Un nuovo assetto per Terra di Lavoro


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Studi Cassinati, anno 2003, n. 2

di Gaetano De Angelis Curtis*

Fino al 1927 Sant’Elia Fiumerapido ha fatto parte del mandamento di Cassino, circondario di Sora, provincia di Terra di Lavoro cioè di quella che era, come scrive Aldo Di Biasio, «la più vasta, la più popolata, la più produttiva provincia del regno delle Due Sicilie»1. Più che una provincia era considerata una sub-regione a causa del suo ampio respiro territoriale, estendendosi tra la catena appenninica degli Aurunci, a confine con l’Abruzzo a settentrione, e il Principato Ultra a meridione, a sud dell’ex capitale partenopea. Terra di Lavoro, «fortemente policentrica» in quanto caratterizzata dalla presenza di numerosi centri «di rilevante dimensione demografica … o di particolare importanza»2, era costituita da cinque circondari: Caserta, Piedimonte d’Alife (Matese), Nola, Gaeta ed, appunto, Sora, con i suoi nove mandamenti e 39 comuni, con una popolazione, secondo il censimento del 1870, pari a circa 150.000 abitanti, di cui circa 5.400 residenti a S. Elia.

La fine della provincia di Terra di Lavoro
L’unità territoriale di Terra di Lavoro, che vantava secoli di aggregazione, è stata poi interrotta nel 1927 quando il fascismo operò un’ampia riforma amministrativa che portò alla creazione di ben 17 nuove province, fra cui Frosinone, e alla soppressione di un’unica provincia, appunto Terra di Lavoro. Se appaiono più chiari i motivi che hanno indotto il fascismo ad elevare, in tre differenti fasi, ben ventiquattro città a capoluogo di provincia3 (soddisfare gli interessi e le aspirazioni del fascismo provinciale tentando di dare impulso a una stagnante vita locale aprendo nel capoluogo tutti gli uffici periferico dello Stato e del partito come le prefetture, le federazione dei fasci, gli ispettorati, le opere assistenziali, i consigli provinciali dell’economia ecc., esaltare la vita di campagna rispetto a quella delle grandi città in modo da disincentivare l’urbanesimo cioè lo spostamento della popolazione attratta dalle grandi metropoli), invece non sono stati ancora del tutto chiariti i motivi che hanno portato alla soppressione di Terra di Lavoro. Dagli studi effettuati sull’evoluzione delle vicende politiche determinatasi nella seconda metà del 1926 emerge con chiarezza che non esiste un unico motivo, un’unica causa, un’unica ragione a cui far riferimento per un provvedimento di soppressione il quale oltre a non aver uguali né in quel momento né successivamente4, si caratterizza proprio come soluzione diametralmente opposta alle finalità, agli scopi della politica fascista in campo amministrativo-territoriale. Poiché non è stata individuata alcuna causa ufficiale, sono state avanzate una serie di ipotesi desunte dall’analisi delle dichiarazioni del tempo, in primis il discorso tenuto da Mussolini alla Camera dei Deputati il 26 maggio 1927 noto anche come il “discorso dell’Ascensione”, e dal contesto politico sviluppatosi in quegli anni. Dalla dichiarazione del capo del fascismo che «Caserta ha compreso che bisogna rassegnarsi ad essere quartiere di Napoli» scaturisce, secondo alcuni studiosi, una motivazione di ordine geografico cioè quella di dare «respiro» territoriale ad una provincia, quella di Napoli, fino a qual momento penultima in Italia per estensione. Le preoccupazioni del fascismo non si esaurirono, però, nel determinare l’ampliamento della circoscrizione amministrativa partenopea (così avvenne anche per tutte le nuove province, sorte a scapito di quelle limitrofe, ma in Campania si andò oltre i semplici ampliamenti o le decurtazioni di aree e zone), poiché, sollecitato forse dagli ideali di quella latinità che si apprestava a fare propri e a diffondere nell’opinione pubblica del tempo, volle ridefinire gli ambiti territoriali del Lazio.

