Studi Cassinati, anno 2014, n. 4
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
> Scarica l’articolo in pdf
.
Il 2 novembre 2014 a Cervaro si è tenuta la presentazione del libro Terrazza Cervaro: la trincea del fronte. Militari e civili di un Comune affacciato sul caposaldo della «Linea Gustav» di Gaetano de Angelis-Curtis, che ripercorre le vicende dei cittadini di Cervaro nei vari luoghi di sfollamento o di rifugio, oppure sui vari fronti di guerra in cui furono impegnati i militari originari di questa terra, molti dei quali periti in combattimento oppure dispersi, oppure avviati in campi di prigionia o d’internamento.
La presentazione è stata preceduta da una cerimonia, semplice, sobria ma sentita e toccante, nel corso della quale si è provveduto allo scoprimento di una lapide dedicata a tutte le vittime civili e militari di Cervaro della seconda guerra mondiale. L’Amministrazione Comunale di Cervaro ha inteso ricordare e commemorare con un segno tangibile e duraturo, individuato nella lapide apposta sulla facciata del Palazzo comunale, il martirio patito negli anni di guerra da un’intera popolazione.
Quindi i presenti si sono portati nella Sala consiliare «Carabiniere Vittorio Marandola M.O.» del Comune dove si sono tenuti gli interventi del sindaco di Cervaro dott. Angelo D’Aliesio, del dott. Danilo Salvucci, consigliere comunale di Cassino e presidente del «Comitato 70° e oltre», e dell’ins. Anna Maria Arciero, cultrice di storia locale.
Intervento di Anna Maria Arciero
Oggi presentiamo l’ultima fatica letteraria di Gaetano de Angelis Curtis, Terrazza Cervaro, la trincea del fronte, con il quale l’autore riapre uno squarcio nel sipario ormai chiuso del passato, rivisitando la storia conosciuta con la lente d’ingrandimento. Già il titolo è tutto un programma.
«Cervaro trincea del fronte» è una metafora coniata dal sindaco Cascarino in una relazione del 1946 nella quale scrisse esattamente così: «E se Cassino è sinonimo di città martire, Cervaro è trincea del fronte della linea Gustav» e lamentò la grave situazione dei senzatetto, senza strade, senza scuole, senza acqua, senza chiesa … insomma senza tutto.
Terrazza Cervaro il nostro deve averla concepita perché veramente Cervaro rappresentò, prima per i Tedeschi e poi per gli alleati, la terrazza, il belvedere da cui visionare e quindi tenere sotto controllo tutta la piana sottostante. Nello stesso tempo ‘trincea’ perché luogo deputato a ostacolare l’avanzata nemica, per i Tedeschi, e a ripararsi e lanciare offensive per gli alleati.
Il possesso delle alture intorno a Montecassino era di vitale importanza per ambedue i belligeranti, perché avrebbe assicurato il controllo della via Casilina, l’unica rotabile attraverso la quale potevano giungere rifornimenti. Un ex paracadutista a Montecassino, comandante dei famosi «diavoli verdi», Rudolf Böhmler, autore di un libro pubblicato dopo la guerra e intitolato appunto Montecassino, scrive che «intorno a Cassino si combatteva una guerra di montagna e in una guerra di montagna è regola inderogabile che colui che controlla le alture controlla anche le valli». A sottolineare l’importanza che i Tedeschi attribuivano ai monti attorno a Cassino valga un volantino satirico che la propaganda tedesca mise in giro dopo il bombardamento di Cassino che, come sappiamo, si era rivelato un boomerang per le forze alleate, una «vittoria di Pirro» dice Böhmler. Nel volantino Montecassino e le alture vicine erano rappresentati come mostri enormi e affamati, le fauci spalancate e lo sguardo feroce e beffardo, pronti a divorare centinaia di soldati alleati, con la scritta in inglese: «I monti e le valli dell’Italia assolata vogliono vedervi». Nessuna altura più di Cervaro, con monte Trocchio di fronte all’abbazia, poteva quindi essere adatta a fare da trincea difensiva e offensiva. E da terrazza, punto ideale per l’osservazione.
