L’eccidio delle Tre Torri


Print Friendly, PDF & Email

 

Studi Cassinati, anno 2005, n. 1

di Maurizio Zambardi

Alle sette di mattina del 20 ottobre del 1944, Carlo Fuoco1, un sampietrese allora diciottenne, cantoniere sull’Annunziata Lunga, si mise in cammino per la solita ricognizione giornaliera della strada. Suo compito era quello di controllare lo stato di conservazione del battuto stradale formato da macadàm, ovvero la massicciata formata da breccia bianca detta “quattro-sette” perché formata da pietrisco avente dimensioni comprese tra i quattro e i sette centimetri, mescolate con sabbia. Lo seguivano due operai, anch’essi pagati dalla Provincia, suoi compaesani che avevano il compito manuale di sistemare e livellare le buche e gli avvallamenti della strada, sempre dietro sue direttive. I due erano Guido Fuoco, che aveva più o meno la stessa età di Carlo, e Antonio Di Stefano, il più anziano dei tre. Ogni mattino si mettevano in cammino molto presto perché il tratto di strada da controllare era abbastanza lungo: solo per percorrerlo, senza fermarsi, si impiegava circa un’ora.
Quella mattina, tra una riparazione e l’altra, giunsero nei pressi di un casolare conosciuto come “Mandria dei Brunetti” e noto anche come “Crapareccia”, cioè ricovero per capre. La struttura, situata accanto alla strada, dista dal vecchio centro di San Pietro poco più di due chilometri2 e veniva utilizzata dai pastori come rifugio di emergenza. Carlo Fuoco notò, a pochi metri dalla casa, sul bianco della strada, una scia di sangue che si allargava per un lungo tratto. Incuriosito ed insospettito, si avvicinò e ne seguì la traccia, che si allungava a tratti in gocce. La striscia portava proprio dritto alla masseria, si addentrava nel cortile, poi entrava nell’ovile, continuava nell’ambiente posto a piano terra, adibito a cucina, per poi ritornare nel cortile e continuare fino ad interrompersi nei pressi di una cisterna, che si trova ad ovest della casa, presso la scala esterna. Lì rinvenne un cappello da uomo poggiato su una pietra posta sul bordo del muretto di protezione della cisterna. Il cantoniere con molta prudenza vi si affacciò, ma il buio della cavità gli impedì di vedere. Rimase fermo in quella posizione per un po’ dando il tempo agli occhi di abituarsi alla scarsa luminosità della cisterna e solo allora si accorse che qualcosa affiorava dall’acqua. Sembravano solo degli stracci che galleggiavano, ma sospettò subito che fosse il corpo di qualcuno. Incuriositi, si affacciarono anche gli altri due e capirono che qualcosa di grave era successo. Si misero a perlustrare meglio nei dintorni alla ricerca di qualche indizio piú significativo e così ai margini della strada trovarono una scarpa da donna mentre piú in là, ai piedi di un albero di ulivo, una ciabatta, sempre da donna, ed un piccolo cesto di vimini. Era chiaro che più persone erano state coinvolte in qualcosa. Cosa, però, non sapevano. Pensarono ad una lite finita tragicamente, certo era che il sangue, le scarpe e il cappello abbandonato erano indizi che facevano supporre il peggio.
Carlo decise allora di correre immediatamente al paese e di avvisare le autorità locali e, dopo aver dato le disposizioni per continuare il lavoro di riparazione della strada, si incamminò con passo veloce, rintracciando il sindaco Pietro Conte e raccontandogli l’accaduto. Il sindaco gli chiese di andare ad avvisare immediatamente la guardia municipale Luigi Zambardi. Questi decise di recarsi sul luogo con lui per verificare e piantonare l’area, prima però ordinò a Giuseppe Barone, l’altra guardia, di recarsi a Mignano per informare i carabinieri, perché in quel periodo la Stazione dei Carabinieri di competenza di San Pietro si trovava proprio in quella località. Giuseppe Barone dovette andare a piedi, poiché il paese era sprovvisto di qualsiasi mezzo di trasporto, anche di muli o asini, in quanto requisiti dai tedeschi durante l’assedio locale. Barone, comunque, non impiegò molto tempo in quanto passò per la scorciatoia che passa alla forcella di San Martino, un avvallamento posto tra Monte Rotondo e Monte Cesima.
Nel frattempo i due figli più grandi di Luigi, Eduardo di 15 anni ed Antonio di 13 anni, che avevano ascoltato il racconto di Carlo, incuriositi dall’accaduto, volevano seguire i due adulti, ma Luigi, intuendo la gravità della cosa, lo vietò. La curiosità però era tale che i due ragazzi li seguirono ugualmente, a debita distanza per non essere visti3.
Luigi e Carlo si erano messi quindi in marcia con passo spedito e arrivarono in breve tempo sul posto. Luigi, dopo aver constatato la scia di sangue e aver scrutato nella cisterna, in attesa che arrivassero i carabinieri, ispezionò l’area circostante alla ricerca di altre tracce, e fu proprio allora che si accorse di una corda posta di traverso alla strada, in alcuni tratti parzialmente coperta dal brecciame stradale. Seguì tale corda con attenzione e si accorse che portava proprio sotto un ponticello, nei pressi della struttura. Collegato ad essa vi era un ordigno esplosivo, che aveva a che fare certamente con l’accaduto.
Nel frattempo altri sampietresi che transitavano lungo la strada si erano fermati, colti dalla curiosità.
Luigi piantonò l’area e aspettò l’arrivo dei carabinieri, nel frattempo Carlo raggiunse i suoi operai e continuò il suo lavoro di ispezione della strada. Venne a conoscere soltanto la sera, al ritorno in paese, l’evoluzione degli avvenimenti4.
