«AMICI ITALIANI, ATTENZIONE!»: IL PSYCHOLOGICAL WARFARE BRANCH E ALFRED DE GRAZIA

«Studi Cassinati», anno 2024, n. 1

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di

Gaetano de Angelis-Curtis

Disegno di un medico francese dello scantinato dell’immobile utilizzato come centro operativo dal Pwb a Vairano, intitolato «Waiting for nurses».

Nel corso del Secondo conflitto mondiale la guerra è stata combattuta utilizzando in gran quantità armi, esplosivi, mezzi terrestri, navali, aerei e uomini ma facendo uso anche di mezzi diversi come ad esempio la propaganda al fine di orientare l’opinione pubblica mondiale alla ricerca di consenso oppure intimorire o far pressioni psicologiche su belligeranti e civili. Per quest’ultimo tipo di scopo la propaganda si serviva di volantini e manifesti ma pure di messaggi radiofonici, per l’altro si avvaleva di immagini fotografiche e filmiche da proiettare e diffonderle in tutto il mondo.

Nel corso della campagna d’Italia tutti e due gli schieramenti opposti utilizzarono tale tipo particolare di metodo di conflitto e si dotarono di unità adibite alla propaganda allo scopo, ad esempio, di «minare il morale» dei soldati nemici inducendoli a disertare1.

Nell’ambito delle forze militari alleate al momento dello sbarco di Sicilia fu attivata un’organizzazione congiunta anglo-americana denominata Psychological Warfare Branch (PWB, Divisione per la guerra psicologica) che era stata istituita dall’Office of War Information (OWI), dall’Office of Strategic Services (OSS) e dal Political Warfare Executive (PWE) britannico.

Festa con infermiere di un ospedale da campo nello scantinato del Pwb a Vairano.

Anche nell’ambito della V armata americana, che operava sul versante tirrenico del fronte di guerra nell’attacco alla Linea Gustav, era attiva una sezione propaganda2 adibita, in particolare, ad approntare volantini scrivendo testi che riportavano notizie da far pervenire al di là del fronte di guerra. Il manifestino dopo essere stato scritto, veniva sottoposto all’approvazione dei superiori, poi tradotto, stampato dall’unità mobile e recapitato al nemico lanciandolo oltre le linee nemiche con granate fumogene appositamente modificate che avevano una gittata di circa mille metri ed esplodevano a una quota 100-150 metri di altezza in modo da consentire ai volantini di disperdersi sul terreno3.

Uno dei casi più noti di utilizzo di volantini riguarda il lancio avvenuto il 14 febbraio 1944 sull’abbazia di Montecassino. Nella prima metà di febbraio le alte sfere militari presero la decisione di bombardare il millenario cenobio. Gli alleati «si sentirono in dovere di avvisare i civili italiani rifugiati in abbazia, per dar loro l’opportunità di mettersi in salvo. L’idea dei volantini da lanciare mediante l’artiglieria parve l’unica idonea a diffondere la notizia nel più breve tempo possibile»4. Il ten. col. Weaver convocò gli ufficiali della propaganda di combattimento ai quali spiegò «che il quartier generale della Quinta Armata [aveva] finalmente deciso di bombardare il Monastero, per cancellarlo dalla faccia della mappa, con un grande bombardamento aereo e di artiglieria» cui avrebbe fatto seguito l’attacco della fanteria e la cattura della «Collina del Monastero». Gli ufficiali dell’intelligence rimasero «impressionati» dalla notizia e ne restarono perplessi tanto che tra essi e i colleghi dell’artiglieria favorevoli al bombardamento si venne a generare una discussione, condotta con «moderazione e circospezione», basata sulla mancanza di prove certe sulla presenza dei tedeschi in abbazia. Neppure dagli interrogatori fatti a militari tedeschi catturati erano emerse conferme che truppe tedesche fossero presenti, con posti di osservazione, con postazioni militari o con sentinelle, all’interno dell’abbazia. Tuttavia la discussione finì ben presto perché agli ufficiali del Pwb non era stato richiesto di approvare l’operazione ma a loro era stato affidato il compito di preparare un volantino di avvertimento destinato ai civili rifugiati nel monastero. Furono dettate delle prescrizioni alle quali si dovevano attenere nella redazione del testo e che furono tassativamente rispettate. Infatti:

