La tragica fine di Pasquale Morra*


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Studi Cassinati, anno 2004, n. 1/2

di Giovanni Petrucci

Ormai il “muritto” è divenuto alla sera un luogo fisso degli incontri dei ragazzi santeliani. Dopo una giornata di lavoro intenso, prima di andare a dormire, si sente il bisogno di vedersi e di scambiare due chiacchiere. Manca la luce e non si passeggia: le strade sono tutte buche causate dalle bombe e si puó anche dare inconsapevolmente un calcio ad un ordino esplosivo.
È preferibile parlare. Nessuno lo dice, ma si comprende chiaramente che si attende Aurelio, perché riprenda il racconto di ieri; arriva con ritardo e non si fa pregare:
Sistuccio e Pasquale Morra erano forse gli unici che a Valleluce non temevano i Tedeschi e giravano tranquillamente per i vicoli. Pippione spesso li andava a cercare e li avvertiva, imponendo loro di trovarsi alla mattina seguente in piazza Chiesa; ma era inutile.
Pasquale gli passava sotto il naso con “strafottenza” e percorreva impavido a tutte le ore le stradette del paesello per parlare con i compaesani che vi si erano rifugiati in gran numero da Cassino. A casa si tratteneva con i due fratelli ed i genitori; ma con questi non poteva tener discorsi; Salvatore, un adolescente che, per quanto svelto e risoluto come lui, non lo capiva. Era solito trascorrere del tempo con Totonno, un bimbo di due anni, rotondetto e grazioso, che gli alleviava i tristi giorni di segregazione. Si vedeva spesso con Valentino Meta, che aveva qualche anno di meno, ma le stesse aspirazioni.
Dai suoi apprese ad avere coraggio in ogni frangente e a non piegarsi di fronte ai soprusi, a non alzare il braccio in segno di saluto romano, se non ne sentiva nell’intimo il bisogno; ma non aveva nell’animo ostilità contro il regime. Anzi si era iscritto volentieri alla “palestra del fascio”, abilmente guidata dal dott. Ghelfi, sostenendo vittoriosamente alcuni incontri. Questo lo inorgogliva e gli accresceva la fiducia che aveva nelle sue forze. Prometteva una carriera brillante ed era l’orgoglio del suo rione.
Di famiglia numerosa, di sei maschi e due donne, si era arruolato volontario; e, date le sue doti di agilità fisica, era stato assegnato al battaglione “M” ed inviato a Lampedusa. Di tanto in tanto, quando gli riusciva, correva a Cassino a riabbracciare Assuntina e i suoi.
Un giorno ebbe la gradita sorpresa di rivedere Carmine, il fratello paracadutista in licenza da Viterbo, dove prestava servizio militare. Fu contento di trattenersi con lui e di giocare soprattutto con Totonno: questi lo mandava in sollucchero quando gli premeva l’indice contro il naso schiacciato. Doveva rientrare il 14 giugno, di lunedì, ma non se ne diede pensiero; le cose volgevano al peggio in Sicilia: la sua isola era stata occupata dagli Anglo-Americani due giorni prima e prevedeva che non sarebbe tornato più sotto l’ombra di Montecassino; se non che la domenica mattina arrivarono i Carabinieri e se lo portarono direttamente al carcere di S. Domenico. I1 bombardamento del 10 settembre portò scompiglio nella sua città. I secondini non ebbero animo di lasciare in libertà i reclusi, ma il direttore, temendo per loro una fine tremenda, lasciò cadere come per caso un paio di forbici e Pasquale riuscì abilmente ad aprire tutti i cancelli.
Da Cassino le famiglie dovettero scappare e Pasquale con i suoi si rifugiò a Valleluce, un villaggio nascosto, sperduto tra i monti, privo di strada rotabile e perciò sicuro. La gente girava tranquilla per le stradette, trasformando quasi la frazione in un luogo di svago; in ore fisse della giornata in piazza Chiesa passavano le ragazze con le scarpe ortopediche e il rossetto alle labbra. A Valleluce non c’era né ci sarebbe stata la guerra!
Ma nessuno aveva previsto che l’esercito tedesco aveva fissato un avamposto di difesa della linea Gustav proprio su monte Cifalco ai cui piedi sorgevano le prime case. La mattina un soldato con l’elmetto calato sugli occhi ed il mauser 98 ad armacollo girava per i vicoletti, fischiava tre volte e gridava:
– Soldatenkompagnie, muss man austehen, es ist Zeit aus Gebirge zu gehen!
La compagnia frettolosamente si radunava e si dirigeva verso monte Cifalco.
Ed intanto i Tedeschi, consumata subito una frugale colazione, con gli stivali ferrati e unti di grasso, partivano la mattina presto cantando canzoni di guerra per la montagna, dove scavavano camminamenti, ricoveri, piazzole.
