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«Studi Cassinati», anno 2022, n. 2
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di Costantino Jadecola
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Ad inventarselo, cinquantamila anni or sono, o giù di lì, pare sia stato l’uomo (o donna) di Denisova, un ominide i cui scarsi resti vennero ritrovati nei monti Altaj in Siberia. Parliamo dell’ago, un piccolo oggetto però con un ruolo molto importante nella storia dell’umanità per il suo non indifferente contributo alla stessa sopravvivenza dell’uomo.
Si cominciò probabilmente con ossi o spine di pesce utilizzati per cucire le pelli degli animali, se dobbiamo dar credito a quello risalente a più di 25mila anni fa ritrovato in Francia. Poi evidentemente la situazione cominciò ad evolversi e dagli ossi e dalle spine di pesce si passò agli aghi di avorio, legno, rame, argento e bronzo per arrivare, nel Medioevo, a quelli in acciaio che sarebbero stati importati in Europa dagli arabi come testimonierebbe il fatto che nel 1370 essi venivano prodotti a Norimberga.
In Italia, invece, la produzione di aghi sarebbe incominciata solo nel 1929 grazie all’iniziativa di un imprenditore tedesco che realizzò a Lecco il «Primo Aghificio Italiano», che era poi il marchio di questa fabbrica, che alcuni anni dopo, nel 1938, sarebbe passata in mani italiane e che ancora oggi continua ad operare con il marchio originale.
Ma è proprio vero che la produzione di aghi in Italia sia iniziata solo nel 1929?
Si sapeva di una produzione di aghi a Sant’Elia Fiumerapido. Ma si trattava di una notizia molto vaga. Se, invece, dobbiamo dar credito al compianto don Faustino Avagliano, archivista di Montecassino, da un suo scritto pubblicato sulla rivista «Lazio Sud», edita a Cassino da Pierino Pontone negli anni Ottanta del secolo scorso, apprendiamo della produzione e del commercio di aghi a San Germano, antico nome di Cassino, già nel 1676, vale a dire ben due secoli e mezzo prima che l’imprenditore tedesco impiantasse a Lecco il suo aghificio.
Si tratta di un contratto stipulato il giorno 7 del mese di luglio del 1676 presso il notaio Cavaliero, presenti tre testimoni, Antonio Evangelista, Annibale Gallozzo e Giovanni Riuccardi, fra Iacobus (Giacomo) Zarlo, Hieronymus (Girolamo) Amadio, Mauro (Mario) Barone, Ottaviano Felice, Alessandro Berardinello, Benedetto Riccardi de Niro, Lutii (Luigi) Zarlo, Francesco Iannarelli, Bartolomeo Papa, Alessandro di Gaspare, Antonio Vittiglio, Benedetto d’Angelo Morsillo, Lutii (Luigi) Vittiglio, et Francesco Riccardi de Niro, tutti «Capomastri d’Achi della Città di S. Germano», e Benedetto Pagliaro, anche lui «della medesima Città» per la fornitura di aghi da parte dei «Capomastri» al Pagliaro.
In particolare si tratta di «Aco di libra a grana quaranta sette, e mezzo lo migliaro, Aco da Coriaro a grana quaranta, et Aco ordinarie a grana trentacinque lo migliaro, et Aco da quatrello a carlini sette lo migliaro» che Benedetto Pagliaro si impegna a pagare alla consegna oltre che a fornire «a tutti detti Capomastri il ferro a mazzi di peso libra quarantasette, e mezzo l’uno, e perfetto per il lavoro d’achi al prezzo di ducati sei il mazzo; con patto che detti Acorari ut supra, non possano comprare, né pigliare da altri il ferro sotto pena di ducati sei d’applicarsi cioè la metà alla Corte, e l’altra metà al revelante et detto Benedetto; cosi anco, che non possano dare, né vendere niuna sorte d’Achi ad altri, né ingrosso, né menuto sotto la pena di ducati sei d’aplicarsi conforme di sopra, ma solamente darle a detto Benedetto, mediante il prezzo sudetto e sotto pena di ducati sei da pagarsi ut supra, e quello pagarlo subito, che consegneranno dette achi, senza nessuna mora, et anco detto Benedetto sia obbligato sovenire detti Acorari di denaro antecipato, di grano, spago, di …, o d’altre cose, che dimanderanno per loro bisogno; però che non passi, e avanzi lo prezzo dell’achi, che staranno lavorando, pigliando il valore d’esse dal ferro, che pigliaranno da lavorare dal detto Benedetto che secondo l’uso dell’arte, si sa da esperte a quello può ascendere il lavoro dell’achi, e secondo detto lavoro possano dimandare da detto Benedetto il denaro, e l’altre robbe antecipatamente, e successivamente in quella conformità, che andaranno detti achorari lavorando, e faticando sopra detto lavoro».
Si definisce quindi che «detti Acorari debiano lavorare l’achi di tutta perfetione, ben spianate, ben pulite, e ben temperate, secondo l’arte, e lavorando l’achi, che non siano perfette, e non recipienti e giudicate tali da persona esperta si possano quelle rifiutare senza che detti lavoratori possano pretendere il prezzo di esse».
Se poi gli «acorari» volessero «vendere achi nelle fiere», dovranno acquistarli «dal funnaco di detto Benedetto a grana cinque di più del prezzo suddetto convenuto con essi, cioè quelle achi da libra a grana cìnquantadue, e mezzo, quelle da coriaro a grana quarantacinque, e quelle ordinarie a grana quaranta».
Benedetto, dal canto suo, s’impegna a praticare agli «acorari», che peraltro, «non possano lavorare altra sorte d’achi se non che delle quattro sorti» indicate, il prezzo corrente dì S. Germano, senza alterarlo, «per le robbe, che pigliaranno» da lui.
Si precisa, in ultimo, che «detto appalto e conventione s’intenda fatta per anni due, incominciando da hoggi»*.
* Va rilevato che nella Cassino pre bellica era presente il toponimo di «Via Agheroli», strada ubicata nelle vicinanze della Chiesa di S. Andrea che starebbe a ricordare la presenza di un’antica fabbrica di aghi.
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