Linee guidaTesto finale
– non dovevano essere impartite istruzioni ai civilimanca qualsiasi indicazione
– non si poteva accusare i tedeschi di occupare l’abbaziaè utilizzata una formulazione volutamente vaga: «i tedeschi hanno saputo usare il monastero»
– non doveva essere fornita alcuna indicazione sulla natura dell’azione minacciataè utilizzata una formulazione volutamente vaga «siamo costretti a puntare le nostre armi contro il monastero stesso»
– esortare i civili italiani rifugiatisi nell’abbazia ad abbandonarla per non essere gravemente messi in pericolo da una imminente azionesi consigliava più volte l’evacuazione: «Noi vi avvertiamo perché voi abbiate la possibilità di porvi in salvo. Il nostro avvertimento è urgente: lasciate il monastero. Andatevene subito. Rispettate questo avviso. Esso è stato fatto a vostro vantaggio»
– che nessun aiuto andava promesso ai civili nella fugamanca qualsiasi indicazione

In calce al messaggio non veniva riportata la firma dei comandanti dell’esercito alleato, né quella del gen. Alexander né del gen. Clark, ma più genericamente «La Quinta armata».Il testo del volantino fu redatto in inglese. Il capo di stato maggiore, generale Alfred M. Gruenther, approvò il testo che fu tradotto da italiani del Quartier generale. I volantini vennero stampati in fronte/retro in lingua italiana e lingua inglese e riportavano il seguente testo:

 

Amici italiani,

ATTENZIONE!

Noi abbiamo sinora cercato in tutti i modi di evitare il bombardamento del monastero di Montecassino. I tedeschi hanno saputo trarre vantaggio da ciò. Ma ora il combattimento si è ancora più stretto attorno al Sacro Recinto.

È venuto il tempo in cui a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il Monastero stesso.

Noi vi avvertiamo perché voi abbiate la possibilità di porvi in salvo. Il nostro avvertimento è urgente: Lasciate il Monastero. Andatevene subito. Rispettate questo avviso. Esso è stato fatto a vostro vantaggio.

LA QUINTA ARMATA

Italian Friends,

BEWARE!

We have until now been especially careful to avoid shelling the Monte Cassino Monastery. The Germans have know how to benefit from this. But now the fighting has swept closer and closer to its sacred precincts. The time has come when we must train our guns on the Monastery itself.

We give you warning so that you may save yourselves. We warn you urgently: Leave the monastery. Leave it at once. Respect this warning. It is for your benefit.

THE FIFTH ARMY

I volantini non poterono essere lanciati il 13 febbraio 1944 in quanto sul Cassinate si era abbattuta una violenta bufera di neve. Tuttavia le previsioni meteorologiche davano bel tempo nei due giorni seguenti per cui i comandi militari alleati fissarono la data del bombardamento. Così alle ore 13 del 14 febbraio 1944 una «batteria di obici americani da 105 mm in postazione dalla valle del Liri» sparò nel cielo di Montecassino «25 granate cariche di manifestini» predisposti dal Pwb. Alcuni civili rifugiati in abbazia sentirono l’esplosione delle granate, videro una «strana nuvola di fumo bianco» seguita da una pioggia di volantini che lentamente scendevano verso a terra.

Il ten. Alfred de Grazia.

Tra i componenti del Pwb che operavano lungo la Linea Gustav c’era anche Alfred de Grazia5, un tenente di origine italiana6. In quell’ultima fase il giovane ufficiale aveva supervisionato l’imballaggio nei proiettili e aiutato gli artiglieri a infilare i volantini nei bossoli. Si informò con la Divisione G-3 su quale batteria avrebbe sparato i venticinque colpi e consegnò le granate. Poi si andò ad appostare lì nei pressi per constatare l’effetto che avrebbe avuto il messaggio dei volantini sui civili italiani. All’una del pomeriggio del 14 febbraio i pezzi d’artiglieria sparano i volantini in direzione dell’abbazia. De Grazia osservò che i primi volantini andavano «alla deriva fuori portata» cadendo sui fianchi della montagna, lontano dalle mura. Poi fu aggiustato il tiro e i manifestini raggiunsero l’abbazia. De Grazia scese fino al luogo dove aveva parcheggiato la sua jeep e tornò al campo per avvertire i superiori che i volantini erano giunti sul bersaglio7.