E chiedevano per lo più con fare minaccioso la collaborazione degli uomini; ma tutti fuggivano e di giorno per le case restavano solo donne, vecchi e bambini. Pasquale non li temeva, anzi spesso sollecitava gli amici e chi incontrava a ribellarsi:
– Ci armeremo … qualcuno di voi ha il fucile da caccia … Se ne uccidiamo due, le armi cresceranno.
L’ardore giovanile non gli faceva pensare alle rappresaglie che ci sarebbero state.
II 24 ottobre due Tedeschi della pattuglia che aveva freddato Liberantonio Soave, nell’inseguire il gruppo che fuggiva, saltarono proprio dinanzi all’apertura della “calcara” delle sorgenti di Campo Primo; in essa erano nascosti molti uomini di Cassino e Valleluce, che non si presentavano la mattina in piazza. Il primo dei due fu facilmente disarmato ed il compagno, sotto la minaccia del mitra, alzò le mani. Si discusse animatamente, perché c’era chi voleva iniziare la lotta, in seguito a quella occasione propizia. Ma prevalse il buon senso e furono restituite le armi ai due ribaldi. Forse a questa impresa non fu estranea l’intraprendenza di Pasquale.
Qualche settimana dopo accadde un fatto molto più grave in piazza, alla presenza di decine e decine di persone. I1 giovane venne fermato da due Tedeschi, appostati ad- un angolo, con l’intento di portarlo a lavorare su in montagna; se lo misero al centro e si avviarono verso il Comando.
Ma Pasquale, grazie alla sua forza e all’occhio di pugile, si divincolò, stese a terra i due malcapitati con un diretto al mento, li disarmò e spezzò loro il fucile. Nacque un pandemonio: ci fu un fuggifuggi generale, mentre un gridare concitato si diffondeva per il paesello; intanto alcuni vecchietti, furbi e coraggiosi, si avvicinarono ai due e li aiutarono a rialzarsi, ma nell’animo rallegrandosi.
Da quel giorno i Tedeschi lo cercavano; non conoscendone il nome, lo indicavano soffiando strane parole e puntando l’indice sul naso, quasi a significare che lo aveva piatto, come quello dei pugili; ma i Valleluciani fingevano di non conoscere né lui né la famiglia, che poté tranquillamente restare nella stanzetta a piano terra di vicolo II Cifalco.
Qui, nelle ore più imprevedibili tornava Pasquale, che ormai non si sentiva più sicuro. Era angustiato soprattutto di essere come ignorato ed isolato anche dai suoi stessi concittadini: in genere lo evitavano per non essere eventualmente sorpresi da Pippione e palesemente ritenuti ostili all’invincibile esercito germanico. Poteva parlare unicamente con Valentino, che era pur sempre un ragazzo; si distraeva con Totonno, facendoselo saltare spesso a cavalluccio. Il conforto vero e sicuro in tanta tristezza e solitudine lo trovava nel pensare ad Assuntina, la sua ragazza: ricordava con piacere quando l’attendeva ansioso alla porta della Chiesa delle Cinque Torri o con il piede appoggiato al leone di pietra posto all’ingresso di Corte o sui gradini di Largo Fontana Rosa o lungo il Corso Vittorio Emanuele: il sorriso della sua bella lo colmava di felicità. Ogni tanto si riprometteva di fare ricerche; ma nessuno sapeva dargli informazioni. I1 pericolo ci aveva diviso come il vento fa con le foglie in autunno.
Un giorno propose a Valentino di passare le linee e di arruolarsi nell’esercito americano per combattere alla pari, con le armi, contro gli hitleriani; e chissà, avrebbe potuto pure ritrovare la sua ragazza. L’amico era titubante:
“Se ci sorprenderanno, ci fucileranno, ed io sono giovane e voglio vivere!…”
La mattina del 2 dicembre andò a chiamarlo ugualmente: il cielo era sereno, la giornata sarebbe stata calda e potevano avventurarsi in montagna. Valentino, preso alla sprovvista, si lasciò persuadere ed ambedue si avviarono. Inopinatamente li raggiunse il fratello Salvatore che manifestò il desiderio di aggregarsi a loro, promettendo che avrebbe avuto forza e coraggio.
Tutti e tre si incamminarono in silenzio, fiancheggiando la mulattiera che portava a Cese, per zone impervie, a volte scoperte e pericolose. Non chiedevano informazioni per evitare di parlare e richiamare eventualmente l’attenzione di qualche soldato in perlustrazione. Di tanto in tanto un sasso rotolava giù per il pendio e ricordava che occorreva procedere con estrema cautela; ma i giovanotti ritenevano quasi di essere fuori pericolo e andavano lietamente, sicuri di trovare da mangiare e di conquistarsi la libertà. Evitarono il caseggiato di Cese, per sfuggire all’incontro con persone e di dover dare spiegazioni. Avevano camminato per circa tre ore ed erano stanchi, desideravano sostare per riposarsi. Salvatore si fece ardito e rivelò di aver fame e sete.
