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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 1-2
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di Giuseppe Russo
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Della Seconda guerra mondiale si è tanto scritto e ancora molto si scriverà in futuro. Ciò che viene solitamente raccontato, però, è spesso relegato alla storia generale e ad una visione troppo politica della questione. Da tempo, occupandomi di rileggere la storia del nostro Paese attraverso gli occhi dei beni culturali, intesi nell’accezione moderna del termine, includendo quindi industrie, commercio, sport, tradizioni, paesaggi, competenze artigianali, oltre che i classici monumenti cui normalmente ci si riferisce, mi sono reso conto che alcuni mattoni del nostro passato sono stati “dimenticati”, forse volutamente, lasciando nel buio fondamentali episodi storici che spiegano più semplicemente ciò che siamo diventati oggi. Vizi e virtù degli italiani moderni che, attraverso la tempesta bellica, sono stati plagiati e incanalati in un percorso globalizzante avviatosi in alcuni specifici luoghi del Paese, in aree che ancora oggi ne portano i segni, nel bene e nel male, ma che sono insufficientemente attenzionati dalla coeva storiografia ufficiale. Di questi luoghi, oltre l’intera città di Napoli, metropoli più bombardata d’Italia durante la Seconda guerra mondiale, capro espiatorio e terreno di sperimentazione di angloamericani e tedeschi nel distruttivo conflitto bellico del secolo breve, la Reggia di Caserta rappresenta l’espressione più alta, più viva e utile per comprendere il fondamentale passaggio tra passato e futuro, tra l’Italia dei re e del fascismo e l’Italia americanizzata, globalizzata e allineata del dopoguerra. Proprio il maestoso Palazzo reale edificato dai Borboni è il luogo che dall’11 novembre del 1943, dopo l’infausta gestione della resa dell’8 settembre e l’ingresso degli Alleati nella Napoli liberatasi da sola dopo le 4 giornate di rivolta, diventa il grande «Quartier generale» degli Alleati in una guerra che si avvia, tra stragi di civili e sanguinari scontri militari, al suo epilogo e, soprattutto, a diventare assurdamente il motore di una modernità mai raggiunta prima. Diversi, quindi, i fondamentali atti politici, militari e sociali che dalla Reggia di Caserta presero il via diffondendosi a macchia d’olio in Italia e nell’Europa degli orrori della Seconda guerra mondiale, un continente che avrebbe pagato a carissimo presso, appena un gradino sotto al nuclearizzato Giappone di Hiroshima e Nagasaki, la propria stolta condotta morale d’inizio secolo.
A Caserta, strategica città di collegamento tra Napoli, il cosiddetto Porto dell’Impero, e Roma, la capitale di un Paese inopportunamente in guerra, gli eventi bellici furono certamente meno duri che altrove, ma la situazione dello spettacolare Palazzo borbonico non fu meno difficile di quella dei palazzi napoletani, beni culturali massacrati dalle bombe, colpiti dalle ritorsioni naziste e poi ulteriormente provati dall’arrivo degli occupanti angloamericani. Pur considerando la minor incidenza di danni da bombardamento, che erano stati ovviamente molto limitati visti i pochi episodi di attacco aereo, durante i quali la devastazione più grande era stata quella della Cappella Palatina colpita da un ordigno il 24 settembre ’43, la Reggia di Caserta, però, avrebbe subito le peggiori offese durante l’occupazione alleata, dopo esser diventata la base ufficiale del «Comando Supremo Alleato», uno dei più attivi e grandi Headquarters angloamericani in Italia, in virtù delle stesse considerazioni strategiche che avevano consigliato, due secoli prima, la costruzione di questa sede reale nelle retrovie di Napoli: la lontananza dal mare. Sebbene ancora oggi dibattuta, la ragione di tale occupazione non è da ricercarsi nella propagandistica voce di una sua tutela, ma piuttosto nella perfetta posizione tra Napoli e le linee del fronte dell’alto casertano, poi definitivamente attestate per lungo tempo sulla quasi inespugnabile Linea Gustav fino al grande massacro della stupenda Abbazia di Montecassino e alla conquista di Roma. Caserta offriva ampi spazi, era stata poco colpita dai bombardamenti e soprattutto la Reggia era una struttura storica che anche i nazisti più spregiudicati avrebbero avuto timore di colpire. Inoltre la ferrovia, che gli Alleati avevano attaccato il 27 agosto del 1943 uccidendo un centinaio di civili in centro città, rendendo martiri alcuni ferrovieri ivi colpiti, era di fronte al palazzo borbonico e permetteva, quindi, i necessari collegamenti per il funzionamento di un quartier generale di valenza europea.
