Cassino: testimonianza di un reduce della 2ª guerra mondiale.


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Studi Cassinati, anno 2009, n. 3
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Diario di guerra di Benedetto Velardo*

Non sono uno scrittore e mi scuso se faccio errori.
Sul finire dell’ anno 1937 mi fu recapitata la cartolina di chiamata alle armi: partii l’8 marzo del 1938. Mi recai alla stazione di Cassino dove trovai altri giovani, chiamati per il servizio militare; un capo drappello mise tutti in riga: ci fece salire sul treno e ci portò a destinazione. Io fui assegnato all’81° reggimento fanteria, 5ª compagnia, viale delle milizie, Roma. Là trovai un sottufficiale, che era partito un anno prima; ci fu subito simpatia tra noi e nacque una bella amicizia. Lui era già anziano di servizio: mi mise al corrente dei trucchi della vita militare. La nostra amicizia durò diciotto mesi, fino all’8 settembre 1938: doveva essere il giorno del mio congedo. Non fu così, fui informato dal comando militare che tutti i congedandi erano trattenuti alle armi fino a nuovo ordine. Il mio reggimento, che faceva parte del corpo d’armata corazzato, fu chiamato a difendere i confini con la Francia e persi di vista il mio amico. Dal confine francese fui spostato sul fronte dei Balcani e dopo varie vicissitudini finii al confine con la grande Russia. Quando le forze italiane e quelle tedesche arrivarono sul primo fiume sovietico, “il Dnepr” (anche Dnieper; russo Dnepr; bielorusso Dnyapro; ucraino Dnipro), fu molto difficile creare una testa di ponte perché il fiume era molto largo e molto profondo. I russi fermarono l’avanzata degli invasori ma fu per poco tempo; arrivò il primo freddo e il fiume divenne un pezzo di ghiaccio, così i nostri carri armati passarono con facilità e si riprese l’avanzata fin sul fiume Don. Intanto i sovietici si erano alleati con l’America: per le nostre truppe, il nemico si fece sempre più forte e anche il freddo raggiunse temperature fino a 52° sotto zero. La neve bloccò tutte le vie di comunicazione ma i pericoli ancora più grandi erano la fame e il congelamento. Nel Natale del 1941, fummo impegnati nell’occupare la città di Kiev in Ucraina: 15 giorni di carneficina, i morti si contavano a migliaia. Alla fine, le truppe italiane ebbero la meglio ed i sovietici dovettero retrocedere. L’avanzata continuò. (La mia mitragliatrice, una Breda 38, era diventata un ferro scottante). A me capitò tra l’altro un episodio che ancora oggi, a ricordarlo, provo grande emozione. Durante l’avanzata (che ho raccontato), mi trovai davanti un soldato russo con una grande ferita al petto, stava morendo: mi fermai un attimo a guardarlo, anche lui mi guardò e con un filo di voce mi disse “pan davai trosh vuoti, mi diceva: soldato dammi un po’ d’acqua da bere ” (quel soldato 10 minuti prima aveva tentato di ammazzarmi). Mi avvicinai, gli misi una mano sotto il capo e lo feci bere da una borraccia, poi presi il suo zaino, glielo misi a mo’ di cuscino, poggiandovi la testa con tanta cura. Lui mi guardò e fece in tempo a dirmi “Spassiba” che nella sua lingua significa “grazie”, poi chiuse gli occhi per sempre. Un mio compagno mi rimproverò per l’azione che avevo fatto ma io non ci feci caso: avevo compiuto un’azione umanitaria e ne fui orgoglioso perché la guerra non l’avrebbe voluta lui e non la volevo io. Pochi giorni dopo ci fu dato un po’ di riposo, si doveva, comunque, fare la pattuglia. Circa 15 soldati dovevano circolare lungo la linea per non essere presi di sorpresa dal nemico. E venne anche il mio turno, quando questo terminò, rientrando io nella casa dove mi ero sistemato per ripararmi dal grande freddo, sentii un forte dolore all’alluce del piede destro, poi più nulla. In quella casa c’erano due bellissime ragazze; quando videro che io mi toglievo le scarpe, capirono che i miei piedi stavano per congelarsi: io volevo sedermi vicino al fuoco per scaldarmi ma mi dissero che non andava bene. Una di loro prese un ago, lo infilò nell’alluce ma io non sentivo alcun dolore né uscì alcuna goccia di sangue. Loro capirono la situazione, presero due bacinelle, le riempirono di neve e cominciarono a farmi dei massaggi: in poco tempo i miei piedi tornarono normali. Fu allora che feci capire al mio amico soldato (il quale non voleva aiutassi quel nemico morente) che chi fa del bene riceve del bene, chi fa del male riceve del male. Intanto le truppe tedesche avevano occupato la città di Stalingrado, ma i sovietici con una manovra a sorpresa l’ accerchiarono ed il nostro riposo svanì: immediatamente arrivò l’ordine di andare a liberare le truppe rimaste intrappolate. Anche qui la battaglia fu molto impegnativa ma alla fine fu rotto l’accerchiamento e le truppe tedesche furono liberate. I sovietici ebbero nuovi rinforzi e le nostre armate continuavano ad avere grosse perdite. Il mio reggimento, quasi distrutto, ebbe il cambio nel mese di ottobre del 1942. Ed io tornai nella mia bella Italia pensando che i sacrifici, i pericoli, fossero finiti, ma il peggio doveva ancora venire.