Ripresero il cammino e si avvicinarono ad un casolare isolato; Pasquale rivolse la richiesta ad una donna che era sulla porta; questa si accostò al pozzo e attinse acqua fresca che offrì al ragazzo; ma non diede il pane, dicendo che non ne aveva. Erano oltre colle Chiano e vedevano ad Est Vaccareccia di cui avevano spesso sentito parlare.
Improvvisamente si imbatterono in due giovanottoni vestiti con abiti civili, che fecero comprendere con gesti e con strane parole di essere i due piloti dell’aereo abbattuto dalla contraerea la sera precedente, salvatisi con i paracadute. Pasquale non si fidava e confabulò con Valentino: destavano sospetto le giacche e i pantaloni nuovi, belli e a misura; ma il termine “yes” spesso ripetuto ed il modo sorridente e impavido di parlare lo rassicurarono.
Se non che proprio questi due Americani erano ricercati. Ci fu un improvviso gridare e si sentirono sventagliate di mitra: tre Tedeschi erano comparsi alle spalle, su un’altura, ad un centinaio di metri.
Valentino e i paracadutisti si trovarono in salvo dietro un masso, sul quale continuavano a tintinnare i colpi; e ciò confermò che i due erano effettivamente calati dal cielo, perché cani non sbranano cani; Salvatore, incurante delle scariche, fuggì come una lepre e, fatta la curva, si rotolò giù per il pendio. Fu salvo e poté riferire la notizia al paese; Pasquale saltò in un anfratto, mimetizzandosi sotto un riparo di pietre: ripetuti colpi furono mirati verso di lui e fecero pensare alla sua fine.
Intanto la pattuglia si era predisposta per lo scontro: un soldato si fermò in alto con il mauser 98 spianato che s’era fatto scendere dalla spalla e gli altri due come scoiattoli balzarono giù per prendere i due Americani con Valentino.
Pasquale allora, dimenticando che era ricercato e riconoscibile per il naso, con le mani alzate uscì dal nascondiglio e raggiunse il gruppo gridando:
“Siamo di Cassino, i bombardamenti ci hanno distrutto le case, cerchiamo i genitori, lasciateci, staranno aspettandoci, pure voi avere una mamma lontano, molti nostri parenti caput…”.
Ma i due fingevano di non capire; nel frattempo li raggiunse il terzo che, appena vide il giovanotto, lo riconobbe. Disse parole concitate, incomprensibili come scoppiate dalla gola e mostrava tanta allegrezza, sfiorando le dita sul naso. Valentino piangeva disperatamente, mentre ambedue gli Americani sorridenti gli si accostavano con l’anca, come per confortarlo.
I1 più anziano dei tre, mostrando un fare umano gli disse con parole comprensibili:
“Tu piccolo, non gut…”. e gli fece intendere che ad un cenno dato sulla testa poteva scappare, lui avrebbe sparato in aria, poteva stare sicuro.
Si misero in cammino: due Tedeschi precedevano i prigionieri, che avevano le mani dietro alla nuca; Pasquale era penultimo e ultimo Valentino. Per la traccia stretta e sassosa, con un equilibrio precario, tutti e sette rischiavano di precipitare da un momento all’altro. La colonna si era allungata ed i primi Tedeschi erano spesso costretti a girarsi, mostrando minacciosi le armi.
Pasquale chiedeva insistentemente a Valentino di cedergli il posto; spesso rallentava il passo e gli dava calci per farglielo più chiaramente capire.
Ma il ragazzo, fiducioso nella promessa avuta ed anche per lo spavento che ormai lo aveva attanagliato, non gli prestava ascolto; d’altra parte era convinto che Pasquale avrebbe ripetuto l’impresa di piazza Chiesa: oltre tutto qui gli poteva riuscire più agevole, perché il viottolo era scosceso e bastava una semplice spinta data a luogo e a tempo opportuni per avere la meglio; ma il rischio era più grave e ritenne di non dover ubbidire. E poi, che cosa avevano fatto di male?
Arrivati a Valleluce, Valentino si sentì toccare il capo; allora, riconosciuta la stradetta che portava in piazza, se la diede a gambe, approfittando anche della folla che cresceva a dismisura in seguito alle grida strazianti della mamma del giovane cassinate. Gli accorsi, e specialmente i ragazzi, volevano fermare il triste corteo; ma i tre prigionieri procedevano con le mani dietro alla nuca, alteri e con indifferenza. Generò uno strazio Totonno che si attaccò alla giacca di Pasquale:
“Pasqua’, resta con me… ! dove te ne vai?”.