La Reggia di Caserta, così, diventò una grande cittadella militare, o ciò che veniva chiamato Allied Force HeadQuarters (AFHQ), messa sotto pressione nonostante la sua natura di patrimonio storico richiedesse, anche solo per logica, di evitarne il sequestro e soprattutto l’uso da parte di truppe militari poco avezze al rispetto dei beni culturali di un Paese sconfitto e occupato. I tanti episodi, alcuni dei quali positivi, che presero vita a Caserta, ruotarono tutti sostanzialmente intorno alla grandiosità del sito reale che, in tutte le sue espressioni, tra danni, atti ufficiali e sviluppi socioculturali, restò il centro di uno straordinario cambiamento locale e internazionale partito da un sud velocemente apertosi al mondo per necessità, virtù o forse entrambe le cose.
Uno dei primi gravi danni subiti dal palazzo borbonico si materializzò presto grazie agli uomini della Signal Corps Section americana, successivamente supportati anche dai famosi REME britannici (Royal Electrical and Mechanical Engineers), intenti ad installare la rete di comunicazione necessaria a coordinare tutte le operazioni militari dopo lo sbarco in Italia. In particolare questo reparto di ingegneria e telecomunicazioni dell’esercito americano, che tra le altre cose realizzò una grossa fetta delle bellissime testimonianze fotografiche della guerra nel nostro Paese, già ad ottobre del ’43 aveva inviato un gruppo di tecnici per verificare la migliore area utilizzabile per gli apparati da portare a Caserta. Comandati dal Colonnello Emil Lenzner, i Signal Corps iniziarono ben presto a bucare la facciata della Reggia vanvitelliana per passare i numerosissimi cavi elettrici ed impiantare la fondamentale rete di comunicazioni ACAN (Army Command and Administrative Network), un sistema militare in grado di gestire teoricamente un milione di gruppi radio oltre che circa 7000 messaggi rapidi giornalieri tra telefoni, telegrafi e primi rudimentali fax. La parola d’ordine degli angloamericani, già ampiamente assestati a Napoli, era «wiring the Palace», cioè cablare il Palazzo Reale di Caserta, danneggiando sistematicamente un bene storico mondiale che diversi ufficiali già conoscevano, tanto da far comparire nelle proprie relazioni preliminari alcuni dati salienti della residenza vanvitelliana, tra cui l’anno di avvio lavori, 1752, il numero delle stanze, 1200 ambienti segnalati, quello delle finestre presenti, nonché lo spessore di mura portanti e divisorie. La ragion di guerra in questo caso era rappresentata dall’esigenza di spostare entro dicembre ’43 il Quartier Generale Alleato dall’Algeria all’Italia, a Caserta appunto, e trasferire, tra le altre cose, anche le solerti soldatesse della WAC Company, ovvero dello speciale reparto femminile americano, il Women’s Army Corps, che tanto si distinse per la precisione e professionalità delle sue operatrici impegnate, in diversi centri di comando, anche come flight controllers, telegrafiste, centraliniste, e in tanti altri ruoli speciali nel campo delle telecomunicazioni e dell’amministrazione.