Un brigadiere e due carabinieri semplici arrivarono, accompagnati da Giuseppe Barone, nella tarda mattinata. Dopo aver ascoltato i presenti e aver rilevato le macchie di sangue, si passò all’ispezione della cisterna. Prima però chiesero di cercare un bastone sufficientemente lungo per poterla sondare. Se ne trovò nei paraggi uno di olivo usato come uncino dai contadini e si effettuò il sondaggio che rilevò la presenza di qualcosa di corposo: dunque era necessario che qualcuno scendesse nella cisterna. C’era bisogno di una scala a pioli e fu dato incarico a Francesco Nardelli5, un giovane sampietrese che si offrì volontario, di andare a chiederla a Pietro Nardelli, che abitava più a valle, nella campagna circostante, in località “Reti”6. Quella mattina Francesco stava andando a raccogliere le prime olive, o meglio quello che potevano dare quelle piante scampate al bombardamento.
La scala non tardò ad arrivare ma a quel punto si presentò il problema di chi doveva scendere nella cisterna, anche perché l’accesso era stretto e difficoltoso. Dei presenti nessuno se la sentiva, neanche i carabinieri, ma alla fine si offrì proprio Francesco: posizionò con accortezza la scala e scese. A contatto con l’acqua, che poi era profonda circa cinquanta centimetri, trovò il cadavere di una donna distesa a pancia all’aria, si fece buttare una fune, la legò attorno al corpo della donna e a fatica la tirarono fuori. Il brigadiere chiese a Francesco di controllare ancora e fu allora che, tastando nell’acqua, avvertì un secondo corpo, questa volta di un uomo rivolto con la faccia verso il basso. Lo comunicò agli altri, lo legò ed anch’esso venne tirato fuori. Affiorò a questo punto un terzo cadavere, di un’altra donna, anch’essa, come la prima, con la faccia rivolta verso l’alto. Tra lo stupore e lo sdegno dei presenti per tanta efferatezza, i tre corpi furono adagiati a terra e posti uno accanto all’altro, a pochi metri dalla cisterna: benché riportassero sul collo numerose ferite, avevano ancora il volto riconoscibile per cui il brigadiere chiese ai sampietresi presenti, che nel frattempo si erano radunati, se li riconoscessero, ma nessuno li identificò per cui fu chiaro che si trattava di forestieri.
Poco dopo, con passo affrettato e animo in apprensione, arrivarono due giovani di Venafro, i quali chiesero di vedere i cadaveri, che nel frattempo erano stati coperti con delle vesti rimediate dai passanti. Si seppe così che uno dei due era in realtà il fratello dell’uomo ucciso. Questi aveva sospettato che si trattasse proprio del fratello perché aveva riconosciuto il suo cappello sul muretto.
Dopo uno sconsolato pianto di disperazione dell’uomo, i carabinieri gli fecero una serie di domande e solo allora si conobbe l’identità dei morti e la loro provenienza. L’uomo si chiamava Pietro Mascio ed era di Venafro. Dal suo racconto e da testimonianze di altre persone si ricostruirono dunque i fatti. I corpi erano di Teodolinda Vallerotonda, di 35 anni, madre di cinque figli, e di Antonietta Petrucci, di 38 anni. Entrambe le donne erano di Sant’Elia Fiumerapido, mentre l’uomo era Mario Mascio, di 24 anni, di Venafro.
Le due guardie municipali, Luigi Zambardi e Peppino Barone, su ordine dei carabinieri, si alternarono nel piantonamento dei cadaveri, passando tutta la notte sul posto, in attesa dell’arrivo del giudice, che giunse il giorno dopo.
I cadaveri furono quindi portati nel cimitero di San Pietro Infine. La salma di Mascio vi rimase addirittura per otto giorni prima di essere trasportata al cimitero di Venafro.
Carlo Fuoco, Luigi Zambardi, Francesco Nardelli ed altri furono convocati dopo 15 giorni davanti al giudice di Mignano Iadecola, al quale riferirono tutto ciò di cui erano a conoscenza. Francesco Nardelli venne chiamato addirittura per tre volte a testimoniare, prima a Mignano e poi a Sora.
Stando a quanto raccontato dagli intervistati, furono fermati e arrestati tre giovani (c’è anche chi sostiene che fossero quattro) del cassinate. Il processo si svolse a Sora all’inizio del gennaio 1949 e si ebbero sentenze di condanna a 25 anni, ma la pena fu ridotta perché alcuni testimoni ritrattarono l’accusa.
Teodolinda Vallerotonda, a Sant’Elia Fiumerapido familiarmente chiamata Linda, era una donna alta, robusta e aveva una forza straordinaria. Una volta si era messa da sola in testa un pesantissimo bidone di olio e lo aveva portato per diversi metri. Durante i tristi giorni della battaglia di Cassino, la donna e la sua famiglia erano stati sfollati a Venafro. Sapevano infatti, come tanti altri di Sant’Elia e del cassinate, che quelle zone erano ormai state conquistate dagli Alleati e quindi erano sicure. A Venafro era stata ospitata in un casolare di campagna da alcune famiglie del luogo. Nel tempo che vi era rimasta aveva avuto modo di fare amicizie e conoscenze. All’epoca era madre di cinque figli, tre femmine e due maschi: quello più piccolo aveva 5 anni, mentre la più grande, di nome Antonietta, aveva 13 anni. Quando il fronte si era spostato oltre Cassino, Teodolinda e tanti altri sfollati avevano fatto ritorno nei loro paesi. Le due donne uccise abitavano all’ingresso di Sant’Elia. La povera vittima era un tipo intraprendente e doveva esserlo, se voleva assicurare il pane ai propri figli. Infatti, poiché il cibo scarseggiava dato che da quelle parti la guerra era stata molto più distruttiva – basti pensare al bombardamento che aveva raso al suolo Cassino – aveva deciso di andare a cercare prodotti alimentari a Venafro e molto spesso lo faceva anche per altri. Aveva già fatto più di qualche viaggio da Sant’Elia a Venafro passando per una pedemontana che attraversava i paesi di Cervaro, San Vittore del Lazio e che si innestava sulla Via Annunziata Lunga proprio in corrispondenza della casa del medico Anselmo Barone, ad un centinaio di metri da San Pietro Infine. I familiari erano preoccupati, anche perché si sapeva di bande che fermavano i convogli per chiedere il pizzo, e le sconsigliavano di andare, ma lei aveva assicurato che sarebbe stato l’ultimo viaggio. Quella volta aveva portato con sé Anna Petrucci, mentre un’altra donna si era tirata indietro all’ultimo momento, perché aveva un piede gonfio per una vescica infetta.