Camminavano diritti, come insensibili a chi era loro intorno; fuori del centro abitato imboccarono un viottolo che portava al cimitero e a S. Elia dopo circa cinque chilometri. Forse andavano a consegnare i prigionieri al Comando, al palazzo Ingarrica.
I1 pomeriggio, Marco che giocava dinanzi al cancello, a dieci metri dalla Chiesa di Casalucense, scorse i tre Tedeschi, che spingevano avanti alle loro armi il giovane con le mani ancora alzate dietro il capo: si divertivano a fargli sentire la punta del fucile alle spalle e se la ridevano allegramente. La madre del ragazzo, Maria Romano, si fece sul cancello e intuì con evidenza che qualcosa di tremendo stava per accadere. Intanto i camerati, che mostravano di comprendere bene l’italiano, scherzavano tra di loro; si mostravano indifferenti e chiesero da bere. Dissero anche che lo riconducevano a Valleluce. La donna, per ingraziarsi la benevolenza dei tre malfattori, prese un fiasco di vino, di quello più abboccato, e tremante lo porse con tre bicchieri; avrebbe rivolto volentieri la richiesta che aveva nel cuore; ma essi non le permisero nemmeno di proferire parola, lieti come erano di divertirsi con il giovane. Afferrarono con veemenza quanto veniva loro offerto e si scostarono. Per lui attinse l’acqua fresca dal pozzo a lato della Chiesa, come il giovane aveva esplicitamente chiesto:
“E fresca? Da questa mattina vado in giro con loro; mi mandano da Ponzio a Pilato. Ma adesso ho capito che fanno sul serio, perciò mi hanno condotto qui al Convento. Chiamami un monaco … Ma non ho commesso peccati! Ho rubato, questo sì, ed ho rubato anche a loro, per distribuire però agli amici, a quelli più affamati di me.
La mia grave colpa è consistita nel non essermi mai piegato a ‘sti stronzi, nel non essere mai andato su a Cifalco a spianare le piazzole. Perciò una mattina ne atterrai due con queste mani, ma senza le armi. Ho fatto male? Ma quale diritto hanno loro di costringermi con il mitra a lavorare sotto le cannonate? Queste cose confesserei ad un giudice e sarei assolto! Ogni tanto dicono che mi accompagnano a Valleluce per riconsegnarmi ai miei, poi balbettano che mi faranno fuori …”.
Padre Marcellino adempì il suo compito con lo sguardo ed il sorriso; e, mentre con la sinistra gli accarezzava la testa riccioluta, aprì l’antiporta e gli mostrò la statua sull’altare.
Avrebbe volentieri assestato un colpo a quel farabutto che portava l’elmetto calato sugli occhi, sarebbe morto durante una lotta, conformemente al suo carattere; ma l’avversario aveva preso le giuste misure e si teneva a distanza di sicurezza. Se non che, fatti alcuni passi, gli si aprì davanti la sua Valle e poté discernere la macchia scura ed indistinta della città; così si rasserenò, correndo con il pensiero ai suoi cari, ad Assuntina, la dolce compagna con la quale aveva disegnato un avvenire lieto di tante gioie. Non lasciava dietro di sé un cattivo ricordo! Doveva affrontare con dignità l’ora estrema! La figura del giovane si stagliava nitida sul bianco della Chiesa, mentre i passi regolari si staccavano dal manto verde del sagrato. I1 sole, rosso di fuoco, si apprestava a calare dietro Montecassino. Camminava sicuro ed incurante dei sorrisi e delle battute degli sgherri. Questi, ignari delle loro azioni, istupiditi dai boati dei cannoneggiamenti, andavano come ad una festa. Lo rincorrevano e gli assestevano colpi sulle natiche se non andava diritto, come fa il pastore con la pecora che procede troppo rasente al margine della strada.
Giunsero in uno spiazzo dove i carbonai avevano innalzato una catasta di legna, coprendola di terra bruna.
Marco, seduto al gradino della porta centrale della Chiesa, spaventato da quella scena sinistra, sentì una sventagliata: l’eco la portò lontano lontano; poi, nel silenzio di tomba, arrivò a lui uno sghignazzare strano.
Gli aguzzini fuggirono via di corsa: forse erano spaventati dell’azione compiuta a tradimento, impazziti per la nefandezza.
Qualche giorno dopo “Sciabulammano”, un Cassinate meglio conosciuto con questo soprannome, che girava nella zona con tanto coraggio, riferì l’accaduto ai familiari.
Questi si recarono subito a Casalucense; fecero quanto prescritto dall’insegnamento cristiano e scapparono via, perché i Tedeschi, secondo l’avvertimento di padre Marcellino, li cercavano per sterminarli tutti.

Dalle testimonianze di
Antonio Angelosanto,
Sabatino Di Cicco,
Salvatore Gabriele,
Valentino Meta,
Carmine e Salvatore Morra.

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