«Studi Cassinati», anno 2024, n. 4
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di
Adriana Letta*
Ancora un interessante incontro inserito nell’arco delle molteplici manifestazioni di quest’anno, tenutosi a Cervaro, per iniziativa del Centro Documentazione e Studi del Cassinate APS e del Comitato per l’80° anniversario della liberazione 1944-2024. L’occasione è stata la presentazione del libro di Gaetano de Angelis- Curtis dal titolo Terrazza Cervaro: la trincea del fronte – Militari e civili di un Comune affacciato sul caposaldo della Linea Gustav, un libro che raccoglie una quantità di documenti storici, racconti, storie, testimonianze, ricordi, col rigore dello storico e con l’affetto di un figlio. Nella chiesa di S. Paolo a Cervaro, accolti dal parroco Padre Ricky Ignacio, hanno preso posto al tavolo dei relatori il Vescovo Gerardo Antonazzo, il Sindaco di Cervaro Ennio Marrocco, Roberto Molle dell’Associazione Battaglia di Cassino Studi e ricerche e Alessandro Campagna della stessa Associazione; Anna Maria Arciero del CDSC. All’inizio, una voce fuoricampo, quella dell’Autore del libro, ha introdotto gli argomenti della serata e per dare più colore, ha fatto accedere due uomini vestiti da soldati, che avvertivano, anzi ingiungevano alla popolazione del paese di sfollare quanto prima allontanandosi in fretta perché era davvero pericoloso restare, la guerra era arrivata. Questa trovata d’effetto ha creato un’immediata empatia nei presenti, molto attenti, proiettati in quel tempo tragico per tutti i cervaresi. Anche un elmetto del tempo della guerra era sul tavolo, testimone muto.
L’avv. Roberto Molle, che ha fatto da coordinatore della serata, ha dato la parola al Vescovo Gerardo Antonazzo, il quale, ringraziando per l’iniziativa, ha osservato che tutte le commemorazioni della seconda guerra mondiale e della terribile distruzione provocata nel Cassinate fatte in questi 80 anni, ci sembravano un continuo progresso verso la pace e invece ora, con le guerre a noi vicine, ci ritroviamo come se gli ottanta anni si fossero talmente assottigliati da farci sentire “in continuità” con la guerra. E come continuamente il Papa e la Chiesa ripetono, la guerra è sempre sbagliata. Occorre davvero una riformulazione del pensare sociale, rimettere al centro il rispetto per la dignità umana, che è di tutti e di ciascuno. È scandaloso dividersi in tifoserie. Nessuna parte è vincitrice, con la guerra siamo tutti sconfitti. Inoltre, quando la guerra termina e tacciono le armi, c’è povertà per tutti, odio, rancore, desiderio di vendetta. Perciò ben vengano momenti come questo, che inducono a ricordare e a riflettere.
A sua volta, il Sindaco Ennio Marrocco ha porto il suo saluto ringraziando con calore l’Autore del libro su Cervaro e gli organizzatori della serata. L’avv. Roberto Molle ha osservato come De Angelis-Curtis, «produttore seriale di libri», da storico ha raccontato e fatto raccontare i fatti accaduti, le storie personali che compongono la grande Storia, i ricordi, ed è tutto documentato: vuol dire che è andato alla ricerca delle fonti, anche orali, ma con riscontro storico: un po’ come Diogene con la sua lanterna. La memoria, ha concluso, è una cosa seria. Ha fatto notare come i cervaresi da sfollati si sono ben integrati nei paesi dove erano rifugiati, ma non dimenticarono Cervaro e appena poterono ci tornarono per ricostruire tutto. L’avv. Alessandro Campagna, anche lui appassionato di storia locale, ha fatto alcune sottolineature: Cervaro, su cui si è soffermata la ricerca storica di De Angelis-Curtis, per la sua posizione, «affacciata sul caposaldo della Linea Gustav», visse davvero una tragedia e subì una distruzione immane. Anche dopo la guerra, i residuati bellici provocarono ancora la morte di molti cervaresi. Fu importantissimo durante e dopo, il ruolo svolto dai parroci, che tra l’altro furono i primi a scrivere per raccontare episodi della guerra nella provincia di Frosinone.