La storia della Reggia vanvitelliana, tra l’altro, s’incrocia strettamente perfino con la storia di un particolare reparto americano, l’MFA&A (Monuments, Fine Arts, and Archives), una struttura affidata ad ex professori universitari, storici dell’arte e archeologi in divisa, i cosiddetti «Monuments men», cui furono demandati compiti di verifica e recupero dei tanti tesori culturali devastati dai militari in Europa e Italia, direttamente sul campo e con il fronte bellico pienamente attivo. In Campania, regione tra le più devastate, tale compito fu affidato al maggiore Joseph Paul De Grasse Gardner, laureato in Architettura (I° livello) e in Storia Europea (II° livello), con dottorato di ricerca in Storia dell’Arte ad Harvard, nonché con un passato di ballerino classico prima e di Direttore del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City nel Missouri poi. Potremmo dire, quindi, l’uomo giusto al posto giusto e nel momento giusto, viste le condizioni in cui versavano i beni culturali della Campania e soprattutto della città di Napoli, dove ben 65 chiese risultavano gravemente danneggiate, alcune perse irrimediabilmente, e praticamente tutti i maggiori edifici di rilevanza storica e artistica erano stati almeno parzialmente colpiti e successivamente occupati dai reparti alleati. Un uomo che divenne subito grande amico di un eroe tutto italiano, il soprintendente Bruno Molajoli, con il quale si adoperò alacremente per limitare i danni della successiva occupazione che, proprio alla Reggia di Caserta, mostrava il volto più crudo della guerra: matasse di cavi che entravano dalle finestre
e bucavano le porte, trasferimenti impropri di archivi, provviste, sigarette e armi nei migliori locali della residenza storica, acquartieramento vandalico di truppe, uso devastante del «Giardino Inglese», trasformazione di saloni e stanze reali in disordinati uffici militari o aree di svago molesto. Una vera tragedia senza sangue ma con tante tante ferite alla cultura italiana ed a quella storica del sud borbonico, già duramente colpita dalle dirette ritorsioni dei tedeschi che, poche settimane prima, avevano distrutto i preziosi archivi conservati a Villa Montesano nei pressi di Nola, o che avevano incendiato l’Università di Napoli per vendicarsi del tradimento italiano.
Gardner e Molajoli restano quindi testimoni di grande importanza per comprendere alcuni dei fondamentali passaggi e cambiamenti storici partiti da Caserta e dal suo Palazzo Reale.
In primis, per quanto si discuta di occupazione militare, dal grande palazzo scoccò, insieme a ciò che stava accadendo a Napoli, la prima reale scintilla di globalizzazione dell’Europa e soprattutto del nostro Paese. Proprio alcuni fondamentali rapporti autografi o relazioni inviate all’ufficiale della MFA&A, tra dicembre ‘43 e gennaio ’44, ci rivelano i grandi movimenti, spesso impropri, che stavano avvenendo nel Palazzo borbonico e in tutta la Campania:
«…il maggiore sforzo di questa Sezione [MFA&A Region III] è stato dedicato al compito di tentare di proteggere monumenti che, nei primi giorni dell’occupazione […] furono indiscriminatamente requisiti per l’acquartieramento di truppe. Queste requisizioni sono ancora in essere e musei, università, palazzi reali e librerie sono ancora occupate dalle truppe. Molte sezioni di questi edifici tuttora contengono importanti e preziose opere d’arte, libri, mobilio e documenti. È stato impossibile confinare le truppe nelle sezioni loro assegnate e la maggior parte dei Soprintendenti dei vari monumenti ha inoltrato molte denunce per i saccheggi e i vandalismi di opere d’arte e di libri. Sembrerebbe che l’unica soluzione a questo grave problema sia […] che determinati monumenti non possano essere requisiti per scopi militari…».
Nonostante il fascino che il nostro patrimonio culturale esercitava sugli americani, almeno su quelli più istruiti e aperti alla cultura, l’ingombrante presenza di un esercito ancora pienamente attivo, teso a raggiungere la Germania, come pure ad impiantare i propri valori sociali, culturali ed economici, in un Paese sconfitto da assorbire nell’orbita atlantica, si evince chiaramente in una missiva inviata a Gardner con una precisa relazione sui reparti militari presenti nel palazzo e quindi sull’ampio “interscambio umano” che iniziava a cambiare il volto della città:
«…Il Palazzo […] sembra esser stato originariamente occupato dalle truppe da combattimento, principalmente britanniche, che pare abbiano rimosso un buon numero di mobili e suppellettili senza alcun controllo. Successivamente la Va armata si è trasferita qui e ha occupato i locali della Regia Accademia Aeronautica. […] Sono stato informato che il 15° gruppo d’armata vorrebbe trasferirsi qui ed occupare il lato sinistro del Palazzo […]»
Inizialmente monopolizzata dalle indisciplinate truppe britanniche, nell’autunno del ‘43 il palazzo fu quindi invaso da diversi organismi militari in grado di portare, nonostante la tragedia della guerra, lavoro e innovazioni sociali nel nostro martoriato territorio:
«…Allo stato attuale sono presenti cinque organizzazioni indipendenti o semindipendenti che stanno usando l’intero edificio […] :
- Quartier generale del 15° Gruppo d’Armata (AFI), principalmente nella parte monumentale.
