Studi Cassinati, anno 2014, n. 4
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di Lucio Meglio
Cento anni fa il disastroso terremoto della Marsica che la mattina del 13 gennaio stravolse la vita di migliaia di persone residenti nel centro Italia e cambiò il volto a decine di paesi ricadenti sotto il territorio dell’allora Diocesi di Sora, Aquino e Pontecorvo. In occasione della triste ricorrenza presentiamo un racconto inedito di chi visse in prima persona quei terribili giorni nella città di Sora. Il memoriale è stato redatto da p. Francesco Iannucci, passionista residente nel ritiro sorano di Santa Maria degli Angeli, e fa parte integrante della Platea di quella famiglia religiosa che tanto si prodigò nell’assistenza ed aiuto ai sopravvissuti del tempo. Il testo è un racconto accorato, in più parti commovente, che fa rivivere le stesse angosce e paure dei protagonisti di quella terribile vicenda.
«Vorrei avere lo spirito e la rettitudine di Giobbe per poter ripetere le citate parole senza offendere la mano dell’Onnipotente che sì fieramente percosse (per i nostri peccati) nel tremendo giorno 13 gennaio, mercoledì, del 1915! Erano circa le 7.30 del mattino di detto giorno, quando una prima tremenda scossa di terremoto in senso sussultorio seguita tosto da altre due non meno tremende scosse in senso ondulatorio e vorticoso, seminarono strage, morte e rovine! Il terremoto si estese a tutta l’Italia centrale, dove più dove meno, avendo per epicentro tra Avezzano e Pescina con la conca del Fucino. Mi limiterò a dare un cenno della nostra cara e disgraziata città di Sora. Ma cosa dirò? Quando si è avuta la sventura di vedere certe scene di terrore, di morte crudele, quando il cuore ha provato ore, giorni e notti di angoscia mortale, ogni descrizione è pressoché impossibile! Scrivo le presenti memorie dopo vari mesi da quel funestissimo giorno 13, eppure, lo confesso schiettamente, non posso trattenere le lacrime al riflesso di quella tremenda catastrofe che travolse crudelmente tra immani rovine tanti infelici, tanti conoscenti, amici, benefattori. Sono circa venti anni che venni di famiglia in questo Ritiro tutto avrei creduto meno che tutto ciò che vidi in quel giorno funestissimo e seguenti! In questa città e limitrofi, si stava bene, sembravano sconosciuti i castighi di Dio (io lo facevo sempre notare al popolo nei miei discorsi onde incitarlo alla gratitudine verso il Signore). Il popolo, urbano e rurale, non conosceva miseria; campi fertili, ricco commercio, le numerose chiese, abbellite unicamente col soldo del popolo, erano frequentatissime, il culto divino era quasi praticato con sfarzo; i Passionisti da tutti indistintamente erano amati, stimati e rispettati, sia dalle autorità ecclesiastiche sia da quelle civili e militari. Ma forse il Signore fra tanta esteriore bontà (non si nega che v’era pure dell’esteriore malizia) vide che il nostro cuore non era chino al suo Divin cospetto e giustamente ci percosse. Per ragione d’ordine tralascio le notizie che riguardano particolarmente questo ritiro. L’anzidetto giorno dunque avvenuta la triplice tremenda scossa di terremoto, la Comunità tutta fuggì spaventata al giardino, e guardando verso la città si vide una densa nuvola di polvere che si sollevava in aria. Fu facile arguire l’avvenuto! Sacerdoti e fratelli accorrevano tutti in varie direzioni della città e della campagna. Grida, urla disperate dappertutto: le casette intorno erano quasi tutte crollate, con morti e feriti. La vicina chiesetta della Madonna della Neve era essa pure mezza crollata. Le case del borgo San Rocco erano miracolosamente illese. Giunti al largo detto l’Arena, nuove grida, urla etc. Lì proprio incominciava ad apparire apertamente la tremenda catastrofe, case crollate, persone