È stata poi la volta di Anna Maria Arciero, scrittrice e autrice di opere teatrali sulla storia di Cervaro, che ha lodato l’opera dell’Autore, epopea del popolo cervarese. Si è poi soffermata sul periodo della ricostruzione, quando gli abitanti tornarono in paese e trovarono una situazione paragonabile a quella di Gaza oggi, ma si dettero da fare, impararono a riutilizzare cose lasciate dagli americani, per es. le cassette per la polvere da sparo che divennero le cartelle di scuola dei bambini che, pur senza scarpe, andavano di nuovo a scuola. Tanti bambini, anche da Cervaro, non solo da Cassino, furono mandati al nord presso famiglie ospitali. E in conclusione: «Vorrei essere io ad aver scritto questo libro!».
Infine Gaetano de Angelis-Curtis ha ringraziato tutti e ha proposto la visione di due brevi interessanti filmati dell’Istituto Luce su Cervaro. Una serata davvero interessante, di storia comune, di ricordi, di commozione e di riflessione profonda, a cui forse ognuno dei partecipanti avrà aggiunto una più sentita preghiera perché la guerra, col suo bagaglio di morte, distruzione, dolore, violenze e soprusi, non prenda più il sopravvento sulla vita.
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Intervento di Anna Maria Arciero
Bene ha fatto l’Autore, esimio professore Gaetano de Angelis Curtis, a curare la ristampa di questo libro in occasione dell’ottantennale della distruzione di Cervaro, perché Terrazza Cervaro: la trincea del fronte è un libro che dovrebbe, deve, stare in ogni casa cervarese.
Il sipario del passato non va mai chiuso: la storia deve essere conosciuta, perché «insegna», come diceva Cicerone; anche se, integrava Antonio Gramsci, «La storia insegna, ma l’uomo non impara» e forse aveva ragione quest’ultimo, come dimostrano purtroppo gli avvenimenti recenti. lo sono convinta che la storia della propria terra deve essere conosciuta e rivisitata con la lente di ingrandimento nei minimi particolari. Solo così se ne possono apprezzare tutti gli aspetti e allora anche le cose materiali che il tempo ha salvato diventano cibo per la mente, destano ricordi, reminiscenze, curiosità…
Ecco, il nostro prolifico autore ha “salvato” tanta storia di Cervaro, perché il libro è l’epopea del popolo cervarese travolto dal turbine della guerra: tutti i sofferenti cervaresi, vittime, sfollati, reduci, combattenti, prigionieri, eroi, amministratori della ricostruzione vi sono accomunati “nell’amore di un libro”. È un libro fatto con amore e per amore del proprio paese. Solo a scorrere gli elenchi reperiti presso gli archivi dei ministeri si può avere un’idea di quanto lavoro esso abbia richiesto. Soltanto uno studioso che ama la storia della sua terra poteva farlo – attingendo alla banca dati del Ministero della Difesa e dell’Archivio di Stato – e bisogna riconoscere che il nostro autore è un topo d’archivio, i posti dove attingere li sa tutti lui – e lo dico con invidiosa ammirazione.
Ma, accanto ai dati minuziosi di elenchi scritti, ecco le testimonianze, le fonti della memoria storica locale, – io le chiamo “le storie salvate appena in tempo”, perché molti testimoni non ci sono più.
Il racconto della guerra per il lettore è come un film e lo ha egregiamente commentato il relatore che mi ha preceduta. Io mi soffermerò sulla ricostruzione, anch’essa ampiamente trattata dall’autore con documenti e notizie tratte appunto dalla memoria storica, che, quando ormai è scritta, diventa documento anch’essa.
Dunque, l’odissea cervarese non termina certo con il ritorno al paese: case in macerie, strade sventrate, acqua stagnante, alberi carbonizzati … tra fame, malaria, tifo, mine e persino beni nascosti
trafugati. Qui, a Cervaro, paese di orafi, i tedeschi avevano cercato l’oro nascosto anche con i metal detector; a S. Lucia, la mia contrada, zona di campagna, i contadini avevano nascosto i maiali su delle piattaforme di legno calate nei pozzi, ma i tedeschi giravano per le campagne grugnendo e le povere bestie rispondevano e così si autodenunciavano.
