Il 4 novembre 1918 del tenente Olindo Bartolomucci


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Studi Cassinati, anno 2017, n. 1
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di Gaetano de Angelis-Curtis

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Olindo Bartolomucci in abiti civili; per gentile concessione di Daniele Bartolomucci.

Olindo Bartolomucci in abiti civili; per gentile concessione di Daniele Bartolomucci.

Olindo Bartolomucci, nato a Picinisco il 28 gennaio 1887, era figlio del cav. Giacinto e di Elisa Rossi. Avvocato, il 25 ottobre 1919 sposò Bice Visocchi, figlia di Orazio, l’industriale atinate presidente del Consiglio provinciale di Terra di Lavoro. La cerimonia di matrimonio fu molto sobria a causa del grave lutto che aveva colpito la famiglia della sposa. Infatti il 4 novembre 1918, proprio nello stesso giorno dell’entrata in vigore dell’armistizio e quando Olindo Bartolumucci era impegnato presso la sede del suo comando con alti ufficiali austriaci, nell’ospedale di Pavia era spirato l’ing. Alfredo Visocchi1, fratello di Bice. Le nozze, celebratesi a quasi un anno di distanza, ebbero come testimoni del rito civile Achille Visocchi, ministro dell’Agricoltura, Giuseppe Visocchi, Guido Mancini e Mario Mancini, e del rito religioso Pietro e Francesco Sipari, zii della sposa2. Olindo Bartolomucci è deceduto a Roma il 13 gennaio 1946.

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Vita militare

Olindo Bartolomucci in divisa da ufficiale; per gentile concessione di Daniele Bartolomucci.

Olindo Bartolomucci in divisa da ufficiale; per gentile concessione di Daniele Bartolomucci.

Olindo Bartolomucci era stato chiamato alle armi, come soldato di 1ª categoria, il 5 maggio 1908. Inizialmente ammesso al ritardo del servizio, fu autorizzato, il 15 novembre 1909, al volontariato di un anno e, assegnato al Reggimento Piemonte Reale Cavalleria (2°) che aveva sede in Santa Maria Capua Vetere, il primo dicembre successivo iniziò il corso d’istruzione. Il 31 maggio 1910 fu nominato caporale e il 30 novembre, promosso sergente, fu inviato in congedo. Fu richiamato il primo luglio 1913, assegnato al Reggimento Lancieri con sede a Terni. Poi il 31 dicembre 1914 venne destinato al 5° Reggimento Artiglieria da Campagna a Venaria Reale. Promosso sotto tenente di complemento dell’arma di Cavalleria, effettivo al Reggimento Cavalleggeri di Piacenza, il 15 marzo 1915 fu assegnato al 10° Reggimento Artiglieria da Campagna per il comando d’una sezione per munizioni per Fanteria, in qualità di ufficiale esploratore al Comando 2° gruppo. Dopo aver prestato, il 27 aprile, giuramento di fedeltà a Caserta, il 23 maggio entrò in territorio dichiarato in stato di guerra. Da quella data e fino al 22 ottobre 1916 prestò servizio presso la Colonna munizioni, sezione per Fanteria, del 10° Reggimento Artiglieria da Campagna. Nel frattempo, il 19 maggio 1916, era stato promosso tenente. Il 10 marzo 1917 fu assegnato al 39° Reggimento Fanteria, Reggimento Cavalleggeri di Piacenza (18°) in seguito a ordine del Comando generale dell’arma di Cavalleria. Vi prestò servizio fino al 15 novembre 1918 e da quella data al 31 dicembre fu assegnato al Comando della 6ª Armata. Il primo marzo 1919 venne collocato in congedo definitivo. Fu autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa nazionale della guerra 1915-18, ad apporre sul nastro della medaglia le fascette corrispondenti agli anni di campagna 1915-1916-1917-1918, e a fregiarsi della medaglia interalleata della vittoria.

Olindo Bartolomucci e i Lancieri (per gentile concessione di Daniele Bartolomucci).