Il governatorato di Roma
Infatti dall’unificazione nazionale fino al 1927 il Lazio coincideva con la provincia di Roma (un caso che ricorreva solo per Umbria e Basilicata che però avevano un’estensione territoriale inferiore) e rappresentava quella parte dello Stato della Chiesa sopravvissuto tra il 1861 e il 1870. Praticamente però i limiti della regione Lazio fissati nel 1850 da Pio IX (con l’eccezione del solo territorio di Orvieto che nel corso degli anni passerà definitivamente all’Umbria) rimasero invariati per oltre settanta anni. Certo vennero a determinarsi delle mutazioni dopo la presa di Porta Pia perché diverse erano le leggi che regolavano l’aspetto territoriale con il nuovo Stato e che portarono alla definizione di quattro circondari (Civitavecchia, Frosinone, Velletri e Viterbo) all’interno della provincia di Roma, ma quella delineatasi nel 1870 si presentava, come scrive Caracciolo, come una regione «residuale»5. Nel corso del 1923 la provincia romana era stata ampliata con l’aggregazione del circondario di Rieti distaccato da Perugia (dopo che Terni aveva avanzato maggiori pretese per diventare la seconda provincia dell’Umbria) e tale ampliamento contribuì a stimolare il dibattito sull’ordinamento amministrativo dell’intera area laziale. Da quel momento varie soluzioni vennero prospettate: innanzitutto si ipotizzò la creazione di un regime amministrativo separato per Roma creando un governatorato limitato al comune di Roma, affiancato da varie province dell’entroterra che per alcuni dovevano essere in numero di tre (Tuscia, Sabina e Lazio) per altri solo due (Viterbo con annessa Sabina, Frosinone con annesso circondario di Sora)6. Il governatorato di Roma venne creato con una circoscrizione di competenza che era rappresentata dal territorio comunale, anche se prevedeva la possibilità di allargarsi anche ad aree limitrofe, continuando comunque a far parte della provincia di Roma.

Il nuovo Lazio
Nel 1926 furono prese le scelte definitive: in ottobre un regio decreto abolì i circondari (furono 94 in tutta Italia) e in dicembre il consiglio dei ministri deliberò l’istituzione di 17 nuove province fra cui le tre laziali (Viterbo, Rieti e Frosinone). Tra ciò che venne approvato dal Consiglio dei ministri e quanto poi realmente attuato dal Regio Decreto n. 1 del 2 gennaio 1927 esistono sostanziali differenze: sia la provincia di Viterbo che quella di Frosinone avrebbe dovuto avere originariamente una notevole fascia costiera invece al momento dell’effettiva istituzione diventavano interne e il litorale laziale rimase interamente posto nella circoscrizione romana. Frosinone che avrebbe dovuto essere costituita all’omonimo circondario, da quello di Sora e parte di quello di Gaeta (complessivamente nove comuni a nord della foce del Garigliano) con l’aggiunta dei mandamenti di Segni e Terracina (appartenenti al circondario di Velletri) invece perse questi ultimi due mandamenti (la motivazione venne individuata nella mancanza di efficienti comunicazioni con il litorale)7. La restante parte del territorio di Terra di Lavoro (da Minturno, Formia, Gaeta) venne aggregata alla residuale circoscrizione provinciale romana (Terracina, Velletri, Civitavecchia). A parte qualche cambiamento territoriale successivo (Ponza e Ventotene aggregate inizialmente a Roma vennero passate alla provincia di Napoli e successivamente a quella di Littoria; l’istituzione, nel 1934, della stessa provincia di Littoria ricavata completamente dalla circoscrizione romana), questo nuovo Lazio era stato edificato aggregando realtà diverse e sottraendo territori soprattutto alla Campania (che si vedeva ulteriormente penalizzare con la soppressione, unico caso, della provincia di Caserta)8, all’Umbria o all’Abruzzo. Per dare un retroterra a Roma, attraverso un riequilibrio territoriale tra capoluogo e periferia, il fascismo usò la «mano pesante»9 ed è appunto per questo carattere artificioso con cui si è giunti a ‘costruire’ la circoscrizione amministrativa del Lazio odierno che Musci lo definisce come “regione definita, regione indefinibile”10.