Arrivate a Venafro, si erano messe in contatto con i conoscenti del posto e avevano racimolato ortaggi, grano, farina, pane ed altro. Ma il cammino era lungo, la roba che avevano comprato pesante, quindi era necessario trovare un carretto con dei muli. Ecco che entra in gioco la famiglia Mascio. Questi avevano un carretto che veniva trainato da un cavallo e da un mulo. Mario fu incaricato dal padre di accompagnare le due donne, cosa che fece a malincuore per cui, essendosi fatto tardi, fu deciso di partire di buon’ora in modo che il giovane non perdesse la giornata. Partiti prima ancora dell’alba, passarono per Ceppagna, superarono il valico delle Tre Torri e poi, dopo una serie di curve, arrivarono ai Tre Ponti: sui bordi della strada ancora vi erano i resti dei carri armati americani sottosopra, distrutti durante gli attacchi a San Pietro. Stava ormai albeggiando. Un centinaio di metri più a valle tre o quattro giovinastri, forse anche minorenni, probabilmente nascosti dietro il casolare, attendevano in agguato. La granata che fu trovata sotto l’arcata del ponticello forse era stata collocata perché fungesse da diversivo, per spaventare e disorientare i tre del carretto ma l’ordigno evidentemente non era scoppiato. I tre furono derubati del carretto con i viveri ed anche del cavallo e del mulo, animali che in quel periodo di miseria e distruzione valevano moltissimo; furono quindi trucidati e buttati nella cisterna.
Intanto si era fatto giorno e la famiglia di Pietro Mascio, non vedendo ritornare Mario, cominciò a preoccuparsi, anche perché si cominciavano a sentire voci dell’uccisione di alcune persone lungo la strada che portava a San Piero Infine. L’uomo allora decise di avviarsi per andare a vedere e lo accompagnò un suo cugino omonimo. Si avviarono con la bicicletta, nella salita si alternarono chi a piedi chi in bici, poi in discesa si misero insieme. Quando arrivarono nei pressi della Mandria, videro un gruppo di persone e i tre cadaveri allineati, coperti fino al volto da indumenti di fortuna. Nessuno seppe dirgli chi fossero, quando poi vide una serie di oggetti posti su un muretto, riconobbe il cappello del fratello e volle a tutti costi vedere i volti dei cadaveri. Fu allora che scoprì la tragica realtà. Nel frattempo anche Adalgisa, la fidanzata di Mario che era preoccupata per il ritardo, venne a sapere dell’uccisione di alcune persone sulla strada Annunziata Lunga ma, poiché non poteva andare, si limitava a chiedere a chiunque tornasse dal luogo se sapevano chi erano i morti e alla risposta si disperava. I compaesani la rincuoravano dicendo che il morto non poteva essere il suo fidanzato perché si trattava di un vecchio ma la brutta notizia le venne data da Pietro, che le raccontò piangendo della tragica uccisione.
Qualche anno dopo Adalgisa sposò Pietro.
Antonietta Miele, una giovane donna di Cassino che all’epoca dei fatti narrati si trovava sfollata a Venafro con la sorella, ricorda che venne a sapere che le due donne di Sant’Elia sarebbero state accompagnate da Mario Mascio con il carretto, quindi chiese se poteva aggregarsi alla compagnia, così da portare qualcosa da mangiare a sua madre che si trovava a Cassino. Le fu detto di farsi trovare alle cinque di mattina nei pressi delle “Quattro cannelle”, la fonte cittadina. Antonietta fu puntuale ma fu avvisata da un conoscente che i tre si erano già messi in cammino alle quattro di mattina, per cui amareggiata decise di partire lo stesso ma più tardi. Arrivò nel luogo dell’eccidio verso le 11, proprio mentre i carabinieri, aiutati dalla gente del posto, stavano tirando fuori i cadaveri dal pozzo. Sconvolta dalla brutta fine dei tre, in cuor suo fu contenta di non essersi trovata con loro. Continuò intanto il cammino verso casa e più giù incrociò un conoscente di San Vittore del Lazio che stava andando a Venafro. Gli raccontò dell’accaduto e l’altro disse di avere incrociato il carretto con tre o quattro giovani ma di non averli riconosciuti, anche se lei rimase in dubbio.
I familiari di Teodolinda furono messi al corrente dell’accaduto dai carabinieri di S. Elia. La figlia più grande, Antonietta Giannandrea, tredicenne, seguì le fasi del processo, aiutata dallo zio materno e dall’Avv. Tommaso Iucci, che fu molto vicino alla famiglia.
Carlo Fuoco racconta che, circa sei mesi dopo, vennero una decina di parenti tra cui il marito di Teodolinda, il fratello di Antonietta Petrucci, e un cugino prete, che celebrò una messa in suffragio. Dopo aver collocato sulla facciata sud del casolare una lapide a ricordo, cercarono Carlo e lo ringraziarono per aver permesso il ritrovamento dei corpi dei propri cari.
Muta testimone di quel nefasto giorno, oggi quella lapide ricorda al viandante:

In questo luogo, il 20-10-1944,
furono brutalmente assassinati
a scopo di rapina
Teodolinda Vallerotonda, di anni 35,
madre di cinque teneri bambini;
Antonietta Petrucci, di anni 38;
Mario Mascio, di anni 24;
Nel mentre facevano ritorno alle
Proprie case, dopo duro lavoro ed
Esemplari sacrifici sostenuti
Per l’onesta conquista del pane.
Una prece

Nota: L’articolo scaturisce da una serie di interviste a persone che in quei giorni conobbero i fatti o a familiari delle vittime. Non si è attinto agli atti del processo, con cui potrebbe esservi qualche differenza, ma a cui eventualmente si potrà in futuro accedere per conferma e completamento.


1 Intervista a Carlo Fuoco nato a San Vittore del Lazio il 9 luglio 1927, videoripresa fatta dallo scrivente in data 31 dicembre 1994.
2 La Mandria è tutt’ora esistente anche se versa ormai in stato di abbandono. La struttura è formata da un volume più alto, due stanze sovrapposte e collegate da una scala esterna in pietra. Vi è poi un ampio cortile attorno al quale si affacciano su tre lati le stalle. Due lati delle stalle sono formati da ambienti molto lunghi coperti con volta a botte ribassata ed erano usati come ovili. Il terzo lato è formato da stalle ricavate da uno sbancamento preesistente di quel tratto di montagna, forse dovuto all’esistenza di una cava a servizio della strada.
È proprio grazie alla testimonianza di Antonio che abbiamo potuto ricostruire altri particolari.

(283 Visualizzazioni)