Prima questione: il recupero dei volantini

i manifestini caddero anche all’interno del monastero ma già il recupero di qualche copia fu difficoltoso. Infatti alcuni giovani rifugiati (Fulvio De Angelis, Antonio Miele e Nino Morra), «con gravissimo pericolo della vita», poiché continuavano a cadere bombe e granate, alle due del pomeriggio riuscirono a recuperare alcuni volantini. Li portarono alla Torretta dove l’abate Diamare era impegnato con la comunità monastica a recitare le orazioni funebri a d. Eusebio Grossetti morto il giorno precedente. Il cuore dei monaci divenne «pieno di sgomento nel leggere tale volantino lanciato dai … Liberators», così li definì d. Martino Matronola nel Diario, aggiungendo che essi avevano «gettato giù la maschera». Mons. Diamare non poté far altro che consigliare di mettersi in contatto con qualche ufficiale tedesco8, ma comunque fece sapere ai civili di tenersi «tutti pronti per un esodo di massa»9.

Seconda questione: il contenuto dei manifestini

la frase: «Lasciate il monastero. Andatevene subito» era un chiaro invito a evacuare l’area e a mettersi in salvo. Una «urgente» sollecitazione che però risultava assolutamente inattuabile. Se gli alleati erano convinti che l’abbazia pullulasse di soldati tedeschi come potevano ritenere che i civili italiani fossero in grado di raccattare quei quattro stracci che avevano e andarsene indisturbati? come potevano ritenere che i tedeschi avrebbero permesso ai civili con il loro seguito di feriti gravi e leggeri, di donne, di bambini, neonati e anziani, di avventurarsi sui sentieri circostanti e varcare le linee correndo anche il rischio di finire sotto il tiro d’artiglieria? Inoltre coloro i quali sapevano con certezza che in abbazia non erano presenti soldati o difese militari, ben difficilmente immaginavano che il monastero, sebbene già fatto oggetto di parecchi bombardamenti terrestri (anche nel giorno precedente alcune granate erano arrivate dentro il monastero così come nella notte si erano susseguite le «solite cannonate»)10, sarebbe stato davvero bombardato di proposito e raso al suolo con una massiccia azione aerea. D’altra parte la «formulazione volutamente vaga» dello scritto, soprattutto in quella frase «è venuto il tempo in cui a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il Monastero stesso», finiva per porre molti dubbi. Che significato potevano assumere quelle parole? quale sarebbe stata l’intensità d’attacco? quali armi sarebbero state utilizzate? si prevedeva un assalto di fanteria e mezzi corazzati? oppure era previsto un intenso cannoneggiamento? da cosa i civili potevano desumere che era stato pianificato un così massiccio bombardamento aereo da cui dovevano scappare? e anche in merito alla tempistica quando sarebbe stata attuata l’azione? nell’imminenza? a breve? nei giorni successivi? In sostanza come potevano i civili italiani decidere di abbandonare tutto e subito sulla base di uno stringato comunicato che si prestava a molteplici interpretazioni?

Terza questione: la data del bombardamento

al momento del lancio dei manifestini, la data del bombardamento era fissata al 16 febbraio. Tuttavia nella stessa giornata in cui essi furono lanciati si giunse alla modifica del piano del bombardamento che fu anticipato di ventiquattro ore, fissandolo al 15 febbraio. Sostanzialmente furono due le questioni che determinarono lo spostamento: la prima derivava dalle condizioni meteorologiche che assicuravano un tempo sereno su Montecassino per la mattina del 15 febbraio ma poi il cielo avrebbe cominciato a coprirsi a partire da mezzogiorno di quel giorno; la seconda questione riguardava la decisione dei vertici militari alleati di utilizzare tutto il potenziale aereo a partire dal 16 febbraio a supporto della testa di ponte di Anzio in quanto era previsto un contrattacco tedesco. La combinazione tra il fattore meteorologico e le questioni belliche sul litorale laziale fecero sì che i bombardieri fossero disponibili all’attacco per la sola mattina di bel tempo del 15 febbraio11.

