Il Brigante Domenico Fuoco

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Studi Cassinati, anno 2009, n. 4
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di Maurizio Zambardi


Il Brigantaggio Post-Unitario in Alta Terra di Lavoro

Parlare del sergente Domenico Fuoco divenuto in seguito un capobrigante sanguinario e spietato non è cosa semplice.
Ci troviamo di fronte ad una personalità molto complessa, controversa e discutibile, ma certamente trattata in maniera troppo di parte dalla letteratura del tempo e comunque in maniera superficiale e troppo semplicistica anche da alcune recenti pubblicazioni.
La trattazione del brigantaggio post-unitario, merita certamente considerazioni meno sbrigative di quelle che comunemente vengono fatte.
Si trattò di un fenomeno che interessò tutto il Mezzogiorno d’Italia. Ogni paese ebbe i suoi numerosi briganti che sommati ai tanti manutengoli, coloro cioè che li spalleggiavano, costituivano una buona fetta della popolazione.
Possibile che nei nostri piccoli, umili e pacifici paesi di colpo nascessero tanti spietati delinquenti? Anzi di piú, intere famiglie di delinquenti? Certo oggi le risposte meritano considerazioni ben piú profonde di quanto se ne siano fatte in passato.
Domenico Fuoco nacque a San Pietro Infine il 16 aprile del 1837 da Antonio Fuoco e Anna Di Raddo1, due poveri ma onesti contadini dediti anche alla pastorizia2.
I fratelli Pietro ed Emilio Calce nel loro libro sulla storia di Galluccio3 scrivono di lui: “Da piccolo mostrò un carattere impulsivo, autoritario, energico e crebbe feroce come i lupi dei suoi monti, con i quali ebbe piú volte a lottare quando guidava al pascolo per i pendii erbosi dei colli il gregge paterno. Venne su tra pericoli e stenti. Crebbe coraggioso, impavido e prepotente e per questo cercarono di avviarlo al servizio militare.
In seguito a intrighi partí dal paese e con l’ingegno naturale e la piccola istruzione avuta riuscí ad essere promosso sergente, servendo fedelmente il Re e la Patria fino alla battaglia del Volturno.
Poi visto il suo esercito in rotta abbandonare in disordine le posizioni vitali, ritornò sbandato alla casa paterna, (adattandosi a lavorare come spaccapietre). Ma a S. Pietro Infine non spirava piú aria borbonica e quegli stessi che brigarono per farlo arruolare, incominciarono a brigare per farlo arrestare. Ben presto si ebbero discussioni e liti.
Fuoco con orgoglio conservava la sua divisa e in ogni discussione sorgeva a difendere l’operato dei re Borbone, anche quando gli fu ordinato di presentarsi obbligatoriamente per arruolarsi nell’esercito piemontese, contro cui egli stesso aveva combattuto. Un triste giorno gli animi si accesero tanto che si arrivò a una furibonda lotta. Il sergente, ferito nel suo orgoglio, fu costretto a cercare scampo nella fuga. Fu inseguito per circa un chilometro fino alla selva di Montelice, tra Monte Rotondo e Montelungo. Era l’autunno del 1860”.
La tradizione orale locale riporta come motivazione le umiliazioni subite dal Fuoco al suo rientro in paese dopo la sconfitta dell’esercito Borbonico sul Volturno. Si narra che oltre agli insulti Domenico Fuoco venne ferito nel suo orgoglio da un signorotto locale che si prese gioco della sua fedeltà ai Borbone rubandogli la sciabola.
Questo motivo sommato al suo convinto ideale filoborbonico scatenarono la sua ribellione che lo spinsero prima a far parte della brigata dei volontari di Lagrange, partecipando alla sfortunata spedizione in Terra d’Abruzzo, e poi a unirsi alla banda del sorano Chiavone. Ma alla morte di quest’ultimo, nel 1862, tornò nelle montagne di casa sua per formare una sua banda, mettendosi a disposizione di Raffaele Tristany, legittimista spagnolo inviato dal comitato borbonico di Roma ad organizzare i briganti lungo il confine di Terra di Lavoro e lo Stato Pontificio. Ben presto Fuoco dà vita ad un’intesa con le bande di Pace, Guerra, Tommasino, Albanese, Giordano, Colamattei e Andreozzi nel tentativo di portare avanti una strategia comune in un’area assai vasta di territorio che spaziava dalle Mainarde, al Matese, al Massico.