sepolte vive. Noi sacerdoti allora cercammo di dividerci nei vari punti della crollante città onde apportare un qualsiasi aiuto all’anima e al corpo. Si giunse nei pressi della piazza di Santa Restituta, quale orrendo spettacolo! La grande e bella chiesa della Santa Patrona era completamente crollata, rasa al suolo, solamente la statua di S. Restituta era rimasta intatta nella sua nicchia! Le persone devote che vi erano dentro vi restarono sepolte. All’interno della piazza, macerie sopra macerie e sotto quelle pietre uomini, donne, bambini sepolti vivi, schiacciati orrendamente. Attraverso i buchi si sentivano strazianti lamenti, si vedevano come carboni di fuoco gli occhi dei miseri sepolti. Dalle finestre mezze crollate si affacciavano uomini, donne grondanti sangue, implorando aiuto. Cosa fare? Unitamente ai pochi carabinieri e soldati, si cercò, si tentò, ma è impossibile tutto dire, tutto descrivere il fatto e molto più ciò che avrebbe dovuto farsi in quell’ora tremenda! La maggior parte delle persone superstiti sembravano stupidite, pochi in verità piangevano, certuni dei più colpiti sembravano che ridessero. Una ragazza mi tirava per il mantello e quasi insensibile mi indicava il cumulo di macerie che ricopriva la cara mamma! Ad ogni passo nuove scene. Il grande e bel palazzo di Mobilj era crollato completamente per metà, seppellendo orrendamente le due buone sorelle Mobilj donna Checchina e donna Massimina, entrambe affezionatissime a questo ritiro. Il fratello don Carlo con la famiglia miracolosamente salvatosi in altra parte del palazzo crollante, era mezzo impazzito, ed ancora ignorava la triste sorte delle amate sorelle; finalmente lo si poté far scendere da parte della finestra con scale. Il palazzo De Rossi altresì era crollato seppellendo 23 persone tra le quali tutta la famiglia del carissimo nostro medico Angelo Cianciosi e la donna di servizio Maria Tersigni (virtuosissima giovane) sorella del nostro garzone Felice Tersigni che parimenti ebbe il padre schiacciato dalle rovine della casa di campagna! Nell’antico e vastissimo monastero di Santa Chiara crollò il grande campanile e si riversò nella cappella interna dove vi erano 8 suore della carità che ascoltavano la messa celebrata dal mai bastantemente compianto vero sacerdote di Gesù Cristo Don Gian Andrea della nobile e ricca famiglia Annonj. Pochi minuti erano trascorsi che le suore si erano comunicate ed il sacerdote aveva appena sunto la seconda abluzione del calice … fu il loro viatico! Perirono tutti! Fu la strage degli innocenti! Le suore erano tutte buonissime religiose amate e rispettate; e qui giova far notare che in questa tremenda sciagura apparve manifesta la mano di Dio che cercava vittime gradite per placare la sua divina giustizia, poiché dappertutto si constatò che le persone colpite erano delle anime buone. A Meta, frazione di Civitella Roveto, vi furono 42 vittime, 30 di esse restarono sepolte nella chiesa con il sacerdote celebrante. E lo stesso dicasi di Ortucchio, Celano, Cese. In Ortucchio e Celano vi erano in missione i Padri Liguorini, due ne perirono mentre sedevano in confessionale; uno di essi era fratello di un nostro padre Ignazio di Gesù Bambino, il quale parimenti si trovava in missione a Montellanico (Roma) e parte per il suo naturale sanguigno e parte per lo spavento provato, essendosi lì pure sentito fortemente intenso il terremoto, morì tosto il giorno dopo il fratello liguorino, vale a dire il 14. In Luco si trovava il nostro padre Demetrio di S. Pio in predicazione, non era ancora uscito dalla casa del nostro benefattore don Raffaele cav. Alfieri; restò gravemente ferito nella testa, e perciò non poté aiutare a disseppellire le persone di casa più o meno ferite gravemente, ed il caro ragazzo Lello schiacciato.