Industrie nel basso frusinate
Tornando al Circondario di Sora questo può essere suddiviso geograficamente in due differenti ambienti, situati parallelamente e che hanno i due estremi in Cassino e in Sora: quello più occidentale comprende i territori di Piedimonte-Roccasecca-Arce-Isola Liri, l’altro è più orientale e comprende S. Elia-Atina-Vicalvi-Broccostella. Queste due zone, divise da vari contrafforti montuosi, sono caratterizzate dalla presenza dei corsi d’acqua più importanti che aveva il circondario di Sora: il Liri da una parte e il Melfa-Rapido dall’altra. Non a caso lungo questi fiumi nel corso degli anni si sono sviluppate le attività industriali: le cartiere e le fabbriche di pannilani di Isola-Arpino-Sora da una parte (ma non solo: l’abbondanza di acqua offerta dal Liri fu alla base dell’installazione di altri insediamenti produttivi come il Polverificio di Fontana Liri)11, ancora cartiere e pannilani a S. Elia-Atina dall’altra (il progetto di installazione di una fabbrica di lavorazione delle polveri lungo il fiume Rapido non si concretizzò per i timori espressi dai proprietari dei terreni quando già le pratiche burocratiche erano state avviate).
L’avv. Mario Mancini nella sua famosa monografia dedicata al Circondario di Sora nell’ambito della prima grande inchiesta italiana sull’agricoltura, passata alla storia come Inchiesta Jacini, svoltasi all’incirca un ventennio dopo l’unificazione nazionale, metteva in evidenza che intorno al 1880 gli addetti alle industrie del Circondario complessivamente erano 4600, di cui 1860 uomini, 1550 donne e 1190 fanciulli. Scriveva inoltre che negli stabilimenti di pannilani di Arpino e S. Elia gli “operai campagnoli” erano in numero inferiore a quello degli operai artigiani12 (mentre a Isola e Sora era il contrario) e ciò sta a significare, evidentemente, che a S. Elia chi aveva un appezzamento di terra lo coltivava generazione dopo generazione, mentre pochi erano quelli che si riciclavano nelle industrie, le quali invece richiamavano manodopera specializzata da altri comuni, come quello di Isola Liri, che potevano vantare una più consolidata esperienza in analoghe attività produttive. Al massimo poteva succedere che i coltivatori santeliani cercassero di aumentare i loro «tisici bilanci» lavorando nel settore edilizio o nelle fabbriche in inverno, cioè nel periodo di sospensione del lavoro della terra13.

Nuove ferrovie
Se lungo i fiumi si sviluppavano le attività produttive quasi parallelamente ai corsi d’acqua correvano le sedi stradali di comunicazione tra le due città più importanti del Circondario, mentre i collegamenti su rotaia erano, e lo sono ancora oggi, affidati ad un’unica linea ferroviaria che si snoda nella parte occidentale del territorio. Peraltro nel corso degli anni erano stati due i progetti presentati per la costruzione di strade ferrate: uno si sviluppava da Roccasecca a Sora e fino ad Avezzano, e sembrava che dovesse essere realizzato subito dopo l’unificazione nazionale a causa della sua funzione strategica in quanto il percorso, partendo da Rieti, lambiva il confine con lo Stato della Chiesa. Con la breccia di Porta Pia sembrava aver perso d’importanza ma poi la tratta venne comunque realizzata ed entrò in funzione nel 1892 fino a Sora e nel 1902 fino ad Avezzano, anche nel tentativo di risollevare le tristi condizioni economiche del territorio dovute alla forte crisi in cui erano piombate le industrie del luogo. L’altro progetto di strada ferrata era stato presentato dall’on. Alfonso Visocchi il cui percorso, come è accennato anche da Petrucci14, si sviluppava sempre da Cassino a Sora ma prevedeva l’attraversamento della Val di Comino. Tale progetto però non venne mai realizzato per una serie di motivi: innanzi tutto perché si presentava come alternativo alla Roccasecca-Sora ma non prevedeva il prolungamento fino al capoluogo marsicano mentre il collegamento tra Sora ed Isola Liri era costituito da un inedito tratto a tramway; perché l’iter burocratico della Roccasecca-Sora era già in avanzata fase di maturazione; per vari problemi amministrativi (il comune di S. Donato deliberò varie volte nel tentativo di far cambiare parte del tracciato ricadente nel proprio territorio); per opposizioni interne (come quella di Carmelo Sipari di Alvito, padre di quell’Erminio fondatore del Parco Nazione d’Abruzzo)15.

