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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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Il primo bombardamento del 10 settembre 1943 mi colse nei giardini pubblici davanti al liceo Giosuè Carducci, dove mi godevo in compagnia di amici la mattinata di sole, due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio che credevamo avesse preannunciato la fine della guerra. In attesa della imminente riapertura della scuola, curiosavamo tra gli automezzi dei militari tedeschi che in quelle ore, discretamente, occupavano l’edificio delle scuole elementari per istallarvi un ospedale militare. Sul tetto avevano disteso un telo con una enorme croce rossa.. D’improvviso un rombo assordante di motori e contemporaneamente una serie di esplosioni e l’urlo della sirena fino a quel momento udita solo nel corso di qualche prova di allarme. Non riuscivo a capire che cosa stesse succedendo. Mi sembrava assurdo che, appena stipulata una tregua d’armi, gli alleati bombardassero una cittadina inerme come Cassino, per giunta nel momento in cui vi si istallava un ospedale pur se militare. Capirono invece subito i tedeschi che presero a sparare, con le mitragliatrici poste sul tetto delle cabine dei camion, contro gli aerei che bombardavano a bassa quota.
Mi precipitai verso casa, che si trovava nella vicina Piazza Marselli (oggi non più piazza ma via), dove mio padre, l’avvocato Guido Barbato, e mia madre, Angelica Nugnes, si erano rifugiati sotto il portone, insieme a numerosi altri inquilini terrorizzati. Si intravedevano le bombe cadere a poca distanza: sembravano fulmini che precipitassero dal cielo uno dopo l’altro. Tra il fumo e la polvere che offuscavano l’aria ci sembrava che si indirizzassero verso la zona della scuola privata delle suore stimmatine dove si trovava mia sorella Fausta, alunna di quinta elementare. Mio padre si precipitò in quella direzione. La scuola era stata colpita, ma i ragazzi erano salvi. Lo rassicurò mio zio Pasquale Avino, che aveva recuperato insieme suo figlio Enzo e mia sorella. Egli si trovava poco distante dalla scuola, tra le macerie del suo pastificio che era stato polverizzato: lo ricordo ancora con l’abito scuro che indossava abitualmente, bianco di calcinacci. Ci tranquillizzò annunciandoci che mia sorella era stata messa in salvo, affidata a persona di fiducia che si era diretta verso Sant’Elia. Tutt’intorno uno spettacolo spettrale: crolli e profonde voragini, provocate dalle bombe, nelle quali già affiorava la falda d’acqua e sui bordi qua e là cadaveri maciullati. Mio padre era sconvolto, aveva riconosciuto il corpo esanime di un giovane trasportato sopra un carrettino a mano, era il figlio di un suo caro amico, l’avvocato Montanelli.
Tornato a casa, mio padre decise che ci saremmo portati immediatamente anche noi verso Sant’Elia. Raccogliemmo un po’ di cose essenziali in tre valigie, troppo pesanti per le nostre forze, e incominciammo a percorrere il nostro itinerario di profughi. Lungo la strada ci fermammo presso un colono che mio padre conosceva: “Per piacere, attacca il cavallo e caricaci, siamo esausti”. “ ‘Gnor no, ron Gui’ – rispose il contadino ancora terrorizzato dalle bombe – nun te pozze accumpagnà, nun so’ tiempi chisti, la pelle è pelle”. Proseguimmo faticosamente a piedi e verso sera arrivammo stremati a Sant’Elia, dove incontrammo finalmente mia sorella e fummo ospiti delle suore che avevano la loro casa presso la villa comunale.
