Difesa del Risorgimento e dell’unità d’Italia


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Studi Cassinati, anno 2009, n. 3
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di Dino Coafrancesco

Da diversi anni la crisi cronica in cui versa – e non solo in Italia – lo Stato nazionale e la comparsa al Nord di un movimento come la Lega hanno portato, anche nel Sud, storici e pubblicisti a ripensare la vicenda unitaria, i modi in cui si è pervenuti all’indipendenza, il trattamento riservato alle regioni meno evolute. Ormai non si contano più gli scritti che rifanno, ancora una volta, il processo al Risorgimento e rievocano le grandi figure della cultura meridionale e non solo settentrionale, che criticarono, anche aspramente, i modi e i tempi dell’unificazione. E, in effetti, furono non poche le cose andate storte: dalla svendita dei beni ecclesiastici e demaniali, che non convertì certo gli acquirenti borghesi in moderni imprenditori agrari (anche se i loro risparmi bancari contribuirono a quella che i marxisti chiamano “l’accumulazione primitiva”) all’insorgere della cosiddetta “questione meridionale”; dagli obblighi imposti dall’acquisito status di grande potenza (spese per gli armamenti, impegni di politica estera, accresciuto senso di insicurezza, etc.) alla mancata trasformazione in cittadini di popolazioni rurali premoderne che conoscevano, sì, la miseria ma venivano ignorate da governi lontani e neghittosi, ovvero lasciate in balia di signorotti e notabili locali spesso ignoranti e prepotenti ma pur protettivi all’interno di codici clientelari.
Parlando delle “manifestazioni di recupero dell’identità meridionale – non solo borbonica – che precedette e successivamente avversò l’Unità d’Italia”, Paolo Mieli, ad esempio, ha criticato Giuseppe Galasso “il quale ha bollato questo genere di iniziative come per metà folcloristiche e per metà di nessuno spessore culturale”. Una “serena discussione” con i promotori di tali iniziative, ha rilevato, va pur fatta. E va “fatta nello spirito di chi è disposto a riconoscere qualche torto dei vincitori e qualche ragione dei vinti. Che è lo spirito giusto per occuparsi, bene, di storia”. Nulla da eccepire sul piano del metodo, sennonché, ci si chiede, i grandi meridionalisti del passato – dal liberal-conservatore Giustino Fortunato al comunista Antonio Gramsci – non avevano già ricordato, spesso con un’efficacia stilistica pari alla passione etico-politica che li animava, le ragioni dei vinti? O ve ne sono altre che ad essi sfuggivano e che la nuova storiografia non pregiudizialmente antiborbonica sta facendo emergere?
In realtà, dietro tanto odierno fervore revisionistico, vi è qualcosa che con la ricerca e la scienza non ha nulla a che vedere: la rimessa in discussione dell’unità d’Italia, con lo scontato ritorno del vieto ritornello della conquista regia. Beninteso, nessuno nega che i piemontesi abbiano avuto, per così dire, la mano pesante: dalla repressione di quella autentica guerra civile che fu il brigantaggio meridionale ai nuovi pesi fiscali imposti alle Due Sicilie, dalla carta bianca concessa alle ciniche borghesie emergenti (i Calogero Sedara del Gattopardo) alla netta subordinazione delle campagne del Sud alle esigenze dello sviluppo industriale del settentrione. Né puó essere negato che, a indurre Vittorio Emanuele II a mandare in esilio il cugino Franceschiello, fosse, più che la volontà della nazione, una inappagata ambizione dinastica portata a legare la potenza all’estensione territoriale.
E, tuttavia, ciò riconosciuto, vi sono altri aspetti del problema non proprio trascurabili.