Quando ci fu la resa, mi trovavo a Savona con una guardia costiera e lì consegnai le armi al mio reparto. Dopo di che, cercai di arrivare a Cassino con mezzi di fortuna. Raggiunsi la stazione di Roccasecca a circa 20 km da Cassino. Fui notato dal capostazione che mi domandò dove ero diretto. Poi mi chiese se avevo fame e mi portò nel suo ufficio dove mi diede un pezzo di pane, e mi disse che i tedeschi, pochi giorni prima, gli avevano ammazzato un figlio. Mi consigliò di passare attraverso le montagne e cercare di non incontrare il nemico. Lo ringraziai e seguendo i suoi consigli arrivai a casa. Trovai la mia famiglia, ma mancava una delle mie sorelle che aveva perso la vita durante il primo bombardamento alleato su Cassino. I tedeschi in pochi giorni si erano concentrati in tutto il paese ed i 19.000 abitanti di Cassino dovettero abbandonare le loro case e tutto quello che avevano. Molti andarono nei paesi limitrofi o sulle montagne. Io e la mia famiglia andammo verso Montemaggio che conoscevamo bene e vi trovammo rifugio per un po’ di tempo. Poi anche le montagne furono occupate dalle truppe tedesche e dovemmo andare via. Si sparse la voce che il Monastero era zona neutrale, così, in parecchie centinaia, con molti bambini, donne ed anziani ci recammo a Montecassino. L’abate Diamare, quando ci vide, aprì il Monastero per dare ospitalità a tutti. (Al Monastero c’è la “Porta Santa” con la scritta PAX; dietro quella porta c’è la “Scala Santa” detta “lo scalone”, largo e lungo, che viene aperto solo nelle grandi ricorrenze). Io con la mia famiglia e i coloni del Monastero ci rifugiammo in un posto sicuro, al lato nord di Montecassino, in un grande cortile quasi interrato. Là i “fratelli” di S. Benedetto allevavano conigli e ancora oggi è detto “la conigliera”. Quel posto fu la nostra salvezza (circa 40 persone). Io avevo con me un grosso quaderno, una penna stilografica e un calamaio con l’inchiostro: queste cose mi servivano per il mio diario. Il 13 febbraio del 1943 stavo scrivendo sulla morte di un soldato tedesco colpito dallo scoppio di una cannonata, quando vidi un piccolo aereo americano telecomandato che volava a bassa quota e buttava dei manifesti; io ne raccolsi uno e lo lessi con attenzione, queste erano le parole che conteneva:
– Italiani, da molto tempo abbiamo evitato di fare fuoco su Montecassino; i tedeschi hanno approfittato di tutto, e oggi a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il Monastero e il recinto stesso. Mettetevi in salvo. Firmato 5ª armata1.
I manifesti li raccolsero anche altri rifugiati e si tentò di abbandonare il Monastero, ma i tedeschi con le loro mitragliatrici non ci fecero uscire, dicendoci che il Monastero non poteva essere attaccato. Il 15 febbraio alle ore 12, ci fu il primo massacro, seguito a breve distanza da un secondo. Morirono centinaia di persone, anche i rifugiati nella conigliera uscirono per scappare: la situazione era tale che non si capiva più nulla. Io non vidi più i miei genitori né le mie sorelle.