Quarta questione: i tempi di evacuazione

i manifestini furono lanciati nel primo pomeriggio del 14 febbraio e la data d’inizio del bombardamento fu definitivamente fissata alle ore 9.28 del giorno successivo. Ma veramente gli alleati immaginavano che i civili potessero godere di tanta autonomia di movimento da poter uscire ed entrare in abbazia tranquillamente e facilmente nonostante si trovasse ormai in prima linea e nonostante ritenessero che forze militari tedesche fossero presenti all’interno del cenobio? inoltre come sarebbe stato possibile organizzare un’evacuazione di civili in poche ore in una zona di guerra? Innanzi tutto bisognava concordare una tregua (considerando anche le difficoltà per ottenere una sospensione delle ostilità che in linea generale non era mai gradita a Hitler)12 per consentire l’apertura di corridoi umanitari. Ma prima bisognava contattare i soldati tedeschi a presidio dell’area, far giungere la richiesta agli ufficiali presenti in zona, attivare la linea di comando con i superiori13, concordare una tregua tra i contendenti e attendere l’autorizzazione dell’apertura di un passaggio per il transito dei civili. Il tutto da compiere in tempi strettissimi compresi tra il pomeriggio del 14 febbraio, quando furono lanciati i manifestini, e le prime luci dell’alba del 15 febbraio. Ecco già avvisare i tedeschi del contenuto dei manifestini era stata una impresa non facile. Infatti due o tre «giovani volenterosi», tra cui Nino Morra uno di quelli che aveva recuperato fortunosamente qualche copia dei volantini, cercarono nel pomeriggio, come aveva sollecitato l’abate Diamare, di contattare un ufficiale tedesco. Uscirono dall’abbazia e si avviarono lungo la strada dell’Albaneta ma dovettero rientrare precipitosamente dopo essere stati fatti oggetto di mitragliamento. Fallì pure un secondo tentativo fatto sventolando una bandiera bianca. Solo verso sera fu possibile «accostare due carristi» tedeschi con i quali si riuscì a concordare un incontro con un ufficiale tedesco alle 5 del mattino seguente. Nella notte nessun civile ebbe l’«ardire» di uscire dal monastero ed «affrontare la linea del fuoco che arriva[va] fino a Roccasecca ed esporsi alla mitragliatrice tedesca». Per tutta la notte l’abbazia fu isolata «da una cintura di ferro e di fuoco», da un intenso e «violento» cannoneggiamento14. All’alba del 15 febbraio giunse in abbazia un ufficiale tedesco il quale dette poca importanza del manifestino. Riteneva che si trattasse «semplicemente di propaganda destinata a spaventare i monaci» o che fosse stato inviato per «intimorire». Ma d’altra parte i tedeschi non avrebbero permesso «a nessuno il passaggio delle linee»15. L’unica disposizione adottata fu quella di consentire il transito sulla mulattiera che da Montecassino giunge a Villa S. Lucia passando per San Rachisio-Il Colloquio che i tedeschi garantivano sarebbe rimasta percorribile per monaci e civili dalla mezzanotte del 15 febbraio alle sei di mattina del giorno dopo. Ma oramai era troppo tardi. Nel frattempo all’interno del monastero si sentivano urla e grida. La gente era in preda al panico: «bimbi che piang[evano], donne che prega[vano], uomini che impreca[vano]». C’era pure chi proponeva di uscire «in massa con bandiera bianca». Finché si sentì sempre più vicino il rombo «assordante, ossessionate» del motore degli aerei16.

Inizialmente gli ufficiali del Pwb si aspettavano di vedere i civili italiani abbandonare in massa, immediatamente e precipitosamente, il monastero. Anche le sentinelle alleate disposte a un chilometro di distanza negli avamposti, erano state avvertite «di fare attenzione ai civili in fuga» perché sarebbe arrivati forse in molti. Tuttavia nel pomeriggio «non apparve nessuno» e così anche nella notte seguente. All’alba De Grazia e altri del Pwb si arrampicarono sulle pendici di Monte Trocchio aspettando l’arrivo degli aerei. Il decollo dei bombardieri dalla base aerea di Foggia segnò la fine della badia benedettina.