Alla sua banda, che arrivò negli anni a contare piú di 150 uomini, aderirono anche il padre Antonio e i due fratelli Loreto e Alessandro e molti suoi compaesani e parenti, tra cui si ricorda anche un nipote omonimo, detto Domenico Fuoco di Angelo, detto anche Domenico Fuoco II, che rimarrà ucciso nel 1867 (aveva solo 17 anni) durante uno scontro a fuoco presso il territorio di San Pietro Infine tra la banda di Fuoco e le forze dell’ordine.
Dei tanti briganti post-unitari Domenico Fuoco puó essere considerato forse il piú scaltro, il più deciso, il più inafferrabile ma anche il più spietato. Sulla sua testa vennero poste taglie molto elevate, a cui si aggiunsero premi speciali di vari comuni ed anche della Prefettura di Terra di Lavoro. Operava anche nello Stato Romano dove spesso i briganti trovavano riparo. Di lui si sa che si recava spesso a Roma presso la centrale legittimista borbonica, per ricevere aiuti economici e direttive.
Il Corriere Campano del 18-1-1870 scrisse che “bene o male Fuoco aveva avuto sempre il colore politico”. Oltre i confini la sua fu chiamata “banda regia”, ma purtroppo era sanguinaria e feroce come il capo, spietato perfino con gli stessi briganti, che lo temevano e gli erano fedeli anche per paura.
Scaltro e ambizioso quale era, nel corso di dieci anni sognò un rovescio della situazione politica ed il suo innalzamento a comandante generale della Provincia.
Ma il suo aspetto qual era? Di lui non esistono fotografie da vivo, o almeno nelle mie ricerche non le ho trovate. Esistono solo delle foto scattate nel 1870, dopo la sua uccisione, insieme a Ventre e Caronte, quando i loro corpi mutilati furono esposti nelle pubbliche piazze di alcuni comuni.
Il motivo dell’inesistenza di foto che lo ritraggono a mio avviso va ricercato nella sua furbizia. Domenico Fuoco infatti spesso si confondeva tra la gente, travestendosi nei modi piú svariati, da monaco, da contadino, da pastore, ecc. Il non avere una foto che permettesse il suo riconoscimento lo avvantaggiava in questi suoi travestimenti.
Proviamo allora ad immaginarlo in base alla descrizione che ne fanno alcuni autori. È chiaro che la descrizione è spesso fortemente condizionata a seconda di chi scrive.
I fratelli Calce scrivono: “Aveva una statura giusta, occhi piccoli e penetranti, capelli rossicci come pure la barba, volto colorito, agile nella persona e svelto nella fuga, era preparato fin dalla puerizia a tutte le sofferenze.
Con la banda organizzata militarmente e forte di 80 uomini tendeva imboscate ed attaccava la Forza Pubblica con abilità e mosse degne di un valente stratega”.
Domenico Salvatore nel suo libro “Notizie storiche sulla Terra di Mignano” dice: “Contava, in quel tempo, 23 anni di età, (siamo nel 1860) ed, a giudicare dalla ferocia e dagl’istinti malvagi, per cui si rese, in breve, cosí famigerato, vien fatto d’immaginarlo d’alta statura, tutto muscoli e vigore, quasi il simbolo vivente di quella Forza primigenia, che abbatte il bue selvatico, schiantandogli le corna, e poi lo squartava, e, spezzandone le ossa sulla pietra che dava il nome all’età, ne suggeva il fresco midollo. I documenti del tempo lo dicono, invece, non molto robusto, di mezza statura e, per giunta, pronunziatamene ernioso; ma con un cuore “di serpente, di demone e di iena”. Nome questo, col quale appunto, lo chiamava il sindaco di San Pietro Infine dell’Epoca, […], in una lettera del 21 luglio 1864, al delegato di P. S. (Pubblica Sicurezza) in Mignano […]”.