Baci, abbracci, pianti. Un piatto caldo e un letto. Poi il giorno dopo cercammo un altro alloggio, al centro del paese. I giorni successivi i miei genitori fecero la spola con Cassino, per recuperare un po’ di biancheria e di vestiti e qualche riserva alimentare. Si resero conto che non era possibile ritornare a stare nella città, colpita e abbandonata dalla maggioranza degli abitanti. Si avvicinava intanto il fronte e si accentuavano i raid aerei alleati. Anche Sant’Elia non sembrò più sicura e dunque decidemmo di trasferirci in montagna. Ci portammo così a Valvori, un paesino dal quale si intravede Cassino in lontananza, un piccolo centro che allora godeva di notevole benessere a causa delle rimesse della tradizionale emigrazione in Inghilterra, dove molti abitanti erano soliti recarsi con orchestrine ambulanti o per vendere patatine e pesci fritti. Qui affittammo un appartamento in una bella palazzina all’ingresso dell’abitato, da dove però alcune settimane dopo fummo sfrattati dai tedeschi che vi istallarono il loro comando, nel quale in seguito fu ospite spesso il maresciallo Kesselring. Ci portammo dunque in una vecchia rustica casa del centro, dove occupammo una stanza mentre in un’altra attigua andò ad abitare una sorella di mio padre, Amelia, con quattro figlie, tutte donne da marito, ed un nipote, giovane figlio orfano di un’altra sorella. Cucina e un minuscolo gabinetto in comune, per dieci persone.
Il fronte ormai si era portato a Cassino. Dalla montagna vedevamo la città martoriata. I bombardamenti si facevano quotidiani, accompagnati da continui cannoneggiamenti. Una notte un attacco con bombe incendiarie accese una intera montagna di fianco alla nostra. Di giorno erano le fortezze volanti a colpire, malgrado il furioso fuoco di sbarramento della contraerea tedesca. Più di una volta ho visto aerei colpiti precipitare, mentre la contraerea continuava a sparare contro gli inermi piloti che cercavano di salvarsi col paracadute. Subito dopo i bombardamenti, immancabilmente arrivava ronzando un aereo da ricognizione, evidentemente a osservare gli effetti delle bombe.
I tedeschi facevano rastrellamenti di uomini che portavano in pianura a scavare trincee, sicché al mattino di buonora i maschi adulti abbandonavano le case per occultarsi nei boschi. Io seguivo mio padre: avevo poco più di 13 anni, ma ne dimostravo molti di più. Un giorno, trovandoci nella valle delle sorgenti del Rapido, incappammo in una pattuglia avanzata americana in cerca di informazioni. Ci illudemmo che ormai i liberatori fossero vicini. Ci regalarono sigarette (una manna per mio padre, accanito fumatore in forzata astinenza) e cioccolata. Un altro giorno, era il 22 novembre, non dimentico quella data, trovandoci in un punto panoramico dal quale si poteva osservare bene Cassino, mentre con un binocolo scrutavamo la città notammo una grossa esplosione che distrusse il mulino Barbato costruito da mio nonno e l’attigua villa. Vidi mio padre impallidire e lo sentii mormorare: “Ma come si fa a non impazzire!”. Al che l’avvocato Peppino Margiotta, che faceva parte del nostro gruppetto alla macchia, commentò: “Ma forse siamo già tutti pazzi, solo che non ce ne rendiamo conto”.
Impegno quotidiano era la ricerca di qualcosa da mangiare. Gli indigeni avevano delle riserve, ma se le tenevano strette anche per una certa antipatia che nutrivano verso gli sfollati, che consideravano quasi degli invasori. Qualcosa si rimediava da loro a caro prezzo, qualcosa dai tedeschi: avanzi del rancio, qualche fetta del loro pane nero di segale. Un giorno io e mio cugino Nino Donnesi rimediammo presso la loro cucina la grossa testa di una vacca adulta da loro requisita e macellata. Fummo festeggiatissimi quando, a prezzo di dura fatica (pesava enormemente), arrivammo a casa con quel prezioso bottino. Ci pensò mio padre a scarnificarla, non trascurando neanche gli ossi che ci fornirono abbondante brodo.