Quindi non c’era più niente, le condizioni erano quelle che oggi vediamo a Gaza. Il sindaco Cascarino in una relazione del 1946 (come da documento riportato dall’Autore stesso) scrisse esattamente così: E «se Cassino è sinonimo di città martire, Cervaro è trincea del fronte della linea Gustav…» e lamentò la grave situazione dei senzatetto, senza strade, senza scuole, senza acqua, senza chiesa… insomma senza tutto.
Un anonimo articolista, per sollecitare autorità e comitati a intervenire, fare, agire, operare, scrisse «il popolo conduce vita da troglodita».
E sì che il popolo le pensava tutte. A Fontanarosa, i tedeschi avevano fatto saltare il ponte sul rio Faio e la ferrovia verso Cassino perché non se ne servissero gli alleati. Mi raccontò Palmerino D’Aguanno, un anziano testimone che aveva vissuto rocambolesche avventure con i tedeschi e che io chiamavo «l’archivio di S. Lucia» (e mi fa piacere nominarlo in questa sede) che gli Americani scostarono le rotaie e quel tratto diventò per loro una specie di comoda autostrada. Al ritorno alla vita, la povera gente senza tetto e senza niente usò quelle rotaie come travi per sostenere la copertura, quasi benedicendo chi gliele aveva procurate.
Resilienza, questa parola tanto di moda oggi, era messa in atto senza certo conoscerne il significato. E anche per le cose più disparate lasciate dagli Americani. Le cassette piene di polvere da sparo, la «polva» la chiamavano, a forma di spaghetti, era abbondantissima giù a S. Lucia – sappiamo che dietro monte Trocchio si nascondeva la gran parte delle truppe alleate, pronte ad affacciarsi sulla “terrazza Cervaro” – ebbene di questa «polva» ce n’era talmente tanta che la usavano per accendere il fuoco ancora dopo molti anni, la ricordo io, che sono nata nel dopoguerra. E le cassette venivano usate come contenitori, ma anche come sedili e banchi nella scuola, che riparti già nell’estate del ‘44, appena ritornò dallo sfollamento in Calabria il maestro Umberto Arciero. Esiste una foto, scattata da un soldato inglese di origine italiana che, da Caserta, era venuto a portare il chinino ai suoi parenti, una foto che ritrae un gruppo di scolari senza scarpe, ma con le cartelle: erano le cassettine che gli Americani portavano a tracolla con la polvere da sparo.
Stessa condizione a Cervaro paese. Il maestro Antonio Pacitti, presto nominato direttore didattico, nel suo libro Cervaro mondanara, fa della scuola una descrizione impressionante e commovente, per le situazioni invano denunciate alle autorità: vani senza porte e finestre, senza banchi, senza lavagna, senza carta, senza niente, persino senza maestri, dispersi dalla guerra, e, d’inverno, quando il freddo si faceva intenso, anche senza alunni, che preferivano rimanere nella loro capanna, vicino a un misero focherello.
Purtroppo Cervaro era ancora più in «pietose condizioni e penuria di materiali» ebbe a dire Restagno: come S. Pietro Infine e S. Vittore, il fuoco alleato, volto a scacciare il nemico, l’aveva distrutta al 98 per cento.
La chiesa di Santa Maria Maggiore aveva subito danni alla copertura e si dovette procedere ai lavori di restauro; la chiesa dei Piternis era rimasta indenne, ma la statua della Madonna era andata persa e fu uno dei primi pensieri ricomprarla subito a Napoli, per la festività dell’8 settembre ‘45.
La più irrimediabilmente danneggiata fu questa chiesa di S. Paolo, talmente distrutta che si preferì, decisione di ottobre 1951, di abbattere i ruderi e ricostruirla dal nuovo e anche con un diverso orientamento, l’attuale, mentre prima affacciava su via Roma. Dalle macerie fu faticosamente estratta l’antica statua dell’Addolorata opera del quindicesimo secolo, che fu mandata a restaurare a Napoli.
Nonostante la burocrazia, con un piano di ricostruzione che interessò luce elettrica, viabilità, acqua, chiese, fognature, sanità (esisteva a S. Antonino un ospedaletto svizzero per i malati di malaria; per le altre urgenze si doveva andare a Venafro, spesso su un carretto, come successe a uno scolaro di S. Lucia che aveva perso mezzo piede con un proiettile trovato per terra), il volto di Cervaro cambiò pian piano, grazie anche ai finanziamenti statali.