Secondo i rapporti dell’Army Air Support Control appariva «difficile pensare che qualcuno degli occupanti della costruzione po[tesse] essere sopravvissuto». In realtà la piccola comunità monastica non subì alcuna perdita né i tedeschi dislocati poco distante. Invece i civili in parte sopravvissero (soprattutto quelli che si trovavano lungo lo scalone «Pax») e in parte morirono (soprattutto quelli situati negli ambienti della biblioteca e della falegnameria). Non perirono solo all’interno del monastero ma furono colpiti a morte anche molti di quelli che «pazzi dal terrore» tra un’ondata e l’altra erano usciti fuori all’aperto cercando una via di fuga. Le postazioni alleate li avevano scambiati per militari tedeschi in fuga e avevano aperto il fuoco. A metà mattinata e poi nella notte vari civili riuscirono a raggiungere le mulattiere a disperdersi nella montagna. La maggior parte si diresse verso Villa S. Lucia-Roccasecca attraversando le linee tedesche poiché si poteva accedere all’abbazia solo dal lato dei tedeschi. Si muovevano in un ambiente totalmente sconquassato, i luoghi erano talmente irriconoscibili che alcune famiglie imboccarono un sentiero che riscendeva verso Cassino. Qualcuno riuscì invece a raggiungere gli avamposti alleati.

Alfred de Grazia da Monte Trocchio si era nel frattempo spostato verso est dove presumibilmente sarebbero dovuti transitare eventuali sopravvissuti. Riuscì a incontrare alcuni italiani, donne, bambini, uomini anziani. Nel Rapporto che stese in data 5 marzo 1944, riferì dei colloqui avuti con alcuni profughi. Il primo a oltrepassare i confini era stato un uomo di una «trentina d’anni, ferito alla testa e un po’ ammaccato» che apparve verso le due della notte tra il 15 e il 16 febbraio. Un gruppo di circa 8 persone transitò a mezzogiorno seguito da qualche altro. De Grazia chiese ai civili se ci fossero altri sopravvissuti ma gli fu risposto che erano «tutti morti». I superstiti affermarono che non «c’era un solo tedesco in nessuna parte dell’Abbazia», né postazioni militari, né armi, né punti di osservazione; che i civili avevano piena libertà di movimento all’interno dell’abbazia e potevano accedere a tutti gli ambienti «tranne un tratto» che si affacciava direttamente sulle linee alleate poiché i militari alleati avrebbero potuto scambiarli per tedeschi; che già prima del bombardamento c’erano stati morti e feriti; che nel monastero mancavano medicine, a parte un piccolo unguento; che cominciavano a scarseggiare i viveri ma soprattutto l’acqua in quanto difficile da reperire poiché chiunque si allontanasse finiva sotto il fuoco degli alleati.

De Grazia chiese anche se avessero ricevuto i volantini di avvertimento17. Gli risposero che l’avviso era noto a ogni singola persona. Tuttavia la gente «ci credeva solo a metà». Alcuni pensavano che fosse falso (ad esempio perché il volantino non era firmato), altri invece che bisognava evacuare, altri ancora che bisognava rimanere in quanto l’abbazia era un luogo sicuro e infine c’erano coloro i quali avrebbero voluto uscire ma si rendevano conto del terribile pericolo che correva chiunque uscisse18.

Nel febbraio 1944 «all’opinione pubblica americana arrivò una versione trionfale dei fatti. I giornali americani si affrettano a giustificare l’azione dell’esercito. Il «New York Times» riportò in un titolo a cinque colonne: «Gli Stati Uniti fanno esplodere i nazisti nell’abbazia del monte Cassino!». Il cinegiornale Pathé trasmesso negli Stati Uniti annunciò che la distruzione era stata necessaria perché i tedeschi avevano trasformato l’abbazia in una fortezza. Il presidente Roosevelt sostenne la versione ufficiale. L’opinione pubblica mondiale per la stragrande maggioranza fu favorevole al bombardamento. Della sorte dei civili non si parlava. Si stimava che il numero di persone presenti in abbazia si aggirasse tra 1.000 e 3.000. «Nessuno aveva pensato di chiedere un armistizio per raccogliere i feriti e i morti. Nessuno aveva pensato di mettere a disposizione ambulanze, lettighe e personale di pronto soccorso». Non fu possibile accertare quanti fossero i civili periti. Secondo alcune fonti il numero degli scomparsi si attesterebbe attorno a 250 morti per altre tra le 300 e le 500 persone.