Arrivò Natale. Per la cena della vigilia mia madre aveva tenuto da parte un mezzo chilo di spaghetti autarchici, che a suo tempo ci aveva regalato lo zio del pastificio. Mentre ci preparavamo a metterli in cottura bussò un tedesco. Tememmo che volesse razziare del sale, come aveva fatto una squadraccia qualche giorno prima. Invece no, era un giovane alpino austriaco desideroso di trascorrere qualche ora della sera di Natale presso una famiglia. Si chiamava Hans Hirth. In pessimo italiano cercava di farci capire che era stanco della guerra. Faceva il gesto di buttare il cappello nel fuoco del camino. Ci mostrò le foto della madre e di una ragazza, la sua. Si trattenne un’oretta. Dopo di che mettemmo a cuocere gli spaghetti. Sarà stata la cattiva qualità della pasta o la stessa nostra ansia di mangiarla o l’emozione per la visita appena conclusa, insomma gli spaghetti risultarono scotti. Li mangiammo ugualmente ma col rammarico di aver guastato un piatto tanto agognato.
Trascorse il cuore di quell’inverno gelido, tra fame, stenti e paure. Ogni tanto la notizia di un civile morto nei dintorni, quasi sempre alla ricerca di cibo, ucciso da qualche granata impazzita. Un giorno di febbraio, l’ordine perentorio di sfollamento: saremmo stati trasportati nelle retrovie. Tutti dovevano abbandonare il paese che sarebbe stato occupato da reparti di combattimento. Due ucraini prigionieri, collaboratori dei tedeschi, girarono per le case affannandosi ad avvisarci: “per non spaccare le famiglie presentatevi in piazza contati, trentadue per camion”. In una coperta legata a “mappata” mettemmo solo una cambiata e poco di più. Nel trambusto, mia zia Amelia inciampò nei bagagli e cadde, urlando di dolore (nei giorni successivi appurammo che si era rotto il femore). La portammo in piazza su una sedia che era già notte. Qui, al gelo, in attesa del camion cui eravamo assegnati, ci fu distribuito dai tedeschi uno stomachevole rancio: una brodaglia con dentro pezzi di lardo. Verso mezzanotte toccò il nostro turno. Persone e “mappate” accumulate alla rinfusa le une sulle altre sull’automezzo, sotto il tendone serrato dall’esterno nel quale saremmo soffocati se io non vi avessi fatto uno squarcio con un abusivo coltello a serramanico. Il camion procedeva lentamente a balzelloni per la sconnessa strada di montagna verso Cassino e poi oltre, a fari spenti per evitare di essere intercettati dagli alleati appostati a breve distanza. Durante il penoso percorso mio padre si sentì male: una colica intestinale provocata probabilmente da quell’orrendo rancio. Si possono immaginare le conseguenze in quell’angusto spazio in cui eravamo ristretti.
Alle tre di notte ci sbarcarono a Ferentino, in un ampio locale sulla Via Casilina, già ristorante, adibito a posto di smistamento dei profughi. Nell’ampio salone tanta gente infreddolita intorno a un enorme braciere. Mia zia sofferente, sempre sulla sedia. A un certo punto mia sorella venne colta da una violenta colica simile a quella patita da mio padre. Appena finito il coprifuoco, mio padre uscì in cerca di una soluzione per scongiurare l’ulteriore trasferimento al Nord, si parlava di Treviso. Riuscì a prendere contatto con una persona che conosceva, il proprietario dell’oleificio Serandrea, che gli offrì riparo in una sua casa danneggiata dalle bombe che si trovava sulla Casilina immediatamente fuori paese, verso Roma. In mattinata ci trasferimmo, noi quattro e, sempre sulla sedia, mia zia Amelia azzoppata con le quattro figlie e il nipote. Quella casa bombardata ci sembrò una reggia.
Nei pochi giorni in cui ci fermammo a Ferentino subimmo due bombardamenti. La casa si trovava al centro di un tornante della Casilina: rappresentava quindi un punto di riferimento per i piloti. Ci caddero bombe tutt’intorno. Ci salvammo tuttavia dai bombardamenti ma incappammo in una delazione.
