Caterina Cantelmo, una dama del Cinquecento


Print Friendly, PDF & Email

.

«Studi Cassinati», anno 2019, n. 2
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
> Scarica l’articolo in pdf

.

di Francesco Sabatini

.

4_SabatiniFino all’elezione al Soglio Pontificio (22 maggio 1555), con il nome di Paolo IV, di suo cognato, il cardinale Gian Pietro Carafa, Caterina Cantelmo aveva vissuto nella penombra degli affetti familiari, delle pratiche religiose e della frequentazione degli ambienti aristocratici di Napoli.

Nata intorno al 1490, era nipote di Pietro Cantelmo, ultimo duca di Sora di quel casato, contro il quale nel 1463 il papa Pio II Piccolomini aveva mosso guerra, spodestandolo, perché «superbo ed insolente»: in realtà il papato vantava diritti sul Ducato sorano, che la spedizione militare intendeva riaffermare, contro, tuttavia, gli interessi del Regno di Napoli. La questione fu definitivamente risolta nel corso del successivo pontificato di Sisto IV della Rovere, allorquando il re Ferdinando I diede il Ducato in feudo alla figlia naturale Ilaria, che lo portò in dote al marito Leonardo della Rovere, nipote del papa. Il duca Pietro fu compensato con 5.000 fiorini.

Caterina discendeva da quella famiglia, di origine provenzale, scesa in Italia per incarico di Carlo d’Angiò conte di Provenza e fratello di Luigi IX re di Francia.

Come si sa, sebbene Federico II di Svevia fosse stato posto dalla madre Costanza d’Altavilla, durante la sua minore età, sotto la tutela del papa Innocenzo III e sebbene egli, a 19 anni, avesse chiesto di essere ammesso quale terziario nell’Abbazia di Casamari, successivamente la sua politica,  ostile alla Chiesa, era stata severamente censurata. Il sovrano era stato scomunicato e la Santa Sede, che considerava il Regno di Sicilia come proprio feudo, aveva deciso di sostituire alla dinastia Sveva il conte di Provenza.

Prima ancora che questi scendesse in Italia alla conquista del Regno, egli fu nominato senatore di Roma e, senza recarsi a prendere possesso della carica, inviò in sua vece a Roma Giacomo Cantelmo, del quale le cronache del tempo non tracciano un profilo positivo: gli si addebita infatti di aver trafugato una parte del tesoro pontificio, allora custodito nella Basilica Lateranense, ed un’eco di questo episodio sembra desumersi da una lettera del papa a Carlo d’Angiò con la quale si lamentava il «meschino tenore di vita» di Giacomo che nuoceva al prestigio del senatore.

Dopo la conquista del Regno (la battaglia decisiva si svolse a Benevento nel 1266, ove trovò la morte Manfredi, figlio di Federico II, nel frattempo deceduto) la fedeltà sempre dimostrata da Giacomo Cantelmo e poi dai suoi discendenti alla dinastia angioina fu ampiamente ricompensata, ed i Cantelmo nel corso del tempo, e grazie anche ad una accorta politica matrimoniale, riuscirono ad entrare in possesso di 150 paesi, siti per lo più in Campania ed in Abruzzo.

Per quel che qui interessa i Cantelmo all’incirca dalla metà del Trecento e per oltre un secolo ebbero il possesso dell’intera valle di Comino. Resta di tale periodo l’imponente Palazzo Ducale di Atina, fatto costruire da Rostaino Cantelmo dopo il disastroso terremoto del 1349 unitamente alle mura perimetrali del borgo, di cui restano la Porta di Santa Maria e poche altre vestigia.

Caterina fu data in sposa a Giovanni Alfonso Carafa conte di Montorio, fratello del futuro papa Paolo IV, e dall’unione nacquero tre figli maschi: Giovanni, Antonio e Carlo.