- Mediterranean Air Force (MAF), nell’angolo posteriore destro. Questo gruppo ha anche una Signal Unit (unità trasmissioni) nella Sala del Trono e nelle stanze adiacenti, originariamente installata come parte del AFHQ e, secondo le loro dichiarazioni, impossibile da trasferire.
- Tactical Air Force (TAF), nel lato destro, in svariate stanze dell’Accademia […].
- Quartier generale della 5a Armata in più della metà dell’edificio e anche altrove.
- La Croce Rossa, più o meno dipendente dalla 5a Armata, nei tre principali saloni che vanno dall’area frontale alla scala centrale».
Proprio dalla Reggia, grazie alla presenza di tali organismi militari, si avviò ad esempio un illuminante e inatteso percorso per le donne locali. Per la prima volta le giovani ragazze casertane vedevano e toccavano con mano una condizione sociale diversa e possibile della propria esistenza. Le nuove generazioni, quelle che avrebbero partecipato alla ricostruzione morale e materiale del Paese, incontravano la modernità delle crocerossine e delle WAC’s, donne preparate e professionali che fumavano, vestivano una divisa “corta”, quasi una minigonna per l’epoca, che andavano a bere nei locali che i vertici militari avevano disseminato tra Napoli e Caserta, che guadagnavano soldi e indipendenza, che partecipavano a tour turistici tra Sorrento e Capri, che avevano rossetto e unghie dipinte anche quando, a rischio della vita, si recavano sul fronte di guerra, tra l’alto casertano ed il basso Lazio, a distribuire rifornimenti o curare i feriti. Uno degli aspetti globalizzanti, positivi, e straordinariamente importanti di un conflitto purtroppo infame dalle cui fiamme, come un’araba fenice, sarebbe rinata un’Europa più moderna e moralmente solida.
E mentre la tutela del nostro patrimonio culturale non era propriamente una priorità per gli angloamericani, con «… La Cappella […] usata come magazzino per il mobilio […] la stanza del Presepio […] pure usata come magazzino. […], gli appartamenti di Francesco II come magazzino per dipinti…», o con l’A.F.I. che usava normalmente i tappeti degli appartamenti reali e aveva installato cavi per l’illuminazione e per i telefoni bucando senza ritegno la copertura di seta delle pareti e, peggio, le antiche porte degli appartamenti reali, fuori dal palazzo la vita brulicava di un fervore mai visto prima. Un via vai di uomini e donne in divisa, di casertani alla ricerca del pane quotidiano e di ragazze locali assunte dagli americani per risolvere le proprie problematiche amministrative o tecniche, legate ad esempio allo sviluppo e alla lettura dei numerosissimi rulli fotografici della ricognizione aerea. Una città il cui centro, da Via Roma al Corso, passando per la Reggia fino alla Cattedrale di San Michele Arcangelo, si era rianimato pur dovendo sopportare una presenza ingombrante, spesso apertamente inopportuna.
Nei rapporti militari vengono chiaramente indicati tanti casi di furto, ad esempio quello dei «due piccoli leoni di bronzo del Presepe», o di «un quadro dagli appartamenti di Francesco II di Borbone», o di alcuni storici testi conservati negli ambienti dell’Archivio, una preziosa dispensa di cultura protetta solo con un banalissimo e debole lucchetto, ulteriore metafora di un’Italia sconfitta, divisa e ancora in guerra.