Innanzitutto, l’ampia saggistica, che oggi ripropone il processo al Risorgimento pare poco disposta a riflettere sul nostro peccato d’origine, ovvero sulle circostanze – sfortunate – che da noi fecero coincidere i due processi cruciali della modernizzazione politica: la costruzione dello Stato – ovvero di apparati di ordine forti e capillari – e la costruzione della nazione – ovvero di quel consenso dato alle istituzioni che trasforma i sudditi in cittadini. (In Francia, tanto per fare l’esempio più classico, i monarchi, i loro grands commis, i cardinali costruirono lo Stato e l’89, Napoleone, i ministri e intellettuali della Troisième République costruirono, secoli dopo, la Nazione). Di qui il pericolo, sempre in agguato, dell’ideologismo, pericolo opposto allo storicismo – che tutto giustifica, anche i delitti commessi in passato – ma non meno grave giacché rischia di trasformare la ricerca storica nel dossier di un GIP aggressivo. Non è poco significativo che rispondendo, nel 1952, alla domanda: Fu l’Italia prefascista una democrazia?, Gaetano Salvemini, il grande storico pugliese che, nei primi anni del ‘900, inalberò la bandiera del federalismo e della democrazia, contro lo Stato unitario monarchico accentratore e insensibile alla democrazia delle autonomie, rilevava: “Bisognava creare un’amministrazione civile, un esercito, una flotta, un sistema tributario e scolastico, per popoli vissuti per dodici secoli sotto governi separati, con consuetudini eterogenee”. E concludeva: “se si ignorano i punti di partenza, non si possono apprezzare equamente i punti di arrivo”. Salvemini era meridionale e non a caso erano meridionali i teorici più intransigenti (e a lui, liberale di stampo anglosassone, invisi) dello Stato unitario – gli hegeliani di Napoli (vd. soprattutto i fratelli Bertrando e Silvio Spaventa, parenti e protettori di Benedetto Croce), ”liberali di destra”, non nel senso odierno della passione per il mercato ma, all’opposto, per il loro statalismo quasi dirigistico (la Destra storica cadde sul progetto di nazionalizzazione della rete ferroviaria).
In secondo luogo, va ricordato che le dinastie vinte – di cui vanno, certo, ascoltate le ragioni – apparvero ai grandi viaggiatori stranieri dell’età romantica – l’Ottocento è il secolo, per antonomasia, del Grand Tour – governi indegni di far parte del consorzio delle nazioni civili. Si pensi solo ai Borbone di Napoli che, alla fine del Settecento, diedero prova di tale efferatezza, nella repressione di una delle più elette classi intellettuali della penisola (i martiri della Repubblica Partenopea), da fare inorridire quel noto filantropo che era lo zar di tutte le Russie. (“Cugino, in tal modo, state decapitando la testa pensante del Vostro Regno!”).
In realtà, gli stati più estesi della penisola – quello Pontificio e il Regno delle Due Sicilie – non contenevano significativi germi di progresso culturale ed economico, né a livello istituzionale, né a livello sociale. Non a caso le loro classi intellettuali non elaborarono, neppure a unificazione avvenuta, alcuna teorica federalista che non fosse ancorata a vecchi privilegi storici o proiettata in avanti nell’inseguimento di utopie rivoluzionarie o sindacalistico-rivoluzionarie. Persino in un volume collettivo di qualche anno fa – curato da Leonardo La Puma, Il federalismo nella cultura politica meridionale (Ed. Lacaita) – un’opera altamente meritoria volta a recuperare una tradizione di pensiero politico perduta – emerge, sostanzialmente, l’inesistenza di una vera e propria cultura federalista nel Meridione. Non è solo in Giovanni Bovio, uno dei più eletti rappresentanti dell’intellighentzia napoletana di fine Ottocento, che “manca quella visione dei poteri degli stati federati che garantiscono la coesione e l’armonia di quelle che, altrimenti, resterebbero delle entità immiserite nella logica dei particolarismi comunali”. In quasi tutti i meridionali troviamo, a ben guardare, un federalismo strumentale: le autonomie diventano la testa d’ariete in grado di abbattere le fortezze di uno stato impari al suo compito di apportatore di benessere e di più elevate chances di vita per tutti. Quando ci si convince che quegli obiettivi potrebbero raggiungersi anche mediante il rafforzamento dello Stato, il federalismo e le autonomie vengono messe in un canto.
Il federalismo al Sud puó anche fondarsi sulla coscienza (infelice) di un’identità separata ma non si alimenta, certo, dell’orgoglio di quella identità – come in Carlo Cattaneo – ovvero della volontà di preservare tradizioni, opere, modelli di vita di cui si è fieri e che si vogliono tramandare, integri, alle generazioni future. La battaglia autonomistica, scuola di educazione civica di altissimo livello, non bastò a fondare un movimento politico incisivo né una forte ideologia.