Tra alluvioni e malaria
Di certo il bene essenziale e preminente per le attività lavorative in genere era l’acqua: l’abbondanza di acqua significava lavoro, sviluppo, ricchezza, è vero quanto scrive d. Faustino Avagliano cioè che «la presenza dell’acqua per ogni centro è segno di vitalità e di floridezza economica»16. Pur tuttavia l’abbondanza di tale elemento vitale ha anche un rovescio della medaglia: il dissesto idrogeologico ha determinato nel corso degli anni alluvioni, inondazioni, distruzioni, decessi e problemi sanitari come quelli malarici. «L’ululato rabbioso del fiume»17 provocato dalle abbondanti piogge e la mancata irregimentazione delle acque hanno provocato ciclicamente guasti e danni come quelli verificatisi in occasione dell’inondazione di Cassino del 1893: a partire dalla mattinata del 12 novembre 1893 e per ventiquattro ore consecutive continuò incessantemente a piovere finché a mezzogiorno del 13 novembre la città si trovò completamente inondata dall’acqua che aveva raggiunto anche i due metri d’altezza ed aveva provocato la morte di cinque persone, tra cui due bambini18. Di tale vicenda se ne ha traccia, a conferma della gravità dell’accaduto, anche in una relazione redatta da un ispettore ministeriale incaricato di svolgere un’inchiesta amministrativa presso il comune di Cassino19. Ben più grave fu però la situazione venutasi a determinare una quindicina di anni prima: nell’estate del 1879 scoppiò una violenta epidemia di malaria che provocò la morte di numerose persone e che toccò gran parte dei comuni del Circondario, sia quelli più direttamente a ridosso del Liri, sia quelli lungo il Rapido-Gari e quindi Cassino-Cervaro e S. Elia. Le abbondanti piogge cadute nel corso della primavera del 1879 (la stazione meteorologica di Montecassino registrò una piovosità del mese di maggio superiore di dieci volte rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente)20, seguite da una forte siccità estiva (praticamente non piovve mai in giugno e luglio) con elevate temperature, furono fattori che provocarono una fortissima infezione malarica. Il forte caldo sviluppatosi in estate, facendo evaporare parte dell’acqua straripata nei campi nei mesi precedenti, causò la formazione di numerose pozze sui terreni di pianura in cui aveva trovato il suo habitat di sviluppo l’agente infettivo della malaria, trasportato poi anche a chilometri di distanza dalle zanzare. Della questione sanitaria venne coinvolto Achille Spatuzzi, docente di igiene presso l’università di Napoli ma originario di San Giorgio a Liri e consigliere provinciale di Terra di Lavoro per il mandamento di Esperia. All’inizio di aprile del 1880 effettuò una serie di sopralluoghi del fiume Vilneo e percorse in sandalo il Gari giungendo alla conclusione che «la causa principale della infezione malarica [sta] nelle speciali condizioni idrologiche del territorio tra Cervaro, S. Elia e Cassino»21. Predispose una relazione medico-scientifica destinata al Consiglio provinciale di sanità sulla situazione sanitaria nella valle del Liri22. Continuò a seguire e a pungolare il consiglio provinciale di Terra di Lavoro, non esitando ad entrare in polemica con rappresentanti parlamentari come l’on. Federico Grossi, per sollecitare le autorità ministeriali ad effettuare le opere di bonifica che reclamava il territorio23, fino a che non venne nominata una commissione igienica composta da alcuni docenti dell’università di Roma, dai parlamentari eletti nel territorio, Alfonso Visocchi e Federico Grossi, dallo stesso Spatuzzi e dai sindaci di Cassino e S. Elia, Benedetto Nicoletti e Marco Lanni24. La presenza nella commissione del capo dell’amministrazione comunale dimostra quale incidenza avesse tale problema sanitario anche a S. Elia. Infatti l’epidemia malarica dell’estate 1879 non risparmiò la popolazione del comune: nonostante gli sforzi compiuti dagli amministratori locali, dalla Congrega di Carità e in particolar modo l’opera prestata dal dott. Antonio Riga, più di un quinto degli abitanti (1130 su 5288) contrasse la malattia, mentre 15 furono i decessi25. I motivi di una così ampia diffusione della malaria venivano fatti risalire alle «condizioni deplorevolissime dei corsi d’acqua» i quali ingrossati dalle piogge primaverili ed autunnali finivano per straripare allagando ed impaludando le campagne. L’unico aspetto positivo era dato dalla «bassa temperatura» delle sorgenti e delle acque della valle del Rapido che riuscivano, in condizioni di normalità, ad attenuare la «fermentazione e la propagazione delle spore», ma quando la calura e la siccità estiva colpivano con particolarmente veemenza si creavano le condizioni ideali per la diffusione della malaria e «ciò principalmente dà origine alle epidemie che annualmente si verificassero in quel di S. Elia e Cassino»26.