Ci si difendeva, potremmo dire, come può difendersi un uomo bastonato, così in relazione ai danni, alle sottrazioni e ai continui abusi da parte dei militari angloamericani, il 7 gennaio 1944, per l’ennesima volta, Bruno Molajoli scriveva una coraggiosa lettera al Comando Alleato, dichiarando la gravità della situazione dopo aver elencato chiaramente i «…fabbricati di importanza storica ancora parzialmente o totalmente occupati…» dai militari tra cui il Museo Nazionale «Duca di Martina» alla Floridiana, il Museo Nazionale di San Martino, Castel Nuovo (Maschio Angioino), il Palazzo Reale di Napoli, il Palazzo Reale di Capodimonte (dipendenze e parco) e, appunto, Palazzo Reale a Caserta.
La quasi totalità degli istituti affidati direttamente alle soprintendenze campane erano quindi occupati, subivano furti e gravi danni per l’improprio uso che se ne faceva, ma al contempo erano veicolo per una globalizzazione che iniziava a brillare da quelle stesse stanze e da quei parchi storici occupati da divise e jeep a perdita d’occhio. Se il 22 giugno ‘44 Molajoli segnalava danni al parco della Reggia di Caserta evidenziando che «…nel viale di destra alla “Margherita” [i militari avevano] rimosso e lasciato in terra 3 erme…», e in modo ancora più incredibile denunciava che «…nella Vasca di Diana, usata come piscina per bagno dalle truppe Alleate, i militari [salivano] sui gruppi di statue, provocando sfregi e rotture delle sculture, nelle parti più fragili…», va però ricordato che Caserta fu la prima città italiana a conoscere un particolarissimo sport anglosassone e due dei suoi campioni più noti. Proprio mentre vasche e fontane del parco venivano usate per celebrare addirittura battesimi per immersione tra gli americani, secondo il costume della Chiesa Battista, nelle verdissime pertinenze del palazzo borbonico si esercitavano i gemelli Alec ed Eric Bedser, campioni inglesi di cricket, uno sport che, interrotto proprio a causa dei bombardamenti nazisti sul territorio britannico, fu trasferito sostanzialmente all’estero, spesso anche nei territori occupati tra cui appunto l’Italia, o dovremmo dire Caserta. È davvero stupefacente, consultando oggi vecchi giornali sportivi britannici, che giravano anche in Italia grazie alle truppe d’occupazione, che alla Reggia di Caserta vi era, insieme ad un campo a Roma, ricavato nello stadio di calcio, e a Napoli, ricavato nell’Ippodromo di Agnano, uno dei migliori impianti di cricket in assoluto, ma soprattutto che Alec Bedser, definito «…uno dei migliori cricketers inglesi del ventesimo secolo…», dimostrò proprio nel parco borbonico, nel 1945, il suo crescente valore tecnico. Potremmo dire, con buona certezza, che alla Reggia di Caserta, in pieno periodo bellico, Alec iniziò a diventare quel campione che lo portò ad essere prima un recordman del Test Cricket per ben nove anni, il campionato mondiale di questo sport, e poi, ritiratosi dal gioco attivo, addirittura primo selezionatore della nazionale inglese. Un campione sostanzialmente battezzato e lanciato in una Caserta trasformata nel centro del nuovo nascente mondo “atlantico”.
Il parco, dal ‘44, era diventato una vera cittadella brulicante di attività sia ludiche che militari. Sebbene Molajoli continuasse giustamente a denunciare i disastri della presenza angloamericana, ad esempio ricordando al mondo che «…nel Giardino Inglese, già tanto devastato, [è] stata fatta una nuova apertura, abbattendo anche due magnifiche piante di camelia, che potevano essere risparmiate…», evidenziando deturpazioni incomprensibili anche in porzioni della Reggia che ovviamente non avevano apparentemente alcuna attinenza con le questioni di tipo logistico e/o bellico, fu proprio quest’area della grandiosa architettura vanvitelliana a far alzare il vento di tante novità. Trasformato in un vasto campo militare, soprattutto nell’area del Giardino Inglese, il parco della Reggia, come si evince dalle descrizioni di numerose foto dei soldati presenti a Caserta, ospitava il ‘General Eaker’s Camp’, in onore del famoso Comandante delle Forze Aeree del Mediterraneo (MAAF) generale Ira Clarence Eaker. Questo complesso di strutture militari, all’interno di varie aree della Reggia e delle sue pertinenze, annoverava luoghi di ritrovo, baracche per ufficiali e sottufficiali, sale mensa e sale riunioni. I simpatici tavoli da bar in legno, utilizzati per lo svago delle truppe, erano poi presenti un po’ ovunque, ad esempio nell’area dei Bagni di Venere e del famoso Criptoportico, stranamente amalgamati alla splendida magnificenza della grande e monumentale pianta di magnolia che ancora oggi si mostra orgogliosa ai tanti visitatori di questo luogo incantato.