Ma vidi 6 bambini (il più grande di circa 8 anni), rimasti senza genitori e senza un parente che potesse metterli in salvo; si erano radunati da soli e avevano formato un mucchietto abbracciati gli uni gli altri. Io cercavo di andare verso di loro, volevo metterli al riparo ma non ci riuscii: una cannonata di grosso calibro, li prese in pieno e vidi quei 6 bambini ridotti a piccoli pezzi che volavano in aria. In quel momento pensai che Iddio non esistesse! Intanto mi ritrovai dentro la conigliera con una famiglia di amici e quando lo scempio era compiuto, il fuoco degli alleati rallentato, cercammo di allontanarci, ma prima di uscire, venne un prete a cercare aiuto perché il padre Abate era rimasto intrappolato nel suo piccolo rifugio. In sette andammo a scavare; con le mani che ci sanguinavano, riuscimmo ad aprire un varco e tirammo fuori quel santo uomo, tutto bianco di polvere e calcinacci. Un colono di Montecassino aveva un somarello dentro una grotta, lo prese, gli mise una specie di sella munita di coperta, e “il grande Diamare” fu portato verso villa S. Lucia, dove fu accompagnato a Roma dai tedeschi. Prima di partire ci diede la benedizione, poi disse al suo vicario Matronola: “Vedi se al ripostiglio della sacrestia, c’è ancora il vino della Messa e dai da bere a questi ragazzi”. Il vino fu trovato ed era molto buono. Quello fu un gesto di affetto e di carità, di quelli che ne esistono pochi. Intanto si doveva trovare una via d’uscita per la nostra salvezza, fu allora che entrai in scena io con la conoscenza delle montagne circostanti. Provai a cercare una strada: andammo prima verso monte Calvario ma non fu possibile passare; poi verso Montemaggio per andare a Caira, ma la zona era occupata dalle forze nemiche. La linea Gustav aveva molte zone per fortificarsi: verso Massa Albaneta c’è una grande vallata che scende alla frazione di Caira chiamata Pozzo Alvito. Dal lato sud ci sono le montagnine di San Comeo, il colle della Bandiera alto più di 600 m. le montagne della Vecchia, il dente del Cinghiale [forse il Vallone del Dente, n.d.r.], e i grandi crateri vulcanici con una profondità fino a 300 metri2 (questi, spenti da migliaia di secoli furono il riparo dei tedeschi). Al lato nord ci sono le montagne di Castellone, il colle di Mezzo, il monte della Cicoria [leggasi “della Cicogna”, n.d.r.] e la Bocca del Serpente [probabilmente “Testa di serpente”, n.d.r.]. Io con i miei compagni cercammo qualche passaggio ma non fu possibile. Ritornammo verso il Monastero per recarci a Cassino. Nei paraggi della Rocca Janula trovammo delle grotte per ripararci, ma la fame e il freddo ci davano tante sofferenze, allora si decise di tentare di passare la linea Gustav. La morte per noi era in agguato, ma la speranza era sempre viva, fu così che mentre camminavamo strisciando sopra le macerie, fummo scoperti dai tedeschi che ci fecero prigionieri, ci portarono dentro una grotta dove c’era il loro comando; a notte fonda ci misero dei grandi zaini sulle spalle (pieni di viveri) e ci portarono lungo la linea dove inizia la via per Montecassino, fin nei paraggi delle monache di clausura: lì la linea Gustav girava verso la Rocca Janula e c’era una postazione con un altro comando, (noi eravamo in quattro). Un ufficiale ci diede un pezzo di pane nero e ci fece tornare da dove eravamo partiti facendoci accompagnare da un soldato. A un certo punto quel soldato si fermò perché non ricordava la strada. Io mi accorsi del problema e gli dissi di mandare me avanti perché conoscevo la zona. Lui capì subito che io volevo andare dagli americani, prese la pistola e la puntò dietro la mia schiena, facendomi capire che se io andavo dagli americani lui sarebbe morto, ma prima di morire avrebbe fatto fuori me. Era l’ultima carta da giocare e accettai la sfida; era dietro di me con la pistola puntata seguito dai miei 3 compagni di sventura. Arrivammo verso la chiesa del Riparo, all’angolo c’era un palazzo distrutto, e sotto quelle macerie una postazione di soldati neozelandesi: quelli parlarono ed io dissi subito: “Italiani!” E loro: “taliani! Italiani avanti!” Allora io mi buttai sotto la postazione per paura che il soldato tedesco mi sparasse; lui non sparò e tentò di fuggire, ma fu freddato con due colpi di fucile. Per noi fu la