Mio padre, richiamato come ufficiale superiore dell’esercito, l’8 settembre si trovava in licenza a casa, in attesa di partire per il fronte orientale. Fino a quel momento era stato vice comandante del Distretto militare di Frosinone. Un giovane fascista di Cassino di cui non riesco a ricordare il nome (ci dissero che era stato commesso nel negozio di Pietrolungo), conoscendolo come antifascista e come militare renitente alla leva di Graziani, lo denunciò ai tedeschi. Fatto sta che una sera un plotone di nazisti irruppe nella casa per portarci tutti via.
A quel punto le mie cugine, indicando la madre sofferente immobilizzata su una sedia, si gettarono letteralmente ai loro piedi scongiurandoli di venire con un mezzo per caricarla. I tedeschi prima armarono un mitra per abbatterla, poi, frastornati dalle grida e dalle lacrime delle donne, desistettero, annunciando che sarebbero tornati il mattino successivo con un camion. Usciti loro dalla casa, di lì a poco, malgrado il coprifuoco, li seguì mio padre alla ricerca di un mezzo che ci portasse via. A caro prezzo trovò un carrettiere che la mattina all’alba caricò sul carro la zia azzoppata, i nostri poveri bagagli e, a turno, una parte delle donne, prendendo la via per Alatri, con gli altri dietro a piedi. Dopo la guerra i vicini ci raccontarono che i tedeschi, quando tornarono col camion e trovarono la casa vuota, fecero un inferno. Più tardi sapemmo anche che lo spione, che poi aveva seguito i tedeschi al Nord, era stato catturato dai partigiani e probabilmente giustiziato.
Alatri fu generosa con noi poveri profughi. Le due famiglie si separarono trovando ospitalità in due case diverse. Quella che toccò a noi, disabitata da tempo, si trovava in un vicolo all’ingresso del paese. Infreddoliti come eravamo, quando tentammo di accendere il fuoco nel camino provocammo l’incendio della cappa che evidentemente non era stata più pulita. Per spegnerla si mobilitò tutto il vicinato. C’era la preoccupazione che il fuoco si estendesse. L’incidente ci attirò la solidarietà e la simpatia della gente che fece a gara per soccorrerci. Ci procurarono coperte e cibo.
Mio padre si ricordò di un amico di Alatri, un collega benestante, l’avvocato Rossoni. Lo andò a trovare nel suo bel palazzo padronale dove egli però capitava saltuariamente, preferendo per sicurezza abitare in campagna. Gli mise subito a disposizione la casa e così noi quattro ci trasferimmo in quelle belle stanze e in quei comodi letti, avendo anche accesso alla dispensa. Prendemmo un attimo di respiro, in attesa di trovare un modo per raggiungere Roma, dove abitava un fratello di mia madre che, preavvertito, ci avrebbe ospitati.
Un pomeriggio ci trovavamo noi quattro nella piazza centrale della città quando incappammo in una retata di gendarmi tedeschi, non so se per prendere uomini da avviare al lavoro forzato o per controlli di polizia. Quando un tedesco chiese arrogantemente i documenti a mio padre ci sentimmo perduti. Mio padre tirò fuori il portafogli non tanto per mostrare l’unica tessera che possedeva, quella da ufficiale, che lo avrebbe tradito, quanto per passare i soldi che conteneva a mia madre, se lo avessero trattenuto. Per fortuna si trovava in quel momento in piazza un tenente colonnello italiano in divisa, collaborazionista di Salò, che chiacchierava col “borgomastro” (così i tedeschi avevano ribattezzato i podestà). L’ufficiale conosceva bene mio padre. Erano stati colleghi assieme al Distretto militare di Frosinone che, bombardato, era stato trasferito ad Alatri. Questi si presentò prontamente al tedesco che scattò sull’attenti: “Garantisco io, il signore è un tenente colonnello dell’esercito repubblicano, ha lasciato i documenti nella divisa”. Il tedesco salutò e ci lasciò liberi. Dopo la guerra mio padre rese testimonianza in favore di quell’ufficiale che in quella circostanza probabilmente gli salvò la vita.