1 Anche i tedeschi utilizzarono vari sistemi per fare pressioni psicologiche. Ad esempio quando nella primavera del 1944 si accorsero che avevano di fronte truppe polacche, le quali avevano rilevato le posizioni di quelle francesi, iniziarono una propaganda psicologica per minare il loro morale usando volantini, messaggi radiofonici e persino altoparlanti installati nelle primissime linee di trincee. «La loro propaganda mirava a persuadere i Polacchi a passare nelle linee tedesche con la promessa di un libero ritorno in Polonia ed i manifestini furono usati come biglietti d’autorizzazione a varcare le linee tedesche. La radiotrasmittente “Wanda” ogni giorno diffondeva comunicati polacchi, conversazioni di propaganda e canti polacchi … Detta propaganda rimase priva di effetti. Durante tutto quel tempo avemmo soltanto 5 disertori del Corpo d’Armata. I soldati polacchi erano molto bene informati del contegno dei Tedeschi in Polonia e delle loro vere intenzioni. Fu stupefacente la tenacia di siffatta propaganda durante l’intero periodo della nostra attività operativa in Italia» (W. Anders, Un’armata in esilio, Cappelli Ed., Bologna 1950 pp. 205-206).

2 Probabilmente la sede operativa era ubicata a Vairano. Il Pwb era incaricato anche del controllo di tutti i mezzi di comunicazione italiani: stampa, radio e cinema. Il 6 giugno 1944, alle 13.00, immediatamente dopo la liberazione della capitale italiana da parte delle truppe alleate, aveva iniziato la propria attività «Radio Roma», un’emittente radiofonica (sulla falsariga di «Radio Bari» e «Radio Londra») che come prima notizia dette l’annuncio dello sbarco in Normandia, e anch’essa fu posta sotto il controllo del Pwb. Poi dal 1° marzo 1945 il «Giornale Radio» delle regioni centro-meridionali passò dalla gestione Pwb alla gestione Radio Audizioni Italiane. Quindi il 14 giugno 1945 si insediò la nuova gestione dell’Eiar, sotto il controllo delle autorità militari alleate, finché «Radio Roma» fu inglobata nella Rai.

3 D. Hapgood, D. Richardson, Montecassino, Milano, Rizzoli, pp. 196-197.

4 L. Cavallaro, Cassino, Mursia, Milano 2004, p. 126.

5 Alfred de Grazia (29.12.1919-13.07.2014), era nato a Chicago, Illinois. Era figlio di un musicista siciliano emigrato ventenne negli Usa dopo aver colpito con il suo clarinetto il sindaco del suo paese, Licodia in provincia di Catania, nel corso di una lite per motivi politici. Alfred era secondo di quattro figli e dei suoi tre fratelli Sebastian ha vinto il Premio Pulitzer, invece Edward è stato un eminente avvocato difensore della libertà d’espressione e Victor fu vicegovernatore dello Stato dell’Illinois dal 1973 al 1977. Alfred de Grazia si è laureato in giurisprudenza presso la Columbia University e nel dopoguerra è stato docente della Brown University. Nel 1960 si trasferì con la famiglia a Firenze e insegnò presso l’Università di Roma, quindi in quella di Bombay, di Istanbul, di Göteborg e infine, ottantatreenne, presso il Dipartimento di Matematica, Statistica, Informatica e Applicazioni dell’Università di Bergamo essendo stato uno dei pionieri dell’informatica.

6 Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 anche Alfred de Grazia fu mobilitato e il 19 febbraio 1942 venne arruolato nell’esercito americano come soldato semplice. Fu poi promosso caporale, cadetto, tenente e infine capitano. Inizialmente prestò servizio nei reparti di artiglieria, quindi fu inquadrato nell’intelligence e nella propaganda di combattimento prima nell’OSS (Office of Strategic Service) e poi nella neo istituita unità di Psychological Warfare. Prese parte a sei campagne, in nord Africa, Italia, Francia e Germania. Sbarcò in Sicilia nel corso dell’«Operazione Husky». Nel 1943 dette vita al primo quotidiano alleato in un territorio liberato, il «Corriere di Siracusa» (quattro pagine d’informazione di cui due in italiano due in inglese) e l’anno successivo al «Corriere di Palermo». Prese parte anche allo sbarco di Salerno e si ritrovò in inverno sulle innevate e fredde montagne abruzzesi. Per il suo servizio nella Seconda guerra mondiale, de Grazia è stato insignito delle onorificenze statunitensi della Bronze Star e della EAME Campaign Medal, di quella francese della Croix de Guerre oltre a essere nominato Cavaliere della Legione d’Onore nonché è stato nominato, postumo, DMOR (Distinguished Member of Regiment) membro illustre del reggimento dei Servizi Speciali per le attività prestate in operazioni psicologiche.