La famiglia Carafa era una delle più importanti di Napoli. Giovanni Alfonso apparteneva ad un ramo minore del casato, quello della Statera, di cui era stato capostipite Antonio Carafa detto Malizia, l’unico figlio del quale, Diomede, fu il primo conte di Maddaloni. A lui nel 1464, dopo lo spodestamento di Pietro Cantelmo duca di Sora ma anche conte di Alvito e signore di Atina, il re Ferdinando di Napoli donò quest’ultimo paese. Seguendo il Palombo, il Tauleri annota con amarezza che il Carafa dispose il trasferimento di due statue di età romana da Atina al suo palazzo napoletano.

Gian Pietro Carafa, il futuro papa, fin dall’infanzia nutrì una spiccata vocazione religiosa. Il padre, senza ostacolarlo, lo inviò a Roma presso lo zio, il cardinale Oliviero Carafa, il quale ospitò il giovane nel suo sontuoso palazzo di piazza Navona. Severo anche con se stesso, raffinato umanista, poliglotta, Gian Pietro a soli 30 anni fu inviato come nunzio apostolico in Spagna alla corte del re Ferdinando il cattolico, esperienza dalla quale maturò sentimenti antispagnoli che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Rientrato a Roma, unitamente a Gaetano da Thiene fondò l’ordine dei Teatini. Sotto il pontificato di Paolo III Farnese fu nominato arcivescovo di Napoli e cardinale e posto a capo della Inquisizione romana, e nel conclave successivo alla morte di Giulio III fu eletto papa. Aveva 79 anni e il suo pontificato durò quattro anni.

Diversamente da quanto aveva in precedenza sostenuto – la necessità di una profonda revisione della vita della chiesa, compresa anche l’abolizione della politica nepotistica seguita da diversi pontefici – Paolo IV, senza opporsi alle pressioni in tal senso ricevute, in particolare dal cardinale Alessandro Farnese, si adeguò alla pratica dei predecessori.

Dei tre figli maschi del fratello, pose a capo delle milizie pontificie Giovanni con lauti emolumenti, attribuì ad Antonio un feudo nelle Marche e nominò Carlo, unico celibe dei tre, cardinal nipote; e il diciassettenne pronipote Alfonso, figlio di Antonio, arcivescovo di Napoli e cardinale.

Carlo, come figlio cadetto, aveva abbracciato la carriera delle armi, aveva un curriculum piuttosto turbolento tanto che, mentre si trovava a Trento, fu incarcerato. Consapevole di ciò Paolo IV, prima di investirlo della carica, lo mandò assolto «da ogni sorta di rapine, sacrilegi, furti, depredazioni, ferimenti, mutilazioni di membra, percosse, omicidi, e qualunque altro delitto anche maggiore dei nominati».

La politica nepotistica continuò anche successivamente: dopo la scomunica di Marcantonio Colonna, da tempo in conflitto con il Papato, il feudo di Paliano, da sempre in possesso di quel casato, fu attribuito al nipote Giovanni con il titolo di duca che gli fu conferito con una solenne cerimonia di rito feudale svoltasi nella Cappella Sistina.

Intanto Caterina, dopo l’elezione del cognato ed il trasferimento dei figli a Roma, si era anch’ella trasferita nella città e probabilmente era andata ad abitare nell’appartamento Borgia assegnato al figlio Carlo quale cardinal nipote. Di lei nulla sappiamo relativamente a questo periodo, anche se si può immaginare il rango almeno ufficioso che le venne riconosciuto, fin quando, caduti in disgrazia i figli, l’ira del papa investì anche lei.

Gli intrighi politici e la vita dissoluta di Giovanni e Carlo Carafa erano infatti venuti a conoscenza del papa il quale ne decretò l’esilio da Roma: basti dire che si addebitavano a Carlo anche le orge nella vigna di Trastevere a sua disposizione, nella quale custodiva anche 400 cani per le sue battute di caccia.