Che fosse non molto robusto e di mezza statura lo si puó credere, almeno a giudicare dalle uniche foto che si hanno, quelle dopo la sua uccisione. Anche se la sua posizione distesa ne falsa l’altezza possiamo notare che certamente non era piú piccolo dei due briganti Caronte e Ventre, posti nudi accanto a lui dopo l’uccisione. Si tenga presente che la statura media in quel tempo era di molto inferiore a quella attuale. Forti dubbi si hanno certamente sul fatto che fosse “pronunziatamene ernioso”. È difficile immaginare che un giovane che aveva fatto parte di un Esercito e che si muoveva con estrema facilità e con marce forzate negli impervi monti, avesse un aspetto “pronunziatamene ernioso”. È chiaro che il dichiararlo tale è dovuto al tentativo di minarne la figura e quindi il suo mito.
La famiglia era povera ma onesta, e, un po’ come in tutti i paesi del Meridione d’Italia, vi era una netta distinzione tra i ricchi proprietari terrieri e i contadini che lavoravano le terre dei signori. Oltre a Domenico vi erano Loreto, Alessandro e una sorella: Mariacarmina. Di quest’ultima si raccontava che una zingara le predisse che sarebbe stata “segnata a dito”, cioè indicata come soggetto di un discorso. Infatti si narra che la donna che visse ben oltre gli anni del brigantaggio, era spesso indicata come sorella del brigante Míneche Fuoco4.
Ma è proprio vero che la loro era una famiglia di tutti delinquenti? Questo è quello che si è voluto far credere di loro e di coloro che li sostenevano. Si badi bene siamo in un periodo che, come ha detto qualcuno, imperava una vera e propria “guerra civile” o anche una “rivolta contadina”. A San Pietro Infine, ma come del resto in ogni paese del Meridione, l’Unità d’Italia diventò un pretesto, una motivazione d’appoggio a quelle che erano lotte intestine, scaturite già dalle rivolte antiborboniche del 1848. Sappiamo infatti che l’unità nazionale era di fatto solo politica e geografica poiché non aveva annientato quegli opposti schieramenti che esistevano già in epoca borbonica. Il risultato ottenuto fu solo quello di un capovolgimento delle parti contrapposte. Molti individui, mascherandosi dietro motivazioni ideologiche e politiche, cercarono di vendicarsi di quanto essi o le loro famiglie avevano subito in precedenza. Gli antichi dissapori, le lotte, i contrasti privati, vennero trasferiti sul piano pubblico, favoriti da leggi, che, pur di sedare le rivolte contro il nuovo Regno, concessero troppi poteri alle Autorità locali.
Il solo sospetto di idee filoborboniche, basato a volte su semplici indizi o dicerie di piazza, giustificava la carcerazione o il domicilio coatto, dando cosí libero sfogo anche a vendette private. E molto spesso le condanne erano ingiuste o esagerate in rapporto all’entità del reato.
Della famiglia di Domenico Fuoco si sa che il fratello Loreto fu ucciso in uno scontro a fuoco nel mese di giugno del 18645 con la forza pubblica di Venafro.