Al riguardo l’autore riporta una serie di vicende, tensioni, polemiche e persino voci, che interessano non poco il lettore appassionato di storia locale, quello che dalla microstoria delle cose e delle vicende sa estrapolare e capire meglio la macrostoria, la Storia con la S maiuscola. Possiamo visionare i documenti che attestano l’opera quasi missionaria dei medici Gagliardi e Coletta, i quali hanno lasciato lettere o articoli di doglianze che sono capolavori di altruismo e professionalità. Colpisce la lettera del medico Coletta ai Comuni di Cassino e Cervaro per sollecitarli a fare opera di bonifica urbana:- La malaria va debellata dall’ingegneria, non dalla medicina- E poi:- In guerra, a scopi aggressivi, abbiamo visto costruire ponti e strade, deviare fiumi, impiantare servizi telefonici e telegrafici, illuminare città e spiegare ospedali in breve tempo … e oggi, per opere di bene, in questa nostra terra martoriata, che ha subito i massimi danni bellici, tutto procede con deplorevole lentezza…- Sono parole che fanno riflettere. Chiedeva la bonifica terriera perché non solo la malaria mieteva vittime, ma anche le mine schü, antiuomo, lasciate dai tedeschi, e altri migliaia di residuati bellici inesplosi. Nei campi saltavano in aria i contadini che aravano i terreni (a Foresta trainando essi stessi l’aratro, in sostituzione del bue), ma soprattutto i bambini che giocavano. Per sottrarli a questi pericoli, il sindaco di Cassino, Di Biasio, nel 1946, organizzò delle vacanze in Alta Italia per 3500 bambini del Cassinate e tra questi anche alcuni cervaresi. I manifesti dell’epoca riportavano la scritta, emblematica del problema «Salviamo i bambini di Cassino».
Finalmente, nel ‘48, sorse l’edificio scolastico, nell’area dove prima sorgeva il monumento ai caduti della Prima guerra mondiale. Monumento di cui Cervaro andava orgogliosa, e giustamente, essendo fra i pochi paesi che avevano innalzato un’opera in marmo a ricordo. A Cassino, ad esempio, avevano piantato 273 platani, uno per ogni soldato cassinate morto, a fiancheggiare la strada dalla chiesa del Carmine, l’odierna “Madonnina”, al quinto ponte. Sia Cassino che Cervaro evidentemente pensavano “a imperituro ricordo”.
Qui, a Cervaro, nel ‘48, nella villetta comunale, viene innalzato il monumento all’eroe Vittorio Marandola, che ha ricevuto la Medaglia d’oro al valore militare, orgoglio della nostra terra.
Insomma, “lento pede”, sia per la burocrazia, sia per la penuria di mezzi, la vita ricomincia.
E oggi siamo qui a rileggerci la nostra storia e a trarre insegnamenti dalle “lezioni” della storia, su un libro scritto da un fecondo scrittore cervarese, il nostro Gaetano de Angelis Curtis, anch’egli orgoglio della nostra Cervaro.
Che altro dire?
Dieci anni fa, nel 2014, quando ebbi l’onore di presentare la prima edizione di questo libro, l’applauso finale mi coprì la chiusa. Oggi fatemela fare: «Senza invidia, professore: -Vorrei averlo scritto io».
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La data e il luogo della presentazione del volume Terrazza Cervaro non sono casuali. Il 22 novembre 1943 per la gente di Cervaro, ammassatasi nella chiesa di S. Paolo, ebbe inizio lo sfollamento in altri Comuni. Ecco perché l’evento di presentazione del libro è stato preceduto dal racconto, con voce fuori campo, delle fasi iniziali della diaspora cervarese svoltasi ottantuno anni or sono ricostruite con immaginazione e dall’ingresso di due uomini in uniforme tedesca a ricordo dei tassativi ordini cui dovette obbedire l’inerme popolazione locale con l’allontanamento forzato dal proprio paese, dai propri cari e il trasferimento al nord:
«Mi chiamo Attilio Canale, più conosciuto a Cervaro come Attilio N’vigl. Ho combattuto nella Prima guerra mondiale. Sono stato catturato e internato in un campo di prigionia. Sono sempre stato un appassionato di musica e nei mesi di prigionia ho potuto ascoltare la musica suonata dagli altri militari provenienti da tutta Europa. Alla fine della guerra sono tornato a casa e quando ci riunivamo a suonare nella Banda musicale di Cervaro facevo ascoltare agli altri la musica che avevo imparato in prigionia, una musica diversa, una musica ‘nuova’ e da lì il soprannome di Attilio N’vigl.
