Studi Cassinati, anno 2005, n. 1
di Silvano Tanzilli*
Il periodo racchiuso dai termini indicati nel titolo della mostra comprende centinaia di migliaia di anni che, partendo dal Paleolitico inferiore (500.000 a.C.), attraverso il Mesolitico (10.000-6.000 a.C.), il Neolitico (VI e V millennio), l’Eneolitico (IV e III millennio), età del Bronzo (2.000-1.000 a.C.) ed età del Ferro (X-VI sec. a.C.), raggiunge l’epoca arcaica, nella quale le documentazioni storiche ed archeologiche assumono un valore più costante di identificazione.
Quali siano state le tappe attraverso le quali l’uomo ha determinato le fondamentali variazioni al proprio status sociale ed economico, in relazione al fattore primario costituito dall’alimentazione, è oramai accertato.
L’invenzione del metodo per accendere il fuoco, appartenente all’Homo Erectus di circa 400.000 anni fa, come emerso da tracce trovate in Cina, Ungheria e Francia, rivoluzionò il sistema di alimentazione introducendo il metodo di cottura dei cibi, con il duplice vantaggio di modificarne il sapore e di rendere gli stessi maggiormente assimilabili dall’organismo (scomposizione delle fibre con aumento di proteine e carboidrati), con il conseguente allungamento della vita fino ad un massimo di 40 anni.
Il controllo del fuoco, inteso come prima conquista tecnologica in campo energetico, accompagnò l’uomo durante tutto il paleolitico, dove l’approvvigionamento del cibo avveniva con spostamenti continui in un rapporto di dipendenza diretta dalla natura (caccia e raccolta di vegetali, radici commestibili, rape, cipolle, radici del loto, radici di calla, ecc.).
Le documentazioni di naturalisti ed antropologi, oltre agli scavi archeologici, ci mostrano un panorama nel quale, durante il paleolitico superiore, esistono diverse tecniche di cottura dei cibi che vanno dall’uso di bambù imbottito di carne nella sezione cava, in Asia, alle pentole formate da conchiglie di molluschi in molte parti del mondo, dal vasellame in pietra dell’America centrale alle buche scavate in terreno in Ucraina.
Una buca veniva rivestita di pietre piatte per evitare che l’acqua ne uscisse infiltrandosi nel terreno, quindi veniva riempita di acqua che giungeva all’ebollizione attraverso ciottoli che, precedentemente riscaldati direttamente nel fuoco, erano immersi in essa.
Solo durante il neolitico, quando l’uomo realizzò la seconda grande rivoluzione attraverso il primitivo controllo della natura (allevamento, coltivazione dei campi, forme organizzate di vita sociale, fabbricazione di vasellame e suppellettili), la capacità di produrre, trasformare e cucinare i cibi assunse un livello tale da rendere quelle popolazioni per alcuni versi non molto dissimili da noi.
L’allevamento del bestiame e lo sviluppo dell’agricoltura determinò un mutamento profondo che si riflesse nell’organizzazione sociale, definendo nuovi assetti che si protrassero fino all’età del bronzo: necessità di una sede fissa ove stabilirsi (nascita dei primi villaggi), surplus di cibo (primi commerci), migliore alimentazione (innalzamento del tasso di fecondità), estromissione della donna dalle attività produttive (esclusione dalla gestione della comunità e del potere pubblico).
Fino all’età del bronzo, quindi, anche le nostre popolazioni del Lazio meridionale non dovevano essere molto differenti da quelle rappresentate dagli aborigeni dell’area appenninica.
I rinvenimenti di materiale archeologico di uso domestico (ceramica di colore nero, capeduncole, ciotole ad una sola ansa, recipienti per bollire il latte, recipienti per il caglio, canestri di giunchi per contenere i formaggi, vasellame con incisioni eseguite nella pasta molle), abbastanza comune in tutta l’area sub-appenninica, descrivono una comunità nella quale il ruolo predominante nella produzione e nel consumo di cibo è rappresentato dai prodotti caseari, ma anche dalla polenta di farina di farro, dagli stufati di carne e cereali e, soprattutto, dalla capacità di inventare un certo numero di nuovi piatti e di migliorarne molti di quelli conosciuti.
La fusione dei pastori dell’Appennino con la genti provenienti dalla seconda migrazione indoeuropea, durante l’età del ferro, determinò la nascita di una nuova e più vasta entità etnico-culturale (le popolazioni italiche) che nella nostra area vide infine l’affermazione prima dei Volsci (VI sec. a.C.) e successivamente dei Sanniti (V-IV sec. a.C.).
Gli albori della fase “Historica” vedono, pertanto, l’area del Cassinate inserita in un contesto politico-culturale che si puó definire di frontiera, con le prevedibili conseguenze determinate da tale status.
L’alimentazione stessa, pertanto, subisce trasformazioni dovute alla cultura propria delle diverse popolazioni Italiche che di volta in volta qui si sono incontrate.
Pare comunque accertato che l’alimentazione fosse ricca di calorie, fornite da una cucina estremamente semplice e immediata, specie quella di origine sannitica, lontana dalla preparazione sofisticata dei cibi, propria dei romani, così come si addice a quegli “uomini di stirpe veramente integra” come li definisce Tito Livio.
Alll’interno di tombe sannitiche sono stati rinvenuti resti di cibo che testimoniano l’uso della minestra di farro quale principale alimento, accompagnato da teste di vitello ed altre carni, oltre alle verdure, ai formaggi e alla frutta.
Infine, le bevande di uso comune che si possono riassumere essenzialmente in due tipi: l’acqua mulsa composta da miele ed acqua fermentata con frutti (mele, pere, lamponi e sambuco), e l’ottimo vino di Benevento (citato già nel IV sec. a.C.), dall’aroma lieve ed affumicato, che si beveva riscaldato in piccole coppe, dopo averlo prelevato con mestoli dagli enormi crateri fittili sempre presenti nei banchetti. La ceramica vascolare esposta al museo ed evidenziata per la mostra (dall’VIII al IV sec. a.C.), sia nei corredi della necropoli del sepolcreto di Cassino, sia nei materiali di uso domestico volsco e sannitico, sono la testimonianza dei differenti usi e costumi che queste popolazioni hanno determinato anche in riferimento alla capacità di generare cibi e sapori.
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