L’altro fratello Alessandro invece fu catturato sul finire del 1861 dalla Guardia Nazionale di Piedimonte di Cassino, l’odierna Piedimonte San Germano. Dopo una serie di vicissitudini fu confinato nell’isola siciliana di Pantelleria. Il 17 maggio del 1869, riuscí a scappare su di un peschereccio, trovando rifugio nel Nord Africa e precisamente a Tunisi. Ma qui fu ben presto tratto nuovamente in arresto e ricondotto nell’isola da cui era evaso. Ma non si dette per vinto e quattro mesi dopo, il 16 settembre dello stesso anno, nonostante l’ordine di tenerlo sotto stretta vigilanza, riuscí ad evadere nuovamente, nascondendosi su una piccola e malandata barca. Questa volta però cambiò direzione si spinse fino in Russia e da qui raggiunse poi le spiagge della Spagna, dove poteva godere senz’altro di protezione, e precisamente a Barcellona. Lì nel giugno dell’anno successivo, e cioè del 1870, prima della partenza per le Americhe, vuole essere certo che la sua decisione sia obbligata, ossia si vuole accertare che le cose non siano cambiate, e qui emerge evidente la tesi della motivazione politica. Non sa come fare, allora decide di scrivere una lettera. Ma a chi indirizzarla? Certamente al sindaco di San Pietro Infine. Ciò avrebbe garantito il suo arrivo a destinazione. Viene spontaneo chiedersi: ma come? Indirizzarla proprio al sindaco di San Pietro Infine, quando erano noti i contrasti con questi signorotti locali? È chiaro che la sua fu una mossa strategica. E cioè: se le cose in paese erano cambiate egli voleva far sapere dove si trovava, quindi sarebbe stato presto contattato dai familiari. Se invece alla lettera non vi fosse stata risposta ciò avrebbe significato che non c’era piú da sperare e quindi avrebbe dovuto prendere la via dell’esilio. Per non farsi rintracciare pone come fermo posta per un’eventuale risposta la città di Liverpool (che chiama Liverpulle) in Inghilterra.
La lettera, riportata con tutti gli errori grammaticali è edita da Domenico Salvatore nel suo libro “Notizie storiche sulla Terra di Mignano”, e certamente meriterebbe un’analisi molto dettagliata tanto da farne oggetto di una specifica relazione.
Veniamo adesso alla madre Anna Di Raddo. Si sa di lei che rimase in paese, non potendo scappare sui monti con gli uomini della sua famiglia, ma venne presto sottoposta a pressioni di vario genere, e con il passare del tempo si ammalò e fu sempre piú isolata a seguito delle leggi repressive (vedi Legge Pica); venne poi addirittura arrestata dalle Autorità di Pubblica sicurezza con lo scopo di costringere Domenico Fuoco a costituirsi.
In paese si tramanda ancora il racconto che la donna, ridotta ormai in condizioni di estrema povertà e vedendo la propria famiglia distrutta, lanciò una bestemmia contro il signorotto che aveva istigato il figlio Domenico rubandogli la sciabola. Scoprendosi il seno pronunciò “Che si possa sperdere la razza tua”.
In paese si tramanda anche un altro episodio. Quando si ammalò, tramite alcuni parenti, mandò a dire al figlio Domenico di aiutarla inviandole del danaro in modo che potesse mangiare e comprare i medicinali. Domenico Fuoco si avvicinò al paese con molta cautela, ma ritenne prudente non entrarvi per non rischiare di essere preso dalla forze dell’Ordine. Incontrò un compaesano e gli chiese di portare una considerevole somma di danaro alla madre. Ma l’uomo, confortato dall’idea che il cerchio si stava stringendo sempre piú attorno al brigante non portò a termine il compito. Passò del tempo e giunse all’orecchio del brigante Fuoco la lamentela della madre che diceva di essere stata abbandonata anche dal figlio. Ecco allora che scatta l’ira vendicativa del brigante. Dopo vari appostamenti riesce a rintracciare il compaesano che sta arando un terreno ai piedi del versante settentrionale di Monte Lungo. Nel vederlo, l’uomo diventa di tutti i colori e cerca di giustificarsi della mancata consegna del danaro, ma Fuoco con freddezza gli chiede di fargli arare il terreno, poi, dopo aver fatto un breve solco, gli salta addosso e lo uccide in modo spietato.
Vediamo ora le donne, o drude, che ebbe Domenico Fuoco. Si racconta che ne ebbe tante. Quelle di cui troviamo documentazione sono: Padovella, una donna piccola, bruna e rotondetta. Aveva un nasino piccolo e camuso, gli spigoli sporgenti e il visetto tondo, gli occhi infossati sotto la fronte. Infagottata con pantaloni giacca e mantella sembrava tozza ed era invece agilissima nei movimenti.
Veniva da lontano, forse dalla Calabria o dagli Abruzzi. Nessuno sapeva come e quando avesse imparato a scrivere. Infatti Padovella, oltre ad essere l’amante del capobrigante, aveva il compito di fungere da segretaria e di scrivere i messaggi di riscatto. Compito che si contendeva, non senza astio reciproco, con Antonio Gentile, uno della banda, nativo di Acquafondata che, come ex seminarista, si vantava di essere uomo colto, “abile nel leggere e nello scrivere”6.