Olindo Bartolomucci e i Lancieri (per gentile concessione di Daniele Bartolomucci).

In data 10 luglio 1915 aveva inviato una «amabile» lettera al giornale «Terra di Lavoro» nella quale riportava notizie «da un punto di osservazione avanzata» e chiusa dal grido «Viva l’Italia! Viva il suo Re!»3. Poi, nei giorni immediatamente successivi alla firma dell’armistizio sottoscritto tra Italia e Austria a Villa Giusti a Padova, inviò al periodico casertano un nuovo articolo in cui descrisse alcune vicende svoltesi nel corso della storica giornata dell 4 novembre, quando, a partire dalle ore quattro del pomeriggio tacquero definitivamente le armi.

Fin dalle prime ore del mattino di quel giorno, erano giunti, in automobile, nella sede del comando di Olindo Bartolomucci vari ufficiali austriaci «per parlamentare. Alle 9 del mattino erano [stati] già messi in libertà per ritornare alle loro linee». Tuttavia uno dei generali austriaci, l’anziano principe di Braganze, prima di far ritorno al proprio comando chiese di poter andare a riposare. Qualche ora dopo Olindo Bartolomucci e altri due ufficiali italiani vennero incaricati di scortare fino al loro quartier generale il principe di Braganze e gli uomini al suo seguito, un conte, sottotenente ufficiale d’ordinanza, e un barone, capitano aiutante di campo, tutte persone distinte che parlavano varie lingue, fra cui il francese, per cui fu facile per gli accompagnatori italiani intendersi con loro durante il viaggio. Olindo Bartolomucci ebbe così la possibilità di svolgere, a bordo di una Lancia, una «gita indimenticabile» come egli stesso la definì. Attraversò quello che fino a poco prima era stato il fronte di guerra con le sue immediate retrovie e arrivò fino a Trento, giungendovi diciotto ore dopo l’occupazione della città da parte delle truppe italiane, dove trovò «dovunque» bandiere tricolori e qualche ritratto dei Savoia. Tra l’altro scrisse di aver provveduto a inviare a casa una cartolina di Trento, così come raccontava di uno sfortunato aneddoto. Infatti per strada aveva incontrato un’altra delegazione di ufficiali austriaci scortata da un ufficiale inglese a cui aveva provveduto a scattare delle foto ma purtroppo, e se ne rammaricava, la «pellicola [era] venuta tutta bianca». A Trento vi regnava «da per tutto un disordine, una confusione da non credersi», in città c’erano «diecimila internati» e perfino «prigionieri russi, mezzo stupiditi», ma in tutto il suo viaggio aveva incontrato «prigionieri dovunque». «Un successo fantastico – un disastro completo per i nostri nemici», commentava.

Nella tragicità degli eventi, con distruzioni e morti, è una narrazione asciutta ma puntuale e dettagliata del viaggio compiuto con una efficace descrizione delle città distrutte o semi distrutte attraversate, dello sconquasso e dello sfacelo dell’esercito imperiale ma anche con l’ammirazione per le opere difensive approntate dagli austriaci (trincee in cemento armato, quantitativi enormi di rifornimenti militari), dell’accoglienza da parte della popolazione incontrata, delle piccole difficoltà nella lingua e nel cambio di valuta per il pagamento di consumazioni e l’acquisto di beni voluttuari. Val la pena, dunque, di riproporre l’articolo integralmente.

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8 Bart 4

Nell’Italia redenta.

Lettera del tenente avv. Olindo Bartolomucci4

Il nostro valoroso comprovinciale tenente avv. Olindo Bartolomucci, dei cavalleggeri di Piacenza – il quale è stato strenuamente in prima linea durante tutta la nostra guerra, espletando sempre con sagace successo le ardue missioni affidategli – ci fa il grandissimo regalo d’inviarci la seguente notevole e suggestiva lettera, che inseriamo nelle nostre colonne col più gran compiacimento:

                                                                               9 novembre 1918

Torno ora da Trento.

Una gita indimenticabile, un successo fantastico – un disastro completo per i nostri nemici!