L’agricoltura a S. Elia
Uno spaccato sullo stato dell’agricoltura santeliana è offerto dalla già citata Monografia di Mario Mancini, la quale ci offre una fotografia sull’attività agricola svolta a S. Elia nella seconda metà dell’Ottocento. Lo studio condotto dall’avvocato di Atina si sofferma sulle coltivazioni più tradizionali di S. Elia, come quella dell’olivo (“regione privilegiata” la definisce, assieme a Cervaro, Roccasecca, Arpino e San Donato costituendo la «massima e per taluno di essi l’unica ricchezza agricola del loro territorio»)27, e dei vitigni (le qualità di uve riportate sono di cinque differenti tipologie suddivise in bianche come la Capolongo, il Matulano di 11 gradi, la Frabotta di 8 e mezzo, la Sancinella e il Coccorosa ambedue di 9 gradi; un’unica di tipo nera denominata Olivella era di 9 gradi)28. Particolare attenzione è rivolta, nello stesso studio, all’attività svolta dai Visocchi nella tenuta di Chiusanuova. Qui accanto all’impianto di viti, ricordato anche da Giovanni Petrucci29, era stato introdotto l’allevamento di mucche: si trattava di «una quarantina di vacche svizzere dal latte delle quali si ottiene del burro eccellente, che fornisce abbondantemente i mercati del circondario, e una grossa produzione di quel formaggio, detto fra noi caciocavallo produzione che sale fino a trenta quintali l’anno, e che ordinariamente si vende all’ingrosso a Napoli al prezzo medio di due lire al chilo». Mancini evidenziava, inoltre, «con maggior soddisfazione», che l’allevamento dei Visocchi funzionava da stimolo per gli agricoltori di S. Elia per cui anche questi ultimi avevano cominciato ad introdurre alcuni capi di bestiame30. Dal lavoro di Mancini si possono trarre anche altre importanti ed utili informazioni. Ad esempio che apprezzata era la produzione di ortaggi, smerciati nei mercati dei comuni vicini31; oppure che negli anni in cui la guerra d’indipendenza americana aveva fatto rincarare il prezzo del cotone nelle campagne di S. Elia era stato avviato un esperimento di coltivazione appunto del cotone ma esso non aveva dato buoni esiti: il sopraggiungere di un autunno «umido e freddo» più del consueto, sommato ad un clima non sufficientemente caldo per quel tipo di lavorazione aveva consentito una produzione di «ottima qualità» ma «scarsa» per cui l’esperimento era stato abbandonato32; oppure che a partire dall’anno scolastico 1878-79 era stata avviata una scuola d’agricoltura frequentata da 44 allievi (in tutto il circondario erano state attivate solamente due di queste scuole: quella di S. Elia ed un’altra a S. Vittore)33.