La logica dell’uso ludico e perfino turistico dei beni culturali, arrivata definitivamente in Italia solo nella nostra recente storia normativa, quella della Bassanini, spingeva sì il Comando Alleato a spostare piante, creare aperture, allargare spiazzi e turbare anche la verde quiete dello storico giardino inglese della Reggia vanvitelliana, ma al contempo aveva iniziato a spingere in senso commerciale il «turismo militare di massa», quello inventato dai nazisti e reso capitalistico dagli americani. Un turismo che, dalle istanze della guerra e dalla richiesta di normalità, trasformava per la prima volta la pacifica cascata vanvitelliana in luogo di visita e di ricongiungimenti, il grande Parco in campi sportivi, in cinema all’aperto, in cultura da far conoscere oltreoceano al rientro dei soldati. Ma questo fenomeno, che oggi conosciamo come turismo low cost, nato quindi durante la guerra e fortemente spinto proprio dalla Campania, regione oramai libera e pullulante di nuova vita, militare e civile, era talmente organizzato da far parlare di sé anche attraverso bollettini e riviste militari ufficiali. Ad esempio, proprio a due passi da Palazzo reale, a Piazza Margherita, dove oggi vi sono famosi circoli e attività commerciali, si stampava un fondamentale periodico militare, il «The Chronicle – A british and american weekly review of area activities», dalle cui pagine si diramavano informazioni sulle attività ludiche di Caserta, Napoli e provincia. Da quelle straordinarie pagine, oggi testimoni dell’inizio della modernità post bellica, si invitavano militari e civili, magari imbucati attraverso amici in divisa, ai Beer Parties, ad assistere al Rigoletto al Teatro San Carlo di Napoli, come pure ad usare gli spacci disseminati a Caserta dopo aver assistito al Table Tennis Exibition o partecipato alla Santa Messa (Religious Services) presso la Cattedrale di San Michele Arcangelo o nella martoriata ma tanto amata Chiesa dei Salesiani, dove tante soldatesse americane furono addirittura cresimate da parroci casertani.
Il 4 giugno del 1944, dopo mesi di stallo, gli Alleati entravano finalmente a Roma, nella Città Eterna. La battaglia per l’arte si spostava, tragicamente, nelle altre importanti città del centro nord, mentre si liberavano, gradualmente e molto lentamente, gli edifici storici requisiti per scopi militari in Campania.
Dall’ingresso dei militari alleati a Napoli e Caserta le violenze culturali erano state un iniziale elemento del rapporto tra invasori ed invasi, o, per usare toni politicamente più corretti e maggiormente vicini alla nostra realtà storica di Paese “allineato”, tra liberatori e liberati. Ma da quel fuoco, quelle tragedie, quegli impropri usi e abusi della nostra cultura, nacquero anche le diverse anime di una nuova pace basata sul capitalismo, sulla condivisione di tradizioni, bellezze, costumi, lingue e commerci.
Da Napoli e dalla Reggia di Caserta, che dall’11 novembre del ’43 era diventata il centro di comando per la guerra in Europa, e dove il 29 aprile del ’45 si sarebbe firmata la fondamentale resa delle forze nazifasciste in Italia, era partita la vera globalizzazione del nostro Paese, una modernizzazione con pregi e difetti, con valori ed egoismi che, però, ci ha traghettati pacificamente nell’Europa del nuovo millennio.
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