liberazione. Intanto i Neozelandesi trovarono il mio diario, e fui sospettato di essere una spia. In prossimità di Cervaro c’era un comando americano che attraverso l’interprete mi chiese se i tedeschi sulla linea di Cassino avevano l’artiglieria; io dissi di no. Non mi credettero e di sera mi portarono nel loro osservatorio per farmi notare che l’artiglieria nemica davvero sparava verso di loro. Io feci capire che quello era un solo carro armato che la notte sparava e il giorno si nascondeva dentro una grotta. Infatti, la notte cominciava da sotto il serbatoio dell’acquedotto di Cassino e si spostava lungo la strada di Montecassino fino alla Rocca Janula dando l’idea di un reparto di artiglieria. Fu allora che gli americani fecero un grande fuoco di sbarramento e il carro armato non sparò più perché fu distrutto. Mi fecero i complimenti e mi mandarono insieme agli sfollati a Sala Consilina in provincia di Salerno. Alloggiammo in una stazione ferroviaria. Io ogni tanto mi recavo a vedere i treni che passavano, alla ricerca di qualche paesano. Un giorno un passeggero dal finestrino del treno mi riconobbe e mi disse che lui veniva da Cassino e là aveva incontrato la mia famiglia. Era il mese di novembre 1944, la guerra era finita e la mia famiglia che era stata sfollata a Venafro era tornata a Cassino. Io presi il primo treno verso Napoli e riuscii a tornare nella terra e nel paese dove non c’era più vita. Nella vallata di Cassino c’era la malaria e si continuava a morire. Ritrovai la mia famiglia che si era rifugiata in una casa di amici nella zona di Cervaro. Intanto nel 1945 gli sfollati cominciarono a ritornare alle loro terre, ma nel vedere la distruzione del loro paese, molti andarono via emigrando: in Svizzera, in Canada, in America. Nel frattempo si cominciò a ricostruire. Alla ricostruzione della prima casa presero parte 11 operai, 3 muratori e un carpentiere. Io fui con loro. Questa casa ancora oggi esiste e si trova in via Del Carmine, all’angolo di via Pascoli; la ditta si chiamava “Lamaro” e ci pagava 220 lire al giorno. Erano pochi ma ci dovevamo accontentare. Poi arrivò la ditta “Gravaldi” e iniziò la ricostruzione di Montecassino e per invogliare i pochi operai disposti ad andare a lavorare sul “Monte” dava un po’ di più, così andai anche io. I primi scavi furono iniziati sotto la torre campanaria per ritrovare il campanone, il quale venne alla luce a pezzi; fu trovata intatta la campana più piccola che attaccammo ad un cavalletto di 4 metri di altezza. Un fraticello, Fra Matteo, la mattina alle 5 ci svegliava con 13 rintocchi, alle ore 12 suonava mezzogiorno, alle 9 di sera l’Avemaria e tutti andavano a riposare. Il suono di quella campana cominciò a riportare un segno di vita nella città.
A questo punto torno un po’ indietro per raccontare due episodi.
Un uomo aveva 4 figli in tenera età, di cui il primo di 8 anni e l’ultimo di 2. Si erano rifugiati dentro una grotta nei paraggi della Rocca Janula; un giorno la povera moglie fu ferita e morì. Il marito durante la notte disse ai bambini di non piangere perché la mamma stava dormendo, ma quando i figli si addormentarono, lui prese il bambino di due anni, se lo mise in braccio e fuggì via, lasciando gli altri tre da soli vicino al cadavere della mamma. Quando tornai a Cassino si parlava tanto di questa brutta storia; io sapevo della grotta e conoscevo anche la famiglia, così andai a vedere se quello che si diceva corrispondeva a verità; in quella grotta trovai i cadaveri della donna e dei 2 bambini, (quello di 6 anni e quello di 4 anni). Il bambino di 8 anni non fu mai trovato né vivo né morto.
Ed ecco il secondo episodio: un giorno mi trovai a San Vittore, là le famiglie avevano salvato qualche cosa; io che ne conoscevo una, andai a chiedere un po’ di olio; mentre parlavo vidi una cagna con 5 cuccioli, chiesi se me ne potevano dare uno, e mi fu dato. Tornai dove abitavo ed ero contento di avere un cane perché non se ne trovavano più. Dopo 4 giorni il cucciolo scomparve, credevo me lo avessero rubato, ma incontrai chi me lo aveva donato e mi disse che la sua cagna era venuta a riprenderselo. Non ebbi più il coraggio di allontanare la bestiola dalla mamma perché questa avrebbe sofferto.
Ed ora racconto l’episodio che segnò il mio destino.