1 A. Di Biasio, La questione meridionale in Terra di Lavoro 1800-1900, Edi-Sud, Napoli 1975, p. XIV
2 G. Galasso, Dalla Terra di Lavoro alla provincia di Caserta: travaglio e durata di un’antica circoscrizione provinciale, in G. De Nitto e G. Tescione (a cura di), Caserta e la sua diocesi, vol. I, Territorio, Istituzioni, Politica, Economia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 19
3 I provvedimenti amministrativi di modifiche territoriali, adottati dal fascismo in tre momenti diversi, portarono alla creazione delle seguenti nuove province: nel 1923-24 quelle di La Spezia, Imperia, Trieste, Brindisi e Zara; nel 1927 quelle di Aosta e Vercelli (Piemonte), Savona (Liguria), Varese (Lombardia), Bolzano (Venezia Tridentina), Gorizia (Venezia Giulia), Pistoia (Toscana), Terni (Umbria), Viterbo, Rieti e Frosinone (Lazio), Pescara (Abruzzo), Matera (Basilicata), Taranto (Puglie), Enna e Ragusa (Sicilia), Nuoro (Sardegna); infine nel 1934 quelle di Asti e Littoria. Sulle riforme amministrativo-territoriali in età fascista cfr. A. Parisella, Costellazione di poteri e fascismo di provincia, in M. Suárez Cortina – S. Casmirri (a cura di), La Europa del Sur en la época liberal. Espaòa, Italia y Portugal, Servicio de publicaciones de la Universidad de Cantabria y Università di Cassino, Santander 1998
4 Precedentemente c’era stato un solo caso di soppressione, nel 1923, e riguardava Gorizia perché «a maggioranza slava», ma quattro anni dopo era stata ricostituita, cfr. n. 3
5 A. Caracciolo, La regione storica e reale, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi. Il Lazio, Einaudi, Torino 1991, p. 5
6 L. Musci, Il Lazio contemporaneo: regione definita, regione indefinibile, in Atlante storico-politico del Lazio, Laterza, Roma 1996, 139; è interessante notare che ancora oggi, ad oltre settant’anni di distanza, non è stata ancora individuata una soluzione (area metropolitana, città-regione, distretto ecc. ) per Roma in relazione al suo speciale status essendo oltre che il comune più esteso d’Italia, anche capoluogo di provincia, di regione e capitale
7 Nel marzo del 1927 la provincia di Frosinone acquisì il mandamento di Vallecorsa che d’altra parte aveva fatto parte del vecchio circondario
8 La provincia di Caserta venne ricostituita nel 1945. Venne ridata così «identità a una popolazione e autonomia a uno spazio economico» (G. Galasso, Dalla Terra di Lavoro cit.) ma non ebbe la stessa estenzione ante 1927, perdendo definitvamente i territori dei vecchi circondari di Sora e Gaeta (dispersi tra Frosinone e Latina), e di Nola (Napoli)
9 L. Musci, Il Lazio contemporaneo cit., 131
10 Ibid.
11 Su tale vicenda cfr. F. Corradini, Un inedito di Federico Grossi: “Come fu prescelto Fontana Liri per il nuovo Polverificio”, in «Terra di Lavoro dei Volsci», Annali del Museo Archeologico di Frosinone, 1, 1998
12 Mancini M., Sulle condizioni agrarie del Circondario di Sora. Monografia, in Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. VII, Forzani, Roma 1882, p. 337
13 Ivi., p. 282
14 G. Petrucci, Sant’Elia e il fiume Rapido, Biblioteca del Lazio meridionale, Montecassino 2000, p. 84
15 Le articolate vicende politico-amministrative relative a tale progetto sono state ricostruite da L. Arnone Sipari, Élite locale e infrastrutture: il caso della ferrovia Cassino-Atina-Sora (1883-1914), in S. Casmirri (a cura di), Lo Stato in periferia. Poteri locali e politica nazionale nel Mezzogiorno postunitario, Centro editoriale d’Ateneo, Università degli Studi di Cassino (in corso di stampa)
16 F. Avagliano, Presentazione, in G. Petrucci, Sant’Elia cit., p. 12
17 G. Petrucci, Sant’Elia cit., p. 32
18 T. Vizzaccaro, Cassino dall’Ottocento al Novecento, SEL, Roma 1997, pp. 238-241
19 Sulla vicenda cfr. anche G. de Angelis-Curtis, Un ceto di notabili tra amministrazione e gruppi di interesse: i sindaci del cassinate alla fine dell’Ottocento (1870-1900), in S. Casmirri (a cura di), Le élites italiane prima e dopo l’unità: formazione e vita civile, Caramanica, Marina di Minturno 2000, p. 281
20 Mancini M., Sulle condizioni agrarie cit., p. 233
21 [A. Spatuzzi], Parere del Consiglio provinciale di Sanità di Terra di Lavoro intorno alle cause endemiche della malaria nella Valle del Liri, G. Nobile, Caserta 1880, p. 12
22 Ibid.
23 Atti del Consiglio Provinciale di Terra di Lavoro, Sessione Ordinaria, Tornata del 18 ottobre 1883, Tip. Turi, Caserta 1884, pp. 92-100
24 T. Vizzaccaro, Il Circondario di Sora all’unificazione del regno (1870), «Strenna Ciociara», Casamari 1970, 77
25 Archivio di Stato di Frosinone, Sottoprefettura di Sora, Sora, b. 547.
26 Mancini M., Sulle condizioni agrarie cit., p. 339.
27 Ivi., p. 244.
28 Ivi., pp. 246-250.
29 G. Petrucci, Sant’Elia cit., p. 67.
30 Mancini M., Sulle condizioni agrarie cit., pp. 268-269.
31 Ivi., p. 257.
32 Ibid.
33 Mancini M., Sulle condizioni agrarie cit., p. 305.

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