Nelle ore piccole del giorno 4 novembre giunsero al nostro Comando vari ufficiali austriaci – in automobile – per parlamentare. Alle 9 del mattino erano già messi in libertà per ritornare alle loro linee; ma un generale, il più vecchio, il principe di Braganze, ex comandante della 6ª divisione di cavalleria appiedata (fino al giorno innanzi in trincea ad Asiago ed ora completamente prigioniera con carreggio e cavalli), domandò e ottenne di poter andare a riposare.

Fu questo il motivo della mia andata a Trento, diciotto ore dopo la sua occupazione. Due ufficiali ed io fummo incaricati di riaccompagnare al di là delle nostre linee il principe, un vecchietto, mezzo curvo, intabarrato nelle sue pelliccie, pieno di decorazioni e tutto lucido, anche nelle bande rosse dei suoi pantaloni. Egli aveva al suo seguito un conte e un barone; uno sottotenente che corrisponderebbe al nostro ufficiale d’ordinanza, l’altro, capitano, che faceva da aiutante di campo. Distinte persone, che parlavano varie lingue, non escluso il francese; quindi fu facile a intendersi.

Il sottotenente, un ragazzino sulla ventina, tutto pieno di ninnoli, scherzava e rideva, quasi non sapeva ancora che la sua nazione e il suo esercito erano tramontati per sempre. Seccatissimo e muto, il capitano fumava, masticando rabbiosamente grosse sigarette; mite, il principe ci rivolgeva spesso la parola.

Dopo un primo momento di silenzio, mentre la Lancia filava, rombando, verso Bassano, sospirando ci disse inca attivo italiano: “Fortunato il vostro Re; è uno dei pochi che esce da questa guerra con il suo Regno ingrandito! … E Carlo non è cattivo: egli espia le colpe degli altri; dovrà contentarsi di un piccolo Stato ma … non è cattivo: così pure il Kronprinz! Cattivo nell’animo è il Kaiser! Se egli abdicasse la pace sarebbe subito firmata!”.

Passiamo, intanto, per Bassano disabitata. A terra, per le strade, dovunque vetri rotti dagli ultimi rabbiosi bombardamenti. Prima d’incominciare la ritirata-disastro,ultimo sfogo di una barbarie senza nome, il cannone nemico tuonava metodicamente, colpendo un centro da tempo disabitato!

Ci incanaliamo per la Val Brenta. A Solegna, S. Nazario, Valstagna, la lotta delle artiglierie dev’essere stata qualche cosa di fantasticamente micidiale. Vediamo gli alberi estirpati dalle grosse granate, i muri delle poche case ripetutamente colpiti e sforacchiati, le rotaie del treno divelte, rivolte verso il cielo grigio, quasi due lunghe braccia imploranti misericordia, pietà e pace! A. S. Marino, a Cismon la furia è ancora peggiore e raggiunge il diapason a Primolano.

I nostri aeroplani hanno sconvolto cielo e terra. La strada è ingombra di sassi, la stazione e il piano scaricatoio sono colpiti da migliaia e migliaia di bombe e grossi colpi, che hanno lasciato a terra spaventosi imbuti grigio-giallastri, donde emana ancora l’odore acre del gas asfissiante! Contro un ponte della ferrovia vi sono migliaia e migliaia di colpi. Un palo del telegrafo, colpito a metà, penzola dall’alto, sorretto ancora dai fili.

Guardiamo con curiosità le trincee avversarie, quasi tutte in cemento, le postazioni di mitragliatrici, quasi tutte in roccia, e i reticolati fittissimi, interminabili, siepi addirittura!

Ecco il forte di Primolano: è saltato tutto in aria! Si vedono le mura, doppie dieci metri, tutte in muratura compatta, squarciate a metà! L’esplosione della polvere ha fatto sulla breccia strani disegni, a nuvola, che ricordano le fantasie futuristiche di felice memoria! … E più ci inoltriamo, più la distruzione è completa. I pali del telegrafo, segati, son precipitati sulla strada, i ponti son tutti saltati; il ponte di Grigno è completamente distrutto.