Altra donna che fu compagna di Domenico Fuoco fu Maria Giuseppa De Meo di Casalcassinese. Apprendiamo infatti da una sua deposizione rilasciata il 26 febbraio del 1867 ad alcuni ufficiali di Pubblica Sicurezza e di Polizia Giudiziaria del Mandamento di Pontecorvo, che la donna, di circa 20 anni, nubile e di professione contadina, completamente vestita da uomo si presenta agli ufficiali di P. S. come druda del Capo Brigante Domenico Fuoco, incinta dello stesso da due mesi. Nel verbale racconta di essere stata rapita dai briganti e di essere poi divenuta amante di Fuoco.
Sappiamo poi dai fratelli Calce di un’altra donna di Monte Aquilone, sopra Cervaro, anch’essa druda di Fuoco, di nome Giustina7.
Quando Fuoco entrava in un paese sparava una schioppettata alla campana della chiesa principale. Era un modo per far capire a coloro che lo appoggiavano, i manutengoli, ma anche ai nemici, che lui era arrivato.
La scaltrezza di Fuoco era nota a tutti, non meno alle forze militari. In un verbale reso il 18 ottobre del 1867 al Delegato di Pubblica Sicurezza di Venafro, dal quarantunenne sacerdote Giovanni Morra fu Nicola, Leggiamo: “Un giorno fummo vicino ad oltre cento Bersaglieri e credo al Sotto-Prefetto di Sora che trovavansi a derimere una questione demaniale fra due paesi …”. Il sacerdote riferí di aver sentito dire da un Ufficiale che: “Fuoco non si prende, a meno che non si voglia [….] fucilare tutti i sospetti manutengoli, e sono moltissimi, specialmente nei paesi di Terra di Lavoro. Le precauzioni ch’egli usa sono immense, cosí che riesce impossibile alla Forza di poterlo catturare”. Sempre dallo stesso verbale si apprende che Fuoco cammina dall’una di notte fino alle ore otto di mattina, indi si ferma e riposa tutto il giorno. Inoltre è solito farsi precedere da un suo dipendente e da manutengoli i quali hanno il compito di fargli sapere se deve o non deve proseguire nel cammino.
L’avv. Vincenzo Berlingieri di Roccamandolfa scrive nel 1895 una monografia sul Domenico Fuoco dal titolo “Fasti del brigantaggio”; purtroppo il suo lavoro si mostra già dalle prime battute fortemente contrario alle cause del brigantaggio e quindi a Domenico Fuoco. Egli sostiene di aver attinto ad un diario di un calzolaio di Conca Casale che aveva fatto parte, durante il periodo del brigantaggio post-unitario, della Guardia Nazionale. È facilmente immaginabile in che modo parlerà del brigante Fuoco. Però a leggere bene tra le righe del libro possiamo ricavare anche alcune notizie e motivazioni implicite che ci fanno capire molte cose sul brigante Fuoco. Il Berlingieri, riferisce di trovarsi un giorno di passaggio nel paese del famigerato brigante e che preso da curiosità per quello che era per lui un incubo infantile, chiede lumi al taverniere di una locanda posta all’ingresso del paese.