I filmati che abbiamo dei bombardamento dell’abbazia e della città di Cassino furono ripresi dai cineoperatori proprio dalla terrazza di monte Trocchio. Ha raccontato la giornalista Marta Gelhorm, che era la moglie di Ernest Hemingway e che era appostata proprio lì, “in terrazza”: «Ricordo il momento preciso del bombardamento di Montecassino. Ero seduta su un muretto – e pare di vederla su una macera di Trocchio – e ho visto gli aerei arrivare, sganciare, poi il monastero trasformarsi in una nuvola di polvere e, come tutti gli altri sciocchi, anche io sono rimasta entusiasta al punto di applaudire». Sappiamo dalla cronaca che da Napoli erano arrivati, oltre ai giornalisti, anche medici e crocerossine in licenza a godersi lo spettacolo, mentre i generali Clark, Alexander, Freyberg ecc. si godettero a loro volta lo spettacolo dalla terrazza di Cervaro, un posto forse più sicuro di quanto non fosse Trocchio. Mi viene in mente mio padre: «Si sa come dicono i generali: armiamoci e andateci». Da quassù lo sguardo era più panoramico e, quel che più conta, sicuro.
Esaminando il contenuto dell’opera, si può affermare che è l’epopea del popolo cervarese travolto dal turbine della guerra, è il sacrificio di un intero paese, che ha avuto perdite immani di vite, di case, di chiese, di strade … di tutto, come diceva il sindaco del dopoguerra. Il nostro autore ha accomunato tutti i sofferenti cervaresi, vittime, sfollati, reduci, combattenti, prigionieri, eroi, amministratori della ricostruzione “nell’amore di un libro”. È un libro fatto con amore e per amore del proprio paese. Solo a scorrere gli elenchi reperiti presso gli archivi dei ministeri si può avere un’idea di quanto lavoro esso abbia richiesto. Soltanto uno studioso che ama la storia della sua terra poteva farlo.
Anche la struttura del testo fa rilevare questo amore: accanto ai dati minuziosi ricavati da fonti scritte ecco le testimonianze, le fonti della memoria storica locale, mi piace chiamarle “le storie salvate appena in tempo”, – gli ultimi testimoni ci stanno lasciando – che confermano quanto l’autore va raccontando.
Il racconto della guerra, appunto. È così ricco di ricordi particolareggiati che al lettore sembra di vedere un film. Inizia il giorno dell’armistizio, 8 settembre 1943. Nel nostro paese si sta svolgendo la processione della Madonna de’ Piternis. Arrivati in piazza, dalle finestre appositamente aperte dell’avvocato Achille Cataldi si sente dalla radio la notizia della firma dell’armistizio. L’esultanza della popolazione è indicibile: è un miracolo della Madonna! Anche a S.Lucia, la mia contrada, si attribuì subito la grazia alla Madonna de’ Piternis e le donne si avviarono, scalze, per venire a ringraziare la Madonna a Cervaro. Ma alla Sordella incontrarono un uomo che le freddò: – Ora è cominciata la guerra, andate a nascondere quel poco di buono che tenete! I tedeschi si sono scatenati. Ecco, anche a Cervaro paese la popolazione si disperse, incredula e speranzosa, a vedere il da farsi. Di qui comincia l’escalation dei preparativi: nascondere, sotterrare, murare, infossare generi alimentari, biancheria, coperte, – tanto che in pieno inverno si ritroveranno con gli abiti estivi – e soprattutto ideare nascondigli e ricoveri. Già il giorno dopo, 9 settembre, le vie cittadine cominciano ad essere percorse da autovetture militari tedesche e il paese posto sotto il totale controllo dell’esercito germanico: la caserma disarmata, le case più spaziose adibite a comandi, il comune requisito, le masserie adibite a postazioni di contraeree o di cannoni e mitragliatrici. Vengono allestite cucine da campo e strutture sanitarie – tutti luoghi specificati, per cui ci sembra di vedere Cervaro occupata in un rapido susseguirsi di flash – Così succede pure a Porchio: un grosso cannone puntato verso Venafro; a Trocchio: nidi di mitragliatrici e radio ricetrasmittenti mimetizzati dalle chiome degli ulivi – l’oliveto di mio padre, proprio sulla sella della collina, fu letteralmente capitozzato.