Torniamo a Sora, dove il disastro appariva sempre più crudele. Caduta la stazione ferroviaria, sospesi i treni, rotto il telegrafo e telefono, si era nella completa privazione di notizie, di soccorsi. Verso il terzo giorno finalmente riattivate alla meglio le comunicazioni, incominciammo a capire che il disastro aveva colpito pressoché tutta l’Italia centrale, con preferenza la Marsica, la Valleroveto; insomma cominciammo a capire che eravamo circondati da vasti cimiteri! Con i primi treni giunsero i primi soccorsi, i primi soldati. Poi arrivarono altri treni stracarichi di altri soldati d’ogni arma: pompieri, i primi reparti della Croce Rossa. La città fu occupata militarmente, specie per garantirla dai ladri, che fecero buoni affari. Le autorità locali furono tutte destituite, fu cercato un comando militare con un Plenipotenziario civile. Si crearono posti di pronto soccorso. I cadaveri, man mano che si estraevano si allineavano in determinati punti per la ricognizione, indi si trasportavano al Camposanto dove si seppellivano in lunghi filoni di terra e spesso anche senza cassa, non potendosi facilmente avere in quel generale trambusto. Fortunato quel vivente che poteva afferrare un pezzo di tavola per farsi una capannella da ripararsi la notte! I moltissimi feriti furono essi pure fin dai primi momenti ricoverati alla meglio sulla paglia sotto baracconi, e medicati alla meglio che si poté; nel quale pietoso ufficio si prestò il nostro infermiere fratel Sisto. Fortunatamente dalla Croce Rossa e dalla commissione dell’ospedale civile furono innalzati comodi padiglioni dove furono curati regolarmente feriti più gravi. Gli altri feriti, con i ragazzi, ragazze, orfani, vecchi, storpi, malaticci etc. furono in pochi giorni fatti tutti partire per varie località sicure: Roma, Napoli, Caserta, accolti dappertutto con affettuoso entusiasmo, curati, alimentati, vestiti per un paio di mesi dalla carità dei vari comitati privati, pubblici, civili, ecclesiastici. Monasteri, conventi, collegi furono ripieni. Il Santo Padre papa Benedetto XV aprì a sue spese parecchi ospizi, e perfino fece aprire, per le ragazze, il palazzo pontificio di Castel Gandolfo. Anche i nostri ai Ss. Giovanni e Paolo in Roma ne ricevettero. Onore, gratitudine a tanti cuori generosi. Sfollata così la popolazione di Sora, e così dicasi degli altri paesi colpiti, l’arduo problema dell’esistenza, del ricovero, era alquanto attenuato, ma per risolverlo troppo ancora vi era da fare! Ripeto, ogni giorno più giungevano soccorsi d’ogni maniera, era il cuore generoso dell’Italia tutta che accorreva in aiuto dei fratelli sventurati. Onore, gloria, ringraziamenti a tutti! Ogni giorno treni carichi di pane, pasta, carne in conserva, scarpe, indumenti dei più signorili ai più poveri, tende militari, copertoni incerati; roba tutta spedita sia dal governo che dai numerosi comitati privati di pressoché tutti i principali centri d’Italia. Con i più sentiti ringraziamenti verso tutti, noi sentiamo un dovere speciale verso il comitato di Valle Caudina presieduto dal conte Santasilla e dal barone Gallotti, ben conosciuto dai nostri religiosi di Airola. Detti signori vennero espressamente qui in ritiro, sotto una pioggia torrenziale, e consegnarono lire cinquecento per sopperire unicamente ai bisogni della comunità, ed altre lire cinquecento da distribuirsi ai bisognosi a nostra fiducia ed arbitrio. Merita parimenti di essere qui ricordata con gratitudine la famiglia Cappuccio di S. Antimo che subito telegrafò al P. Rettore in questi precisi termini: «venite tutti di comunità a casa nostra». Intanto a Sora nella villa Boimond si era formato un comitato centrale con deposito di tutto ciò che giungeva. Subito si formarono altri comitati di soccorso per la distribuzione del pane, vestiti, coperte, tende. Noi Passionisti fummo inclusi nel comitato di questa contrada la Selva; ed il padre Francesco e Sebastiano a preferenza attesero a questo penosissimo incarico. Dire tutto ciò che bisognò soffrire dei detti padri per compiere con carità, giustizia, esattezza, l’incarico loro affidato, è quasi impossibile! È da sapersi anzitutto, che il terzo giorno del terremoto si guastò il tempo: acqua, neve, vento, inondazioni spaventose, basti dire che il fiume per ben due volte straripò in maniera tale che le acque giunsero fin sotto questo ritiro, vale a dire sotto la strada che porta a S. Apollonia; era un mare immenso spaventoso! La povera gente entro le capanne, baracchelle, in pericolo di affogare; urla, pianti disperati, erano ore, giorni di mortale agonia, peggiore del terremoto stesso! Il cattivo tempo durò quasi continuo per circa sei mesi! Rimettendo così a pari i circa sei anni da che le piogge si andavano facendo sempre più scarse, di guisa che le sorgenti le più profonde minacciavano di restare asciutte, come già lo erano tante altre, e lo stesso fiume Liri era diventato un ruscelletto da non fornire più acqua sufficiente per i mulini, le cartiere, la luce elettrica.