In terzo luogo, va richiamata l’attenzione sull’inevitabilità della fine dei domini pontificio e borbonico in un’Italia unita i cui confini fossero giunti all’Argentario o al Volturno. Uno Stato in via di modernizzazione, infatti, – e, pertanto, sempre più simile alla Francia e al Belgio, quale sarebbe stata l’Italia centro-settentrionale (il materiale umano e le risorse culturali, economiche, sociali, di cui disponeva, almeno potenzialmente, avrebbero sicuramente prodotto un tale risultato) –, difficilmente avrebbe potuto tollerare avanzi d’ancien régime come il Regno delle Due Sicilie o lo Stato Pontificio (per non parlare dei deboli ducati infeudati all’Austria). Per la loro congenita arretratezza, è ragionevole pensare, questi ultimi avrebbero oscillato tra lunghi periodi di reazione e improvvise quanto effimere rivolte. Durante i primi, sarebbero stati i naturali protettori delle classi e dei partiti, da Roma a Torino, mal rassegnati al nuovo corso (a cominciare dai clericali, il cd. partito nero); nel corso delle seconde, avrebbero costituito un focolare populistico minaccioso per la borghesia centro-settentrionale, da sempre legata alla formula del “progresso senza avventure”. Quale paese europeo si sarebbe sentito al sicuro con coinquilini della penisola dai tratti così inequivocabilmente centro-sudamericani?
In quarto luogo, a giustificare l’unificazione politica della penisola, v’era un progetto civile che dovremmo continuamente richiamare alla memoria, rappresentando una delle pagine luminose della nostra storia plurisecolare. Alla sua base v’era la (generosa) finzione che gli Italiani del Sud e del Nord, al di là delle palesi differenze, costituissero uno stesso popolo, una sola grande famiglia al cui interno i più dotati e fortunati avessero l’obbligo di soccorrere quanti erano rimasti indietro. L’assunzione del fardello meridionale corrispondeva a un liberalismo solidale ispirato al principio per cui le “benedizioni della modernità” dovevano ricadere su tutti i fratelli d’Italia, dalle Alpi a Pantelleria. È facile, oggi, far rilevare le profonde differenze (culturali, economiche, religiose) che dividevano i popoli della penisola e, tuttavia, non vanno neppure dimenticate le fitte reti che, nei secoli passati, li avevano pur tenuti insieme in una embrionale ‘comunità di destino’ – dall’unificazione romana alla comune civiltà medievale agli splendori dell’umanesimo e del Rinascimento – i fiorentini Boccaccio e Machiavelli soggiornano a lungo, rispettivamente, a Napoli e a Roma; Genova è piena di cognomi ‘storici’ napoletani; a Napoli troviamo un grande illuminista che si chiama Antonio Genovesi … Gli stessi papi – tutti italiani, dopo l’olandese Adriano VI (m. 1523) – contribuiscono, anche per ragioni nepotistiche, al melting-pot italico: a chi oggi viene più in mente che una famiglia di nobiltà nera, radicata nel Centro Italia, i Della Rovere, provenivano dalla ligure Savona? D’altra parte, se le classi popolari, in gran parte analfabete, parlavano lingue – o, come è divenuto politicamente scorretto dire, dialetti – incomprensibili da regione a regione, quelle alte e i ceti medi – che, dappertutto, costituiscono l’ossatura della modernizzazione – uscivano dalle stesse scuole, scrivevano e comunicavano tra loro nell’idioma toscano (ovvero in italiano), leggevano gli stessi autori, seguivano le stesse mode artistiche e letterarie, esaltandosi, da Milano a Palermo, sulle note di Verdi e di Donizetti o commuovendosi sui versi di Foscolo e di Leopardi.
Infine, va drasticamente ridimensionato il luogo comune che l’unificazione sia stata un cattivo affare per i meridionali. Un paese in cui il 70% degli abitanti viveva di agricoltura, restando indipendente, avrebbe potuto risolvere il problema del decollo economico – impossibile senza l’esodo massiccio dalle campagne – o con un drastico (ma soprattutto allora inconcepibile) controllo delle nascite o con l’emigrazione in lontani lidi. L’unificazione, dando una patria a tutti gli italiani, riversò nel Settentrione, a ondate successive, masse di connazionali che finirono per radicarsi nelle grandi città del Nord senza sentire troppo il trauma del distacco dai luoghi natii.
C’è una risposta definitiva a quanti si preoccupano più della sopravvivenza delle culture che del benessere degli individui in carne ed ossa: l’elenco telefonico! I milioni di cognomi meridionali che vi figurano – a Milano come a Torino, a Genova come a Padova – e spesso in posti chiave: nelle amministrazioni, nelle imprese, nelle professioni liberali, nel giornalismo – stanno a significare che il Risorgimento creò, bene o male, una comunità di destino, una casa comune che nessun revisionismo tribale potrà più cancellare.

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