7 La ricostruzione delle vicende è stata operata sulla base di Home Front and War Front in World War II: the Correspondence of Jill Oppenheim de Grazia and Alfred de Grazia (1942-1945) una raccolta di circa 2.000 «Lettere d’amore e di guerra» che compongono l’intensa corrispondenza scambiata nel corso del Secondo conflitto mondiale tra Alfred de Grazia e la prima moglie Jill Bertha Oppenheim (giornalista ebrea di origini tedesche) con cui è stato sposato dal 1942 al 1971 e da cui ha avuto sette figli, per poi sposare Nina Mavridis e quindi Anne-Marie (Ami) Hueber, scrittrice francese. Alfred de Grazia ha lasciato anche uno scritto autobiografico sulla sua esperienza di guerra intitolato The taste of war (Il sapore della guerra), Metron Pubblication, Pricenton N.J. 1992 ripubblicato come A taste of war: Soldiering in World War II (Un sapore della guerra: soldato nella Seconda guerra mondiale), Metron Pubblication, Pricenton N.J. 2011.

8 E. Grossetti, M. Matronola, Diario di guerra. Il bombardamento di Montecassino, a cura di F. Avagliano, Miscellanea cassinese, Montecassino 1997, p. 88.

9 F. De Rosa, L’ora tragica di Montecassino, Ed. Sigraf, Pescara 2011, p. 149.

10 E. Grossetti, M. Matronola, Diario di guerra … cit., p. 87.

11 L’anticipazione di 24 ore portò anche alla modifica del piano generale d’attacco. Essendo stato previsto il bombardamento nella sola mattina del 15 a esso non avrebbe fatto seguito alcun attacco della fanteria alle macerie del monastero. Alla Divisione indiana spettava muovere all’assalto, nella notte tra il 15 e il 16, di Quota 593 sulla quale non era previsto alcun bombardamento e lanciare poi l’offensiva all’abbazia nella notte tra il 16 e il 17 o in quelle successive. Neanche le rimostranze del gen. Dimoline, comandante della Divisione indiana, che palesò le difficoltà di posizionamento dei suoi uomini riuscì a convincere il gen. Fryberg il quale rimase ostinatamente fedele alla data del 15 febbraio (L. Cavallaro, Cassino … cit., pp. 136-137).

12 D. Hapgood, D. Richardson, Montecassino … cit., p. 196.

13 Il comandante in capo delle truppe tedesche a Cassino, gen. Frido von Senger und Etterlin, apprese del contenuto del volantino solo dopo il bombardamento (L. Cavallaro Cassino, … cit, p. 128).

14 F. De Rosa, L’ora tragica di Montecassino … cit., p. 150.

15 E. Grossetti, M. Matronola, Diario di guerra … cit., pp. 88-90.

16 F. De Rosa, L’ora tragica di Montecassino … cit., p. 149.

17 Quanta lontananza con i volantini lanciati a fine settembre 1943 a Napoli, poco prima della liberazione della città. che servivano propagandisticamente ad invogliare i partenopei ad accogliere gli angloamericani e nei quali si leggeva: «Al porto di Napoli è arrivata una nave nel golfo di Salerno carica di cibo destinato per mio ordine al popolo di Napoli. Questo comprende 800.000 chili di farina, 200.000 chili di latte, 100.000 chili di minestra concentrata. Inoltre vi sono 70 tonnellate di medicine. Pane per gli affamati, latte per i bambini, medicine per i malati e i feriti saranno a vostra disposizione non appena le porte di Napoli saranno aperte agli Alleati. Questa nave non è che l’inizio … Gen. Mark Wayne Clark» (G. Russo, La guerra dimenticata. I caduti di pietra, Boopen, Napoli 2017, p. 331 n. 394).

18 Il Rapporto del tenente Alfred de Grazia al Psychological Warfare Branch fu trasmesso al Quartier generale alleato e poi a Londra e Washington. Finì poi negli archivi segreti, conservato presso il Public Records Office di Londra fino a quando un’indagine ufficiale britannica non lo citò nel 1949. Ora è in Frederick Jones, Reports on the Events Leading to the Bombing of the Abbey of Monte Cassino on 15 February 1944, cit. in D. Hapgood, D. Richardson, Montecassino … cit.,, pp. 203, 245n.

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