«Studi Cassinati», anno 2025, n. 1
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di
Angelo Nicosia*
Ottanta anni or sono, sulle ceneri della distruzione bellica, iniziava l’«altra battaglia» di Cassino, come fu definita: la lotta contro la malaria che mieteva più vittime di ogni altra cosa nei territori devastati e che Alberto Coluzzi, un malariologo inviato da Roma con scarsissime attrezzature, medicinali e finanziamenti, riuscì a vincere destando un’eco mondiale per aver ottenuto l’eradicazione totale della malattia in tempi relativamente molto brevi. Si propone il ricordo dell’uomo di origine umbra innamoratosi di queste zone, scritto in occasione del ventennale della sua scomparsa anche per celebrare la figlia Francesca Romana, famosa artista nazionale, che il Comune di Esperia ha inteso commemorare il 23 marzo 2025 intitolandole una Sala comunale a Monticelli.
Mi sembra che sia stato nel 1986, o forse nel 1987, quando ho ricevuto una telefonata del prof. Alberto Coluzzi. Non ricordo con precisione come aveva avuto il mio numero, ma probabilmente l’aveva letto sull’elenco telefonico dopo che qualcuno gli aveva fatto il mio nome. Per telefono mi aveva accennato ad alcuni suoi interessi di ricerca e mi chiedeva delle informazioni e dei libri di storia locale: perciò fissammo un incontro a casa sua a Monticelli.
Una telefonata inaspettata che mi lasciò in una emozionante attesa. Avevo sentito parlare del prof. Coluzzi: sì, se ne parlava, qualcuno lo conosceva di persona. Si diceva della sua attività contro la malaria, della sua professionalità, del laboratorio che aveva impiantato nella villa di Monticelli… Quella villa circondata e nascosta da tanti alberi, lungo la strada per Esperia, che, tutte le volte quando ci passavo davanti, attirava il mio sguardo incuriosito dall’atmosfera di mistero che trasmetteva. L’occhio cercava di penetrare la fitta vegetazione per intercettare qualcuno, qualcosa, un segno di quel laboratorio di cui pure si sentiva parlare. Ma niente: la villa mi sembrava disabitata. Insomma una curiosità rimasta sempre levitata nella mente, tanto da lasciarmi nel dubbio se veramente là esistesse un laboratorio. Si parlava anche di occasionali presenze della figlia del prof. Coluzzi, l’attrice Francesca Romana. Della sua esistenza però non dubitavo, perché avevo visto i suoi film, ma ero perplesso circa una sua frequentazione di quella villa, ben curata ma apparentemente vuota.
Con queste curiosità sospese nei pensieri andai quindi nella sua villa di Monticelli, dove, nell’immaginario associativo di tutte le cose che virtualmente sapevo, mi aspettavo di trovare un cattedratico signore magrolino, in doppio petto, o al massimo in camicia bianca ben tirata, visto che si era nella buona stagione. Invece tutto il contrario. Si trattava di un uomo alto, robusto, disinvolto, affabile e incredibilmente garbato che ti toglieva subito fuori d’ogni imbarazzo. Si capiva che era un Signore, di quelli con la S robusta, che sprizzava, e si vedeva in ogni suo atteggiamento, forza e carattere da ogni parte. Ebbi subito la convinzione di trovarmi davanti ad un Grande Uomo. E quando mi disse «diamoci del tu» mi trovai inaspettatamente in difficoltà e alla fine risposi più o meno così: «Professor Coluzzi, se non ci sono problemi, Lei mi dia del tu e per ora io continuo a darle del Lei fin quando mi sarò abituato». Trattandosi di quell’Uomo che era, non tardai a trovarmi talmente a mio agio che in seguito riuscii a dargli del «tu».