La guerra aveva lasciato tante munizioni inesplose e il pericolo di morte era continuamente presente. Un giorno del mese di ottobre 1945, poco lontano dalla casa diroccata dove avevo trovato riparo (con la mia famiglia), sentii un boato e poi delle grida di aiuto. Io corsi, vidi una ragazza con le vesti piene di sangue: la sua bellezza mi colpì anche se sporca e insanguinata; mi avvicinai, lei stringeva al petto un ragazzo. Erano arrivati altri soccorritori ma si mantenevano a distanza (i genitori erano a terra svenuti). A me il sangue non faceva più paura perché in 5 anni di guerra e sempre in prima linea, ne avevo visto tanto. Così mi accostai ancora di più, vidi che il ragazzo era rimasto senza la mano destra e stava morendo dissanguato; con un laccio cercai di legare il suo braccio e il sangue si fermò. A Cassino non c’erano cliniche né ospedali. Un pronto soccorso si trovava a Pontecorvo ma non c’erano mezzi di trasporto. Tuttavia un cavallo (per fortuna) con un carretto portò il ragazzo a Pontecorvo.
Il dottore chiese chi aveva legato il braccio al ferito, perché quella legatura gli aveva salvato la vita.
Oggi si dice che l’amore è un colpo di fulmine, per me lo fu lo scoppio di un ordigno perché la ragazza, che si era tolta i vestiti per soccorrere il fratello, ai miei occhi era uno splendore: nacque così il nostro grande amore. Ma i tempi del dopoguerra erano duri e i matrimoni non era possibile celebrarli. Non c’era Comune né chiesa per fare il giuramento. Il nostro amore tuttavia era così grande che non poteva aspettare. Il 22 febbraio del 1947 decidemmo di sposarci. E fu il primo matrimonio celebrato in mezzo alle macerie di Cassino. Un prete, Don Francesco Varone, aveva portato il simulacro dell’Assunta in una grotta dove inizia la via per Montecassino, dopo la distruzione trovò la Madonna senza un graffio, e trovò anche un tavolo e una sedia che mise davanti alla statua: fu l’altare del Sacrificio. Io e la mia sposa con due testimoni ci recammo in quella grotta chiamando don Francesco per farci unire in matrimonio. Lui mi disse che dovevo dare 300 lire per la curia di Montecassino ma io non avevo soldi e risposi che se non ci sposava, per noi era lo stesso: la promessa di matrimonio l’avevamo fatta alla Madonna. Stavamo per andare via. Don Francesco ci richiamò e ci fece fare “la promessa”. Oggi dopo 62 anni, stiamo ancora insieme; il nostro amore è ancora come nel 1947. Dalla nostra unione sono nati 4 figli e 10 nipoti. I nostri sacrifici sono stati compensati con una grande famiglia che è la nostra ricchezza.
Quando ricordo Cassino della distruzione, e vedo Cassino di oggi, ne sono orgoglioso. Ho dato il mio contributo e il mio lavoro per la ricostruzione. I miei nipoti, i miei figli, possono fare una vita più dignitosa della mia.
Ho voluto fare questo riassunto del mio passato per dire ai miei nipoti che nella vita ci sono gioie e dolori e che pur conservando una memoria lucida, non potrò più contare i miei giorni, perché ormai mi sono finiti: ho visto spuntare l’alba esattamente 33.895 volte.
Il 20 agosto del 2008 dopo 70 anni, mi sono ritrovato con il mio vecchio amico che avevo incontrato nel 1938. Ci siamo abbracciati e ci siamo raccontati tante cose; non sono mancate lacrime di gioia. Sto parlando di Salvatore Panaccione soprannominato “Pupittö”.
Ma questa è un’altra storia.


1 Il testo esatto è il seguente: “Amici italiani, ATTENZIONE! Noi abbiamo sinora cercato in tutti i modi di evitare il bombardamento del monastero di Montecassino. I tedeschi hanno saputo trarre vantaggio da ciò. Ma ora il combattimento si è ancora più stretto attorno al Sacro Recinto. È venuto il tempo in cui a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il Monastero stesso. Noi vi avvertiamo perché voi abbiate la possibilità di porvi in salvo. Il nostro avvertimento è urgente: Lasciate il Monastero. Andatevene subito. Rispettate questo avviso. Esso è stato fatto a vostro vantaggio. LA QUINTA ARMATA”.
2 In realtà si tratta delle depressioni carsiche di Monte Maggio e Monte Maiola.

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