Le baracche son quasi tutte incendiate, i depositi di munizioni, saltando, han fatto intorno una granata spaventosa di sassi e bossoli, sconvolgendo il terreno e facendo crollare le case più vicine. Qualche deposito vestiario brucia ancora; un deposito di benzina, incendiato ha fatto gialla la terra per un circolo di oltre cinquecento metri! E, da per tutto, segni evidenti della lotta e della sconfitta. Dovunque sono elmetti, pastrani, copertine da campo, cucine, qualche fucile e qualche primo cannone.

Proseguiamo a stento, in mezzo a mille accidentalità, in mezzo a mille sbalzi, l’uno più forte dell’altro. Le balestre della nostra macchina sono state ben collaudate, e quindi noi sempre avanti!

A Ospedaletto troviamo un campo di aviazione: gli Hangar intatti, un apparecchio scentrato, giace a terra, in mezzo a un verde pittoresco!

Giungiamo, finalmente a Borgo, una cittadina quasi distrutta dal cannone nostro e dal furore dei barbari, prima di ritirarsi. Appena entriamo, ci colpisce subito il cattivo odore di cadavere. Per le strade un vero magazzino di equipaggiamento: fucili, zaini, mitragliatrici, coperte, carogne di cavalli, cani randagi, ambulanze della Croce Rossa, carrettini di mille specie, bossoli, cartucce, nastri per mitragliatrici … Sappiamo che lì due reggimenti hanno deposto le armi.

Sui muri, strisce rabbiose di pallottole, vetri rotti, finestre divelte, porte sfondate. In mezzo a quella devastazione vagola, famelico, qualche borghese. Una donna con il suo mussetto, torna indietro, disperata; del suo non ha trovato più nulla!

Proseguiamo. La strada è piena di cavalli morti; qualche altro affamato, gira per i campi di granturco, a volontà, e non si volta neppure al rumore dell’automobile. Brucia, in lontananza, una botte di grasso, mandando un fumo denso e un odore nauseabondo! Dovunque sono scritte in tedesco e molti i posti di controllo. Sui vagoni del treno vediamo intatte migliaia e migliaia di casse per munizioni: tabelle, a caratteri cubitali, dovunque: “Velocità massima per auto Km. 6 l’ora”.

Martu, Novaledo sono anche distrutte, sfasciate, bruciate. Ammiriamo la sede di un comando di gruppo di artiglieria: i soldati dormivano tutti su trucioli di legno. Per istrada cominciamo a sentir caldo e ci si toglie la pelliccia. Anche il buon vecchio Iddio, questa volta, e con noi! E poi siamo a Levico, una stazione climatica, che ci ricorda Napoli, e così viviamo un’ora di nostalgia. Il paese non è grande, ma è carino; la natura tutti intorno, è bellissima. Il Grand Hotel, quasi intatto e già sede del comando della armata austriaca, è superbamente bello, con un parco incantevole, dove campeggiano la palma e l’olivo. Appena fuori l’abitato, la strada rasenta il lago che finisce in una strozzatura: tutte le colline intorno son piene di viti.

“Siamo a Posillipo”, gridiamo in coro e proseguiamo per Pergine. Cominciamo a trovare i primi borghesi che ci salutano rispettosamente, gridando: “Viva l’Italia!”. A Pergine la popolazione è al completo. La città è imbandierata; uomini e donne con il tricolore al petto; i negozi, pochi, son tutti aperti; le scritte, in tedesco, son tutte fortemente cancellate.

Proseguiamo per Trento. Un chilometro fuori Pergine incontriamo due generali con pochi uomini a cavallo e bandiera bianca in testa: sono altri parlamentari che tornano in Austria. Faccio fermare la macchina e tiro una fotografia. L’ufficiale inglese, che li accompagna, protesta, ma noi filiamo di nuovo con la macchina! Scommetto che le sue maledizioni mi han fatto venire niente della fotografia. Una iettatura: quella pellicola è venuta tutta bianca! Peccato; era una vera scena da cinematografo; eppure era realtà!