A favore dei figli intervenne Caterina ma la sua richiesta di perdono non trovò ascolto ed il papa l’allontanò da sé urlando: «maledetto il tuo ventre che ha prodotto uomini così tristi e scellerati».

Qualche settimana dopo si diffuse la notizia, poi risultata infondata, della morte della Cantelmo ed il papa confermò il suo disappunto nel sapere ancora in vita «quella madre di tristi figlioli».

Proprio negli ultimi giorni di vita del papa si consumò nel castello di Gallese, nel quale era stato esiliato Giovanni con la famiglia e il seguito, la tragedia. A lui fu riferito che la moglie Violante – una giovane e colta dama, di famiglia di origine catalana trasferitasi a Napoli con gli Aragonesi, mentre la madre era Cornelia Piccolomini, della stessa famiglia di papa Pio II – aveva una relazione con il giovane Marcello Capece. Giovanni lo fece arrestare, lo pugnalò a morte dopo che egli aveva confessato sotto tortura e ne fece scaraventare il cadavere dalla torre del castello nella sottostante latrina.

Anche Violante subì la stessa sorte: sebbene il cappellano del castello che ben la conosceva implorasse il marito di risparmiarla anche per il suo stato di gravidanza, Giovanni non fece resistenza alle pressioni del fratello Carlo (il quale affermava che non poteva presentarsi in conclave senza che prima fosse stato lavata l’onta del casato), del cognato e dello zio di Violante. Questi ultimi strangolarono la sventurata.

Caterina era a conoscenza della condotta dei figli? Certamente ignorava quegli intrighi politici che avrebbero determinato per loro le accuse di lesa maestà e di fellonia, e probabilmente considerava normale e adeguata al loro rango la loro vita dissoluta. Non sappiamo invece se anch’ella condividesse il barbaro costume che imponeva, a tutela dell’onore familiare, la morte della moglie adultera e del correo.

Carlo Carafa, che dopo la morte dello zio era stato richiamato a Roma dal Sacro Collegio, nel conclave cercò di brigare perché fosse eletto papa un cardinale benevolo nei confronti di lui e della sua famiglia.

Il nuovo papa Pio IV Medici – di famiglia milanese non imparentata con i Medici di Firenze –, deludendone le attese fece arrestare Carlo e Giovanni Carafa nonché lo zio e il fratello di Violante, che vennero condannati a morte.

Il successore di Pio IV, Pio V Ghisleri, dispose la revisione del processo e all’esito i due Carafa post mortem furono mandati assolti ed i beni confiscati furono restituiti agli eredi.

Donata Chiomenti Vassalli, nel saggio dedicato al processo Carafa, da cui traggo queste notizie, a commento di decisioni tanto difformi cita e fa proprio un pensiero di San Tommaso d’Aquino: «Misericordia senza giustizia è la madre della dissoluzione, ma giustizia senza misericordia è crudeltà».

Un monito ancora oggi valido.

Le spoglie mortali di Paolo IV – durante il suo pontificato egli aveva istituito il ghetto per gli ebrei residenti a Roma e, dopo la disastrosa guerra di Campagna contro gli spagnoli, era divenuto inviso al popolo romano – riposano nella cappella Carafa della chiesa di Santa Maria sopra Minerva in Roma, cappella che era stata acquistata dal cardinale Oliviero e celebre per gli affreschi di Filippino Lippi.

 .

Bibliografia

  1. S. Piccolomini, Commentarii
  2. Tauleri, Memorie Istoriche dell’antica città di Atina, Napoli 1702
  3. De Sivo, Storia di Galazia Campana e di Maddaloni, Napoli 1860
  4. Santoro, Pagine sparse di storia alvitana, Chieti 1908
  5. Vassali, Storia di Atina, Sora 1949
  6. Chimenti Vassalli, Paolo IV e il processo Carafa, Mursia 1993

.

(414 Visualizzazioni)