Questi, oltre a dir male dei signorotti locali, sostiene che Fuoco sarebbe stato un uomo onesto, se non l’avessero ingiustamente perseguitato8. Ancora, in un altro stralcio troviamo un discorso di Fuoco che qui si riporta: “Dovrò farla finita con i traditori, e finché avrò gli occhi aperti, non risparmierò chicchessia. Ho rubato tanti quattrini, ho fatto arricchire tanti pezzenti, ho protetto, con la mia carabina, una ciurma di vagabondi, e dopo tanti benefici mi si paga con l’ingratitudine e col tradimento, e si tendono lacci per consegnarmi alla forza…” e quando nel 1870, poco prima di essere ucciso, uno dei suoi tre sequestrati (Nicandro Prete) gli chiede di avere compassione di loro risponde: “Compassione? Gridò […] alzando una mano in aria; è una parola codesta che da dieci anni non ho piú intesa, ne saprei cosa significhi. Starei tranquillamente a casa mia, se non fossi stato cimentato, offeso, perseguitato, e non una voce si levò contro i soprusi e le birbanterie compiute in mio danno, anzi tutti a gridare: dalli, dalli, come se io fossi stato un cane arrabbiato; e quando, messo con le spalle al muro, mi diedi alla campagna, e feci le mie vendette, allora tutti pronti a maledirmi, e subito soldati, carabinieri, guardie nazionali sui miei passi; ma Fuoco è Fuoco, e non si avrà la soddisfazione di incatenarlo. – E continua – Mi pento solo di aver risparmiato la pelle di parecchi catturati, e me ne addoloro, perché tutti mi odiano, nessuno mi ha difeso, ognuno ha cercato di perdermi …”9. Emerge qui in tutta la sua crudezza la sua rabbia, l’odio interiore e la sua ferma volontà di vendetta, per tutto ciò che ha subito.
È notorio poi il suo rispetto per gli ordini religiosi. Arcari, nella sua storia di Picinisco, riporta vari brani in cui se ne ha prova: “Domenico Fuoco, il terrore delle montagne di Picinisco fu ardito e furbo, molto abile nello sfuggire alle imboscate. Ebbe, come quasi tutti i briganti, rispetto per i conventi; non inveiva contro i frati, anzi li proteggeva […]”.
In un altro passo dice: “Fuoco ebbe aspre parole per il brigante Colamattei che aveva seviziato il parroco Amato di Valleluce”10. Ancora: “I briganti della banda reazionaria borbonica, capitanata dal celebre bandito Fuoco, vollero anch’essi, mentre si celebravano le feste della Madonna di Canneto, compiere un atto di ossequio alla Vergine. […] Nel ripartire dal santuario la tradizionale processione del 22 agosto, fecero sapere all’arciprete don Lorenzo Venturini che avvertisse i pellegrini di non aver paura dei colpi di fucile che avrebbero intesi fino all’ultima punta del versante detta Rocca, poiché i briganti volevano pure essi salutare la Madonna nel suo trionfale cammino. Difatti all’uscita del Santuario fino al punto indicato, rintronarono i colpi di fucili a bacchetta, con intervallo di tempo misurato ed ordinato, sopra il crinale della montagna opposta, dove si erano disposti i briganti per compiere lo strano servizio religioso”.
Anche i fratelli Calce riportano a tal proposito un episodio: “La banda Fuoco, nell’aprile del 1864, assalí il paese di Acquafondata […]. Indicibile fu lo spavento degli abitanti nel vedere uomini cosí stranamente vestiti ed armati fino ai denti, per cui molti si diedero a precipitosa fuga ed altri si nascosero nel miglior modo possibile. Lo stesso Arciprete del luogo, De Filippis, si affrettò a trovare un nascondiglio in Chiesa, dietro l’organo, ove fu trovato. Non gli fecero alcun male, anzi lo esortarono a non aver paura e con parole di conforto chiesero di vedere gli arredi sacri. Nell’uscire di chiesa lasciarono anche una piccola offerta nella cassetta delle elemosine”11.
Per motivi di spazio eviterò di fare una carrellata di date ed episodi che narrano delle sue brigantesche imprese. Fatti che si possono trovare nei numerosissimi verbali di P. S., per trattare della sua fine avvenuta nella notte tra il 16 e 17 agosto del 1870. Prima però do notizia di una lettera inedita di sfida ad un signorotto di Venafro conservata da un privato dove compare anche la firma autografa di Domenico Fuoco. La lettera, non datata, è conservata da Lorenzo Vecchiarino di San Pietro Infine. Vi è scritto: “Questa sera ‘o passato Domenico Fuoco in questa città alle ore 24. ‘O passato dalla via di Do Filippo Gentile. – Caro Do Filippo quanta volte vi volete fare una scopettata io sto sempre pronde io la spetta alla massaria tua e potete portare pure la Guardia Nazionale Venafro. Vi rimmetto queste parole se voi c’avete piacere.