Gli avevo portato alcuni dei libri che cercava. M’illustrò più dettagliatamente i suoi interessi: era convinto che la malaria della forma maligna fosse stata introdotta in Italia durante la guerra annibalica e in particolare sospettava che nella nostra zona il contagio fosse iniziato nelle città romane poste lungo l’antica Via Latina percorsa dalle truppe di Annibale nel 211 a.C. Ora, come «uomo di scienza» in pensione, voleva continuare a dedicarsi alla disciplina di sempre ma sotto l’aspetto storico per dimostrare la sua ipotesi. Discutemmo di ciò e onestamente non riuscivo a dargli né torto e né ragione, perché non sapevo nulla in merito, né mi ero mai posto il problema, e nessuno storico, credo, se lo era posto fino a quel momento. Gli espressi liberamente il mio fazioso pensiero, riconoscendo che l’idea era stimolante per le implicazioni storiche della nostra zona, ma che bisognava portare avanti la ricerca per trovare prove o almeno indizi plausibili.
In quell’occasione non potevo mancare di rappresentare al prof. Coluzzi tutte quelle domande sulla villa e sul laboratorio antimalarico che avevano sempre stimolato la mia curiosità. Il prof. Coluzzi non risparmiò alcun dettaglio alle informazioni richieste. Venni solo allora a sapere che quella villa fu costruita dai Fantacone di Esperia, quindi passata ai Bergamaschi e poi da lui acquistata. Mi fece notare lo sfuggente affresco in alto nel timpano della facciata e mi portò a visitare la stanza con l’«archivio antimalarico» e con le attrezzature rimaste e me ne illustrò gli impieghi passandone in rassegna i diversi componenti. Nella sua disponibilità e nel suo entusiasmo di far vedere e di raccontare percepivo la grande passione che aveva animato il suo impegno professionale, quanto cara gli era questa nostra terra, scenario della sua attività sperimentale, e quanto sentimento ancora lo legava a quella passione, che giustificavano appieno, ora, il suo interesse verso un’indagine storica locale sulla malaria. Mi rendevo conto come anche quella potesse essere un’occasione per non tagliare i ponti definitivamente con un passato che attraverso il duro lavoro di repressione della malattia gli aveva procurato tante soddisfazioni per la professione e tanta ammirazione nelle popolazioni locali.

Da quel momento le mie visite alla villa si sono ripetute con una certa frequenza, prima per portare i libri che il prof. Coluzzi riteneva utili per la sua ricerca, e poi per la crescente correlazione di calore e di amicizia che là trovavo e che pian piano sempre più mi rendevano affezionato a quell’ambiente «familiare». Un ambiente condiviso con la dinamica figura della moglie del prof. Coluzzi, una donna dolce, gentile e discreta, che solo apparentemente operava all’ombra del marito, ma che rappresentava l’elemento unificante della famiglia. Qui avevo cominciato a conoscere, dai continui richiami nelle conversazioni, i loro due figli, Mario e Francesca, che solo in seguito, prima l’una e poi l’altro, ho potuto incontrare di persona.
Tutto sembrava procedere nel più naturale ordine delle cose, anche quando il prof. Coluzzi cominciava a risentire dei segni della malattia, che, in verità, non avevo capito. Ma lo vedevo sempre più tormentato dalle crescenti difficoltà negli spostamenti in casa, nonostante egli cercasse stoicamente di mascherare le sofferenze assecondato dalla sua solida indole. E alla fine ha dovuto piegarsi alla implacabilità del male e ci ha lasciati con quella dignità che era la sua virtù più forte.
Quando, il 5 aprile 1990 presso il municipio di Pontecorvo, venne ricordato ad un anno dalla scomparsa, un suo collega malariologo usò l’espressione: «un grande albero è caduto». Intesi quelle parole come il più efficace riferimento simbolico al prof. Coluzzi e fui pervaso dall’amarezza, che ancora sento dentro, di una amicizia durata così poco.
Passando davanti alla villa di Monticelli, lo sguardo ancora oggi cerca di penetrare attraverso la fitta vegetazione per intercettare qualcuno o qualcosa. La villa è disabitata, ma cerco di immaginare quando una volta pullulava di attività per «l’altra battaglia di Cassino», quella portata avanti dal prof. Coluzzi contro la malaria.
* «La Lucerna», [Pontecorvo] Quinta serie, Numero 11, Aprile 2009, p. 19.
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