E pensare che, secondo quanto ha rivelato uno storico americano, il Blumenson, autore di varie opere sulla II guerra mondiale, proprio l’8 settembre Hitler voleva rivolgere al governo italiano un ultimatum perché chiarisse i suoi intendimenti, deciso a ritirare truppe tedesche dall’Italia meridionale, se la risposta non fosse stata soddisfacente. L’annuncio dell’armistizio rese inutile la presentazione dell’ultimatum. Ma se l’operazione Avalanche fosse stata ritardata di qualche giorno, i tedeschi, anziché andare a presidiare, come avvenne, le alture, si sarebbero ritrovati sulla via di ritirarsi su Roma. Non ci sarebbero stati combattimenti sulle spiagge di Salerno, non ci sarebbero state le battaglie di Napoli, del Volturno e di Cassino. Quanto sangue e quante rovine avrebbero potuto essere risparmiati! Ma è un giudizio fondato sui se e sui ma.
Torniamo al 9 settembre e al racconto-film del nostro autore. Come previsto, i Tedeschi cominciano subito la caccia: agli uomini forti da utilizzare per i lavori alla linea Gustav, ai generi alimentari e agli animali domestici per il proprio fabbisogno, caccia anche a biancheria e preziosi da depredare. Era anche una guerra di furbizie. A Cervaro, paese di tradizione orafa, i soldati adoperavano degli apparecchi cerca metallo per trovare l’oro nelle cantine e nei giardini. A S. Lucia, i contadini “scarpe grosse e cervello fino” avevano nascosto i maiali nei pozzi, sistemandoli su una specie di piattaforma fatta di tavole ancorate con delle funi alla vera del pozzo. Bene, i Tedeschi, scopertone uno, cominciarono a girare per le campagne grugnendo rumorosamente e le povere bestie rispondevano al grugnito e così si auto-segnalavano. L’intento era anche quello di fare piazza pulita in vista dell’arrivo degli Alleati, come avevano fatto i Russi all’avvicinarsi di Napoleone.
Continua il film, – mi ostino a chiamare film il testo perché leggendo il susseguirsi di date con avvenimenti circostanziati (in questo l’autore è certosino), si continuano a ‘vedere’ le azioni ostili, le resistenze, le prepotenze e i bombardamenti che quasi ogni giorno scaricano bombe sul nostro paese e nel circondario. Per lavorare più tranquillamente, senza ostacoli e intralci di sorta, forse però anche per umanità, verso la fine di novembre, la gran parte della popolazione viene sfollata, ammassata nei camion diretti a Ferentino, Roma e poi smistata verso l’alta Italia. Su questo argomento nel libro ho trovato una notizia che rallegra il cuore: all’arrivo alla stazione di Arsiero, un paesino in provincia di Rovigo – e immaginiamo in quale stato psicologico potessero trovarsi i nostri paesani – trovarono ad accoglierli il podestà e i concittadini che li salutarono con un applauso. Che brodo caldo per l’anima sarà stato quell’applauso!
E si arriva al 12 gennaio 1944 quando Cervaro paese viene liberato. Soldati americani scendono dai Piternis, altri salgono dalla Chiusa, mentre una cortina fumogena cade su monte Trocchio, ancora in mano tedesca, per vanificare l’osservazione nemica.
Ed ecco, descritta e documentata la presa di Trocchio, la lunga montagna bruna che sembra una balena arenata, come la descrive il Maydalany. I Tedeschi ne vengono scacciati la notte del 15 gennaio. Si ritirano verso Cassino e Montecassino, ma prima hanno minato tutto il versante est. Molti soldati alleati ne rimarranno uccisi o mutilati, come pure civili e bambini che si sono rifugiati nelle grotte delle volpi.