Il vostro nemico Domenico Fuoco”.
Passiamo ora ad analizzare la fine di Domenico Fuoco e della sua banda, o meglio ciò che era rimasto della sua banda.
Il 7 agosto del 1870, Fuoco e la sua banda, composta oltre lui anche da Francesco Cucchiara (alias Caronte), di San Giorgio a Liri, Benedetto Ventre, di Conca Casale, Carmine De Marco e Luigi Di Placido, catturarono, nel tenimento di San Vittore, cinque uomini di Conca Casale. Fuoco decise di trattenerne due, Nicandro Prete12 e Pietro Bucci, che reputò i piú agiati e mandò via gli altri con delle lettere di ricatto ai parenti di quelli trattenuti in ostaggio. Qualche giorno dopo Nicandro Bucci, detto “Comparone”, anch’egli di Conca Casale, (un uomo che ha avuto un ruolo chiave, ma a mio avviso anche enigmatico nella vicenda), raggiunge con un carico di viveri i briganti per discutere la liberazione dei due ostaggi, ma, secondo quanto si asserisce venne trattenuto e preso in ostaggio anche lui.
Una decina di giorni dopo il sequestro e precisamente la notte tra il 16 e il 17 agosto 1870, la banda di Fuoco con i tre sequestrati si rintanò in una grotta posta sui monti tra Vallerotonda e Picinisco. I briganti dopo aver mangiato e bevuto si misero a giocare a carte. Mancava poco all’alba quando uno di essi, tal “Carminello”, si pose di guardia mentre gli altri quattro briganti, assaliti dal sonno, si addormentarono.
“I prigionieri, imprudentemente legati male, o addirittura non legati, si accordarono con rapidi gesti per tentare l’evasione ed infatti, impadronitisi di quanto avevano a portata di mano, si scagliarono contro i briganti con estrema violenza. Nicandro Bucci che era il piú giovane ed il piú robusto, con dei colpi di scure, assestati sul collo e poi sul braccio, uccise il brigante Fuoco. Mentre Pietro Bucci e Nicandro Prete, non meno arditi, con un colpo di maglio fracassarono la testa a Francesco Cucchiara e con una coltellata recisero la carotide a Benedetto Ventre.
Gli uccisori lieti di tanto insperato successo, raggiunsero Picinisco verso le ore 11 del mattino.
La popolazione non credeva al loro racconto, ma dovette cambiare idea nel riconoscere il fucile, il pugnale e lo zaino di Fuoco. Un drappello della Guardia Nazionale si recò sul posto ed il giorno dopo i tre cadaveri furono trasportati a Picinisco su muli. A ciò provvide il mulattiere Vincenzo Antonelli fu Giuseppe da Picinisco.
Per due giorni, in gran numero, il popolo e le autorità accorsero per sincerarsi della veridicità dei fatti. I cadaveri, mutilati della testa e degli arti inferiori furono esposti al largario Montano, adagiati sopra una grossa pietra (petratonna), all’ombra del maestoso tiglio […]”13.
I corpi vennero poi esposti per piú giorni in altri principali centri quali Sora, Atina, Cassino, Mignano e Isernia. Si voleva convincere la gente che l’inafferrabile Fuoco era ormai morto.
Questa descrizione dei fatti mi convince poco; proviamo allora ad analizzare meglio quanto descritto tenendo però presente anche la tradizione locale, raccolta non solo a San Pietro Infine ma anche nei paesi limitrofi, che vuole la morte del Capo Brigante Fuoco e dei suoi due gregari Caronte e Ventre dovuta al tradimento del compare. Come è possibile che dei briganti, in primis Fuoco, di cui era nota la scaltrezza, lascino sciolti, o legati male i tre sequestrati durante la notte? La tradizione orale riporta invece e in maniera unanime il tradimento del compare che aveva messo della droga nel vino dei briganti, per cui a questi ultimi venne un incontenibile sonno. Chi era il compare? È difficile dirlo, non escludo però che fosse lo stesso Nicandro Bucci, che certamente era un conoscente di Fuoco, tant’è che si pone come intermediario nella trattativa. Si racconta che Fuoco sentendosi venire meno dal sonno si accorse del tradimento e pronunciò: “Ah compare (o comparò cioè il soprannome di Nicandro Bucci) me l’hai fatta”. Quindi questi sciolse gli altri sequestrati i quali fecero il resto.
