della consacrazione degli abati, in un intervento diretto agli abitanti della Terra di San Benedetto per la corresponsione dell’aiuto cui erano tenuti per una consolidata consuetudine, si esprimeva dicendo “universitatem vestram monemus”.24
L’Universitas civium aveva assunto l’obbligo di provvedere al pagamento della somma dovuta per il rinnovo delle concessioni – ogni ventinove anni ciascuna Universitas provvedeva infatti a rinnovare il contratto di livello per il territorio del castello – e la somma veniva poi ripartita dai rappresentanti tra i singoli cittadini, a seconda dell’estensione e della tipologia delle terre possedute.
Questo passaggio si rendeva necessario soprattutto a causa del grande frazionamento dei singoli possessi avvenuto in seguito alle varie divisioni ereditarie, alle vendite e alle donazioni.
Da questo stato di cose si desume facilmente che questa tipologia di organizzazione comunale affidata ai rappresentanti municipali, sorta nel corso dei secoli XI-XIII nei castelli della Terra di San Benedetto, era comunque favorita dagli abati anche nel loro stesso interesse (l’emanazione delle chartae libertatis lo confermano) perché facilitava la riscossione dei tributi dovuti al monastero, con la cura, come già detto, della polizia urbana e tributaria e dell’esecuzione di opere di pubblica utilità.
In questo ultimo periodo infine si assisteva a due cambiamenti importanti che caratterizzeranno questa epoca, come le successive.
Innanzitutto in questo frangente avvenne la trasformazione delle terre livellarie da libere a terrae de servitio, ossia non più regolate da norme contrattuali ma da usi e consuetudini che aggiungevano alle antiche norme nuovi obblighi e servizi. In tal modo i possessori di terre livellarie furono obbligati oltre al pagamento dei terratici, dei donativi o di altre percentuali sui raccolti, anche alla prestazione di opere definite servitia.
Alle clausole contrattuali erano subentrati ora gli usi consuetudinari, alla base dei quali rimanevano comunque l’antica misura dei terratici, l’obbligo del rinnovo contrattuale ogni ventinove anni, la libertà di alienazione e di trasmissione ereditaria dei possessi.25
Alla nascita delle terrae de servitio si accompagnava anche un altro cambiamento, verificatosi in seguito alla nascita di una nuova classe sociale, quella militare, cui corrispose il formarsi della categoria delle terrae sine servitio.
È stato già ricordato come, su iniziativa dell’abate Richerio, fosse stata arruolata una prima milizia abbaziale a scopo difensivo nel periodo in cui la minaccia dei Normanni l’aveva reso necessario.
Questa classe di milites aveva dunque acquisito una funzione sociale importante, riuscendo ad ottenere nel tempo una serie sempre crescente di diritti e privilegi da parte dell’abate.
I soldati a cavallo, che appunto erano i più abbienti e formavano la piccola aristocrazia della Terra di San Benedetto, ricevevano un mantenimento privilegiato, ad servitium equi, con l’esonero dal pagamento di qualsiasi tassazione relativa al terreno avuto in concessione.
In buona sostanza questi privilegi rappresentavano il corrispettivo per la prestazione del servizio militare o di altri servizi prestati al monastero e comunque decadevano con la cessazione del servizio stesso. Le terre sine servitio, infatti, non erano, a differenza delle altre, in piena ed assoluta proprietà e rimanevano sempre di proprietà del monastero26.

TOUBERT P., Pour une histoire de l’environnement économique et social du Mont-Cassin (IX-XII siècles), in «Comptes-rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles- Lettres», 1976 (trad. It. in TOUBERT P., Dalla Terra ai Castelli. Paesaggio, Agricoltura e Poteri nell’Italia medievale, Torino, 1995, pp.99-112).
2 GUIRAUD J.F., Economie et société autour du Mont-Cassin au XIII siècle, Montecassino, 1999.
3 FABIANI L., La Terra di S. Benedetto. Studio storico-giuridico sull’Abbazia di Montecassino dall’VIII al XIII sec., voll. I-II, Montecassino, 1968.
4 CARETTONI, Casinum, in “Italia Romana, Regio I”, serie I, vol.II, Roma, 1940, pp.33-35
5 GATTOLA, Accessiones, Venezia, 1734, I, p.59
6 Appartengono a questo periodo le celle di S. Angelo in Valleluce, S. Apollinare, S. Andrea, S. Giorgio)
Il cap. LXVI della Regola dice infatti “Monasterium autem, si possit fieri, ita debet constitui, ut omnia necessaria, idest aqua, molendinum, hortus, vel artes diversae intra monasterium exerceantur ut non sit necessitas monachis vagandi foris quia omnino non expedit animabus eorum”.(FABIANI, vol. II, p. 209)
8 FABIANI, 1968, vol. I, p. 56.
9 GATTOLA, Historia Abbatiae Cassinensis, Venezia, 1734, p. 214
10 Chronica Monasterii Casinensis, ed. H. Hoffmann, M.G.H., Scriptores, XXXIV, Hannoverae 1980.
11 PANTONI, Una memoria scomparsa: S. Gregorio di Aquino, in “Benedictina”, 1947, fasc. III, pp. 253-258.
12 GATTOLA, Historia, pp. 307-312.
13 FABIANI, 1968, vol. I, p. 168.
14 GATTOLA, Historia, p. 269.
15 FABIANI, 1968, vol. I, p. 169.
16 FABIANI, 1968, vol. I, p. 173.
17 TOUBERT, 1976, pp. 105-106.
18 Nell’originale documento di papa Vittore II compaiono per la prima volta tutti insieme i castelli sorti nella Terra di San Benedetto elencati come segue: “Castella autem haec in primis ad pedem montis S. Salvatoris, quod est S. Germani, S. Petri, Piniatari, Plumbarola, S. Stephani, S. Georgi, S. Apollinaris, Vallisfrigida, S. Andreae, Bantra Comitalis, Bantra Monacisca, Junctura, S. Angeli, Turruculum, Sancti Victoris, S. Pectri in Flia, Cervara, Vallisrotunda, S. Heliae, Sarraciniscum”. Il pontefice poi, ripercorrendo le fasi che hanno portato molti di essi a divenire da monasteri a chiese munite di rocche sino a castelli abitati, per necessità di difesa, aggiunge: “Quorum aliqua olim fuere monasteria, sed a Sarracenis destructa, postmodum ad tuitionem patriae neccessario facta castella”. GATTOLA, Historia, p. 145.
19 TOUBERT, 1976, p. 107
20 GATTOLA, Accessiones, p. 172.
21 CAPLET A. M., Regestum Bernardi I Abbatis Casinensis Fragmenta, Roma, Tip. Vaticana, 1890, docc. nn. 82, 85, 86.
22 GATTOLA, Accessiones, p. 158
23 Codex Diplomaticus Cajetanus, in «Tabularium Casinense», Montecassino, 1841 (ediz. anast. 1969), Tomo II, parte II, p. 124.
24 GATTOLA, Accessiones, p. 340.
5 FABIANI, 1968, vol. II, p. 220.
26 GATTOLA, Accessiones, pp. 377-391.

 

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