Nel Campo di prigionia riuscii anche ad apprendere il tedesco. Quando poi nel settembre 1943 l’esercito tedesco giunse a Cervaro, mi chiamarono per fare da interprete e far sapere alla popolazione locale gli ordini emanati dal comando tedesco.
All’inizio di novembre mi mandarono in giro per il paese con una trombetta per avvertire le famiglie che anche Cervaro sarebbe diventato un campo di battaglia e allora il comando tedesco aveva ordinato l’evacuazione del paese e lo sfollamento degli abitanti. Per le operazioni di sgombero i tedeschi mettevano a disposizione degli autocarri per il trasporto. Le persone dovevano tenersi pronte con l’obbligo perentorio di abbandonare le proprie case. La gente mi chiedeva: «Ma dove ci portano?». Io lo sapevo dove li portavano ma per tranquillizzarli rispondevo «non vi preoccupate andrete in paesi qui vicino».
Il 22 novembre giunsero in paese vari autocarri. Avvertite le persone, queste dovevano raccattate velocemente poche cose, pochi miseri averi. Ogni famiglia poteva portare al massimo una valigia e nel giro di poco tempo doveva presentarsi nella Chiesa di S. Paolo. A retromarcia gli automezzi tedeschi si avvicinavano alla porta della Chiesa e la gente, a gruppi di venti, sotto la minaccia delle armi veniva fatta salire sui cassoni posteriori dei camion tra grida, urla, pianti. In quelle fasi concitate le persone erano in preda alla disperazione perché erano state costrette ad abbandonare le proprie case, le proprie cose, i propri cari che avevano deciso di rimanere a Cervaro o nelle campagne limitrofe disubbidendo agli ordini di sfollamento, perché dovevano affrontare un viaggio non sapendo dove venivano portate e per quanto tempo. I camion partiti da Cervaro arrivavano in alcune città dell’alta provincia di Frosinone: ad Alatri dove alcuni trovarono ospitalità (come d. Michele Curtis, il fratello, le famiglie Rossini e Di Camillo), oppure a Ferentino dove gli sfollati furono ammassati nel collegio Martino Filetico per poi continuare il viaggio in treno, caricati su carri bestiame. Alcune persone riuscirono a eludere la sorveglianza e rimasero per tutto il tempo dello sfollamento a Ferentino, altre riuscirono a scendere dal treno approfittando dei rallentamenti. Così fece don Vincenzo Testa, il parroco di Cervaro, che scese a volo dal vagone nei pressi di Roma e raggiunse altri sacerdoti nella capitale. Tutti gli altri arrivarono in paesi del nord Italia: Asola, Casalmoro, Loreggia, Verona, Arsiero, Treviso e tanti altri Comuni del Veneto o della Lombardia. Nel settentrione gli uomini e le donne di Cervaro trovarono accoglienza, ci fu uno spirito di solidarietà con le comunità locali. I cervaresi seppero farsi apprezzare, non rimasero inattivi ma si rimboccarono le maniche, andando a lavorare in campagna, talora anche nelle fabbriche, oppure come artigiani. Ci furono delle nuove nascite, anche dei decessi, nacquero nuovi amori e nuove famiglie.
Quando poi gli sfollati iniziarono a far ritorno a Cervaro non trovarono che desolazione, un paese distrutto al 98% con poche case ancora in piedi, pieno di residuati bellici, di campi minati, di malaria e malattie. Con gravi sacrifici e sforzi riuscirono però ad avviare l’opera di ricostruzione incamminandosi verso la rinascita morale e materiale anche se qualche tempo si riaprì impetuosa la strada dell’emigrazione verso la Francia, la Germania e nelle Americhe».
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