Siamo a cinque chilometri da Trento, e qui la confusione aumenta ad ogni passo. Migliaia e migliaia i prigionieri si dirigono, incolonnati per la Val Brenta, mentre la strada è letteralmente bloccata da carreggi, cannoni, mitragliatrici, riflettori, cucine, ambulanze, fucili, carte rovesciate, camions bruciati, botti per trasporto di acqua, cavalli morti, ed elmetti, elmetti, elmetti! … non ho mai visto una confusione, un disordine, un disastro simile. Qualche camions, qualche carretto è stato rotolato sotto la strada, i fucili sono scaraventati nelle vigne, a venti metri di distanza dalla strada!

Era questa la coda del grosso carreggio di tutta l’armata, quando le fu tagliata, fai nostri, la strada oltre Trento; e quindi, più che far niente, cercarono distruggere quanto più possibile. I magneti dei camions tutti rovinati, gli apparecchi telefonici pestati con le pietre; ai carretti segate le stanghe! Vediamo dei prigioni che han fatto le tende e dormono tranquillamente; altri cucinano carne di cavallo, altri fanno governo ai muli. Restiamo a guardarli, e poi pensiamo: “Son rimasti imbottigliati, e, se non altro sono … filosofi!”. Son tanti, tanti che i nostri non arrivano ancora; e poi i nostri sono andati avanti, avanti, ed hanno altro da fare.

Siamo finalmente a Trento. Ci dirigiamo subito ad un punto ormai storico e da tutti conosciuto: al piazzale della stazione ove sorge il monumento a Dante. Il monumento è intatto, e credo perché i barbari non avrebbero mai pensato di dover abbandonare Trento senza colpo ferire. Altrimenti avrebbero fatto come alle campane e al monumento a Vittorio Emanuele a Udine! … La stazione è tutta inondata di prigionieri pidocchiosi e affamati. Vari treni, completi e lunghissimi, con carico di materiale militare di ogni sorta, sono ancora in attesa di ordini; le macchine, pesantissime, mastodontiche, dai grandi camini, fumano ancora; e il macchinista è ancora al suo posto, spaventato forse per quanto ha visto e per tuttociò di cui non sa rendersi conto.

Vediamo gli impiegati delle ferrovie col berrettino austriaco e la cassetta per le lettere fatta differentemente dalla nostra: campeggia nel mezzo l’aquila imperiale.

Ritorniamo in città. Dovunque sono bandiere e ritratti dei nostri Reali. In una vetrina vediamo S.M. la Regina e Garibaldi a fianco; forse non avevano altro! I borghesi si soffermano a guardare i ritratti dei nostri Reali; forse non li avevano visti mai, ma chi sa quante volte ne avevano sentito parlare!

Prima di mezzogiorno i negozi erano tutti chiusi, le strade impassibilmente insudiciate dalla soldataglia austriaca. Entriamo nell’unico caffè aperto, e ci dicono che tutti han chiuso, perché la sera avanti c’è stata un po’ di confusione. La popolazione civile non è molta ed è un pochino spaventata; ci sono diecimila internati!

Al caffè beviamo della birra e dei biscotti di polvere di castagna, miele e zucchero. Entrano, intanto, degli ufficiali italiani, e prigionieri, vestiti mezzo italiano e mezzo tedesco. Sono fuggiti da Lienz, ove sorge un campo di concentramento per prigionieri italiani veramente incredibile: quindici chilometri di baracche!!

Ci dicono che in Austria c’è la rivoluzione. I giornali, dopo quattro giorni, che noi si era cominciata l’offensiva, stamparono, a lettere cubitali, che gli italiani erano entrati a Graz!

La popolazione cominciò, allora, a sollevarsi e, ben presto, anche i soldati si uniscono al disordine: bruciano treni carichi di farina, di foraggio, di munizioni; i signori si rafforzano nelle loro abitazioni; i soldati buttan via i fucili, e vanno a casa, diretti, senz’altro! E’ la fine dell’Austria!