Ora che Cervaro è liberata, una colonna interminabile di veicoli con armi, soldati, vettovaglie percorre ‘l’abitato disabitato’ alla ricerca di un ampio fronte per piazzare l’artiglieria contro Cassino e avere un osservatorio redditizio. Ecco che ora il nostro paese, per la sua posizione geografica, – ha detto qualcuno “la geografia detta legge alla storia” – è immediata retrovia, anzi è trincea, come dice il titolo del libro, nonché sede di comando per i generali Clark, Alexander e Freyberg e punto di osservazione privilegiato; da qui infatti assisteranno ai bombardamenti di Montecassino e Cassino. Al riparo di Trocchio c’è invece la concentrazione di uomini mezzi, prima americani e poi neozelandesi e inglesi, da avviare verso S. Angelo per tentare di attraversare il Gari. Erano generosi questi alleati con la popolazione, che riceveva aiuti di ogni genere: cioccolata, biscotti, scatolame, anche i pasti caldi – i miei intervistati di S. Lucia ancora ricordano la bontà del brodo di tacchino americano – e poi coperte e cappotti, cure mediche e disinfestazione dai pidocchi. In cambio la gente di Trocchio dà non solo ospitalità ‘obtorto collo’- , ma anche fiduciosa cordialità e persino affetto. So di donne che asciugavano vicino al fuoco gli indumenti dei soldati che tornavano dal fronte al mattino, bagnati fradici, nelle notti nebbiose passate a preparare l’attraversamento del Gari; so di bambini coccolati, vestiti e nutriti dai soldati, forse presi dalla nostalgia dei propri cari. Monte Trocchio rappresentò una trincea formidabile per gli Alleati. Posto più protetto non potevano trovare con quella forma allungata per 3 km, dirimpetto a Montecassino, a proteggere un’area talmente vasta da contenere 180 carri armati neozelandesi pronti a scattare all’attacco. Dove altro avrebbero potuto nascondere una tale mole di armamentario se non nella zona cervarese dietro Trocchio? Eppure, sembra incredibile, dal loro osservatorio su monte Cifalco, i tedeschi tenevano d’occhio tutta questa pianura. – Se presso il museo dell’Historiale di Cassino si osserva il plastico della zona teatro di guerra, si nota che questo è stato possibilissimo e risponde senz’altro al vero.
Quando poi il 15 febbraio e il 15 marzo vengono decisi i bombardamenti di Montecassino e Cassino, tra l’altro pubblicizzati al massimo, mentre in località Castello qui in paese si piazzano prudentemente Alexander, Freyberg e Clark, a Trocchio c’è una squadra di giornalisti, cineoperatori e corrispondenti di guerra.
E dopo che a maggio furono sfondate la linea Gustav e la linea Hitler, ancora monte Trocchio diventa la terrazza da cui lo sguardo può spaziare sul teatro di guerra. Probabilmente per capire il perché la guerra abbia stanziato lì per così lungo tempo e con così gravi conseguenze, vi si ‘affacciano’ il primo ministro neozelandese, Giorgio VI, re d’Inghilterra, e persino Churchill. Non visitano Cassino: è troppo pericolosa per la malaria che imperversa e gli ordigni inesplosi.
Dopo averci mostrato il film della guerra, il nostro certosino autore, attingendo alla banca del Ministero della Difesa, dettagliatamente fa il quadro della situazione in quanto a militari deceduti, dispersi, prigionieri e congedati dove, come e quando. Chi ha avuto un familiare tra questi lo ritrova in tali liste, con un certo orgoglio: umili persone assunte a dignità letteraria. E vi si trovano notizie che la memoria storica di famiglia non ha tramandato. Io, per esempio, ho ‘ritrovato’ uno zio ventenne che sapevo morto ad El Alamein e credevo seppellito in terra d’Africa; ho scoperto che invece è a Bari, nel Sacrario militare dei Caduti “Oltremare”.