Fu osservato nelle cartiere che circa un’ora dopo, l’acqua del Liri quasi d’improvviso riconquistò l’antico livello, con l’antica quantità sufficiente per tutte le numerose industrie; il qual fatto accreditò la voce, ossia l’opinione di coloro che dicevano che il terremoto era stato provocato dalle acque del lago Fucino, già prosciugato, per ostruzione sotterranea del grande emissario, e tale opinione fu sostenuta da alcuni fisici dal 3 (dico 3) gennaio 1915, vale a dire dieci giorni prima del terremoto, nel qual giorno appunto avvenne la prima spaventosa alluvione del fiume, come sopra si è detto. Le strade quindi erano dei pantani di acqua e melma, scavate orribilmente dal via vai del popolo, delle truppe, dei carri, dei camion enormi degli artiglieri, pompieri etc. In tale stato per quasi un mese i due padri dovevano andare dal ritiro alla villa Boimond ove erasi formato il deposito generale dei viveri. Ivi spesso bisognava attendere ore ed ore, ed anche giornate intere, scalzi, s’intende, sotto la pioggia, la neve, in attesa della distribuzione ai vari comitati dei sacchi di pane, coperte, tende, indumenti; e poi caricato il carro andarlo a distribuire al popolo bagnato ed affamato. Alle volte erano le due e le tre dopo mezzogiorno ed i poveri padri stavano digiuni, pur distribuendo pane ai tanti infelici. Spesso bisognava litigare con i membri delle commissioni, con i delegati, per sostenere i propri diritti, o per meglio dire, i diritti del popolo disgraziato. Tornando in ritiro non vi era che buttarsi in terra, convinti che il giorno dopo non ci saremmo rialzati. Benedetto e ringraziato Dio! La mattina seguente ci sentivamo più forti (si era dormiti sulla paglia nella stalla s’intende). Riguardo alle autorità, tanto civili che militari, formate subito con pieni poteri dal regio governo, erano in massima delle gentilissime persone anche sotto l’aspetto religioso. Al presentarsi dei Passionisti erano accolti con deferenza: basti dire che un giorno fu presentata dai due menzionati padri, una petizione per un sussidio speciale di 150 tende militari per distribuirle a questi poveri contadini, essendo insufficiente il numero che si dava regolarmente ai comitati, il comandante generale militare cui era presentata detta petizione, quasi senza leggerla vi appose la firma di concessione, e nel mentre si estraevano dal deposito militare, il p. Francesco disse subito si avrebbe presentata nota distinta delle famiglie alle quali sarebbero state consegnate le tende militari, «non occorre, rispose il buon colonnello, il vostro abito è garanzia di tutto».
Tale stato di sofferenze, angustie del pari direi, di soddisfazioni e quasi consolazioni, nel mezzo di tanti guai durò circa un mese, senza un raffreddore, un dolore di testa! Benedetto e ringraziato il Signore Dio nostro».
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