Mentre si parla, udiamo pel corso principale la folla che grida “Viva l’Italia!” e urla di inferno da ogni dove. Un vecchietto, colla barba bianca, legato con una corda, è spinto dalla folla, mentre fa segni di diniego colla testa. “Viva l’Italia!” gridiamo anche noi; ma anche a noi risponde di no. Quella figura losca ha condannato Cesare Battisti alla forca! …

Andiamo alla Torre e al Castello del Buon Consiglio, tutto pieno di prigionieri, di ufficiali di austriaci, di ufficiali nostri redenti, venuti a baciare il piedistallo del monumento a Dante. Da per tutto un disordine, una confusione da non credersi: animali sventrati rovinano l’aria e ci fan sempre correre! Tutto in quel giorno era un grande immondezzaio! Rompiamo un quadro dell’Imperatore ancora appeso ad una parete. I soldati austriaci non si voltano neppure; gli ufficiali ci guardano poi borbottano qualche parola fra loro! Troviamo dei prigionieri russi, mezzo stupiditi, ai quali si può dar niente, altrimenti cominciano subito a piangere!

Truppe italiane in marcia verso Trento (www.europeana1914-1918.eu).

Truppe italiane in marcia verso Trento (www.europeana1914-1918.eu).

Quando lasciamo il Castello e riattraversiamo la città, i negozi son quasi tutti aperti; negozi discreti e forniti su per giù come i nostri. Vediamo dello champagne e lo compriamo, un negozio di calzature, un profumiere, una cartoleria. Compriamo delle cartoline di Trento e le indirizziamo alle nostre famiglie; ma la posta non funziona ancora e quindi le lasciamo alla signorina, colla preghiera di impostarle non appena possibile! Chi lo sa se arriveranno! E meno male che avevamo in tasca i francobolli italiani! Non avevano neppure il resto da darci in italiano; tutto era corone. Da un tabaccaio compriamo degli ottimi virginia e dei sigari grossi, quasi uguali ai nostri minghetti.

Andiamo al Caffè Europa, un bel caffè, tutto in rosso, con specchi e poltroncine molto eleganti: un caffè impossibile, saccarinato. Cinquanta centesimi, e andiamo via. La signorina ha in testa una cuffietta bianca, rosso e verde e ci saluta con effusione!

Si rimonta in macchina e, per la Val d’Astico, Forni, Pedescata, Velo d’Astico, siamo di nuovo a casa. Per istrada nulla o quasi vedemmo, perché buio. I prigionieri dovunque, cannoni, fucili e elmetti, elmetti passavano con una velocità fantastica davanti ai potentissimi fari della nostra Lancia.

Incontriamo la divisione di cavalleria fatta prigioniera al completo. Quanto sangue bleu austriaco in mezzo a quegli ufficiali, poiché da loro gli ufficiali di cavalleria son per casta; e poi balzi, scossoni, salti; di modo che quando si scese, si gridò ancora “Viva l’Italia!”, ma si era stanchi parecchio.

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Note

1 Tenente del Genio Militare addetto all’Officina di costruzioni, nell’autunno del 1918 venne  incaricato dell’ispezione di alcuni ponti e, «sebbene infermo volle esporsi a un lungo viaggio e recarsi al fronte» al fine di verificare la possibilità di costruzione di nuovi ponti sul Piave ma fu vittima di un «insidioso morbo». Morì il 4 novembre nell’ospedale di Pavia di polmonite («Terra di Lavoro», a. XXII, n. 36, 19 novembre 1918,  In memoria dell’ing. Alfredo Visocchi).

2 «Terra di Lavoro», a. XXIII, n. 42, 8 novembre 1919, Nozze Bartolomucci-Visocchi.

3 «Terra di Lavoro», a. XIX, n. 28, 21 luglio 1915, Dalle zone di guerra. Il sottotenente Bartolomucci.

4 «Terra di Lavoro», a. XXII, n. 37, 27 novembre 1918, Nell’Italia redenta. Lettera del tenente avv. Olindo Bartolomucci.

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