Accanto ai dati statistici apprendiamo le vicende circostanziate in cui trovarono la morte i civili, le vicende degli uomini requisiti per il lavoro coatto o deportati nei campi di concentramento austriaci o tedeschi. Poi il ‘film’ continua con l’analisi del periodo dello sfollamento: quello verso il Nord, operato dai tedeschi, già a novembre, per non avere intralci nella zona di operazione, e quello, verso il Meridione, messo in atto dagli alleati, a gennaio, in vista dei bombardamenti che si accingevano a fare. Anche su questo argomento si intrecciano elenchi ed episodi raccolti da altre pubblicazioni o da testimonianze dirette. Appuriamo che furono più di un migliaio i cervaresi sfollati e l’Autore ne riporta un lungo elenco e specifica – a me sembra con una punta di orgoglio – che dovunque furono, al Nord o al Sud, seppero farsi apprezzare per laboriosità, ingegno e bravura nelle attività artigianali e rurali.
Le testimonianze sul ritorno sono veri e propri fotogrammi dell’odissea cervarese: case in macerie, strade sventrate, acqua stagnante, alberi carbonizzati tra fame, malaria, tifo, mine e persino i beni nascosti trafugati.
L’excursus della tragedia cervarese continua con l’opera di ricostruzione tra «pietose condizioni e penuria di materiali», come ebbe a dire Restagno, e «il popolo che conduce vita da troglodita», come scrisse un anonimo articolista per sollecitare autorità e comitati a «intervenire, fare, agire, operare, risolvere».
Nonostante la burocrazia, con un piano di ricostruzione che interessò luce elettrica, viabilità, acqua, chiese, fognature, sanità (esisteva un ospedaletto svizzero a S. Antonino), Cervaro pian piano cambiò volto. Al riguardo l’autore riporta una serie di vicende, tensioni, polemiche e persino voci, che interessano non poco il lettore appassionato di storia locale, quello che dalla microstoria delle cose e delle vicende da estrapolare e capire meglio la macrostoria, quella con la S maiuscola.
Non mancano i documenti che attestano l’opera quasi missionaria dei medici Gagliardi e Coletta, i quali hanno lasciato lettere o articoli di doglianze che sono capolavori di altruismo e professionalità. Colpisce la lettera del medico Coletta ai comuni di Cassino e Cervaro per sollecitarli a fare opera di bonifica urbana: «La malaria va debellata dall’ingegneria, non dalla medicina». E poi: «In guerra, a scopi aggressivi, abbiamo visto costruire ponti e strade, deviare fiumi, impiantare servizi telefonici e telegrafici, illuminare città e spiegare ospedali in breve tempo e oggi, per opere di bene, in questa nostra terra martoriata, che ha subito i massimi danni bellici, tutto procede con deplorevole lentezza». Sono parole che fanno riflettere. Chiedeva la bonifica terriera perché non solo la malaria mieteva vittime, ma anche le mine schou, antiuomo, lasciate dai tedeschi, e altri migliaia di residuati bellici inesplosi. Nei campi saltavano in aria i contadini che aravano i terreni (a Foresta trainando essi stessi l’aratro, in sostituzione del bue), ma soprattutto i bambini che giocavano. Per sottrarli a questi pericoli, il sindaco di Cassino, Di Biasio, organizzò delle vacanze in Alta Italia per 3500 bambini del Cassinate e tra questi anche alcuni cervaresi.
Riprese la scuola, in aule di fortuna, con le cassette di munizioni americane a fare da banco, seduti per terra, niente porte e finestre e lavagne e gessi e quaderni. A S. Lucia esiste una foto di scolari anche senza scarpe ma con le cartelle: erano le cassettine che gli americani portavano a tracolla con la polvere da sparo e il maestro Umberto Arciero fece scuola d’estate, appena tornato dallo sfollamento [cfr. p. 277, ndr].
A Cervaro paese, nel ’48, finalmente sorge l’edificio scolastico, si innalza il monumento all’eroe Vittorio Marandola, che ha ricevuto la medaglia d’oro. Insomma, lento pede, sia per la burocrazia, sia per la penuria di mezzi, la vita ricomincia e oggi siamo qui a rileggerci la nostra storia su un libro scritto da un fecondo scrittore cervarese, il nostro Gaetano de Angelis Curtis.
Che altro dire? Senza invidia, professore: «Vorrei averlo scritto io».
(262 Visualizzazioni)