Ma le nostre peripezie ad Alatri non erano finite. Indipendentemente dall’episodio in piazza, tornati a casa Rossoni trovammo l’edificio occupato dai tedeschi che lo avevano requisito per alloggiarvi i loro ufficiali. Ci trovammo così letteralmente sulla strada. Ci soccorse un uomo buono, un sarto, che si chiamava Brusselle, non so se di cognome o di soprannome, che ci mise a disposizione la sua modestissima casa e perfino il suo lettone matrimoniale, dove per alcuni giorni dormimmo in quattro, mentre lui e sua moglie si arrangiavano in uno scantinato. Non dimenticherò mai la generosità di quell’uomo: lo cercai anni dopo per dirgli grazie. A quel punto affrettammo i tempi della partenza per Roma, non prima di aver rastrellato a borsa nera quante più cibarie potevamo acquistare con le residue nostre possibilità. Mio padre riuscì a contattare il proprietario di una Balilla col motore a carbonella e con uno sportello scardinato che si reggeva col fil di ferro e una gelida mattina di marzo ci avviammo verso la capitale. Lungo la strada incontrammo quattro o cinque posti di blocco guardati da fascisti: fungevano da lasciapassare non i documenti ma qualche salame o qualche pezzetta di formaggio che dovevamo sottrarre dalle nostre provviste. Subimmo anche un mitragliamento aereo, per fortuna senza danni. Giungemmo a Roma, al Trionfale, a casa di mio zio Giovanni Nugnes, che eravamo esausti. Mia sorella Fausta aveva addirittura un principio di assideramento per il freddo patito a causa dello spiffero che penetrava dallo sportello sgangherato che non si chiudeva. Dovemmo scaldarla con panni caldi e con frizioni.
Mio zio, preavvertito del nostro arrivo, ci aveva procurato in affitto due camere di un appartamento di sei, i cui padroni erano al Nord. Lì, vicino a Piazza Mazzini, ci allocammo, di fronte alla parrocchia Regina Apostolorum, dove a mezzogiorno andavamo a prendere un pasto caldo. Vendemmo, per sopravvivere, quel poco di oro che avevamo salvato. Disponevamo solo di tre tessere annonarie: mio padre non doveva comparire, per i fascisti era un disertore.
Mia madre si levava letteralmente il cibo di bocca per dar da mangiare a noi figli, fino a ridursi in un grave stato di denutrizione che la costrinse al letto. Durante gli allarmi aerei ero combattuto tra la paura che mi suggeriva di correre al rifugio e lo scrupolo di lasciare sola mia madre in quelle condizioni. Una volta a settimana ci forniva qualche “ciriolina” scura il sor Antonio Fabiani, un panettiere originario di Cassino che da tempo aveva aperto un forno a Trastevere, in Via Garibaldi. Andavo io a prenderle. Un giorno non ho resistito, ho mangiate le tre che mi aveva consegnato, dicendo a casa che quella volta non me le aveva potute dare. Un rimorso che mi porto ancora dentro.
Passarono così i mesi, tra le paure per i bombardamenti su Roma, tra l’indigenza in cui versavamo, tra la preoccupazione che venisse scoperta la renitenza di mio padre, tra l’oppressione generalizzata dell’occupazione tedesca. Poi giunse il 4 giugno, la festa infinita della liberazione della capitale. Ma non era finito il nostro calvario di profughi. Solo alla fine del 1949 ottenemmo una casa popolare pur se piccola alla Garbatella. Ci trovammo sradicati dal nostro mondo, con tante ferite da risanare, per mio padre con una vita da ricostruire. Pur tuttavia Roma diventava la nostra seconda patria. Era, quel 4 giugno, un punto fermo dal quale ripartire per la rinascita. Ricordo ancora con emozione il 1° maggio del ’45 (la prima festa del lavoro dopo la liberazione e dopo la lunga sospensione imposta dal regime) quando andammo assieme, io e mio padre, al comizio di Piazza del Popolo. Mio padre, che non si era mai piegato al fascismo, si sentiva un vincitore. Ed io ero orgoglioso di lui.
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