Perché il tradimento? Perché ormai Fuoco era spacciato, la sua banda si era assottigliata sempre piú, riducendosi, come abbiamo visto, a soli cinque individui. Non vi erano piú le altre bande, ormai da tempo annientate. Inoltre sulla testa di Fuoco vi era una taglia molto elevata, senza contare poi i ricatti adoperati nei confronti dei familiari dei briganti e le garanzie di riabilitazione e di libertà per coloro che collaboravano alla cattura dei piú temibili e famigerati briganti rimasti.
Infatti il Ministero dell’Interno, avvertito dal Prefetto, spedì immediatamente a Nicandro Prete e a Nicandro e Pietro Bucci la taglia promessa in oro, che ammontava a 12.000 lire e poiché era stata chiesta in valori cartacei diede altre 840 lire, come aggio nella ragione del 7%. Altre 5.000 lire vennero assegnate dalla provincia dell’Aquila.
Con la morte del famigerato Capo-brigante ha termine anche il brigantaggio nel nostro territorio, e ben presto in tutto il Meridione d’Italia.
Ma vorrei chiudere con un racconto tratto sempre dalla tradizione locale, questa volta però ho dei forti dubbi sulla sua attendibilità, ma una cosa è certa, qui la storia si tramuta in leggenda, e cerca in essa la sua rivincita. Si racconta che il compare traditore, nonostante si fosse vantato di aver sconfitto l’irraggiungibile e famigerato brigante non ebbe piú pace, vedeva la sagoma di Fuoco in ogni cosa e da tutte le parti, persino in sogno. Temeva inoltre che qualche parente di Fuoco vendicasse la sua morte. Un giorno, si narra ancora, mentre si recava in una località di altura sulle Mainarde, una grossa aquila gli volò contro emettendo uno grido talmente acuto, che impressionò tanto il compare traditore che cadde a terra e morí di crepacuore. Si disse, cosí, che Fuoco, anche morto, si era vendicato.

Bibliografia di riferimento.
Arcari V., “Storia di Picinisco”, Roma, 1939.
Berlingieri V., “Fasti del brigantaggio”, Isernia, 1895.
Calce P. ed E., “Galluccio – Civiltà, religione e brigantaggio”, Casamari 1975.
Nicosia A., “Brigantaggio Postunitario: Le bande Colamattei e Fuoco”, in “Latium”, n° 5 1988.
Pistilli E., “Acquafondata e Casalcassinese”, 2004.
Salvatore D., “Notizie storiche sulla Terra di Mignano”, Cassino 1939.
Trapani F. “Le Brigantesse”, Perugia 1968.
Varuolo P., “Il volto del brigante – Avvenimenti briganteschi in Basilicata 1860-1877”, Manduria 1985.

1 I fratelli Calce nel loro libro “Galluccio, Civiltà religione e brigantaggio”, Casamari 1975, riportano Anna Raddo, ma è un evidente errore. Il nome corretto è Di Raddo, essendo questo il cognome tuttora esistente in paese e come riporta anche Domenico Salvatore, “Notizie storiche sulla Terra di Mignano”, Cassino 1939, pag. 187.
2 Di Pietro ed Emilio Calce, “Galluccio” cit., pag. 198.
3 P. ed E. Calce, “Galluccio” cit., pag. 198.
4 Intervista a Gilda Borrelli.
5 D. Salvatore, loc. cit.
6 Cfr. F. Trapani, pag. 129.
7 F.lli Calce, pag. 204.
8 Berlingieri, pag. 2.
9 Berlingieri, pag. 58.
10 Arcari V., “Storia di Picinisco”, Roma, 1939, pag. 90.
11 F.lli Calce pag. 204.
12 O “Del Prete” (?)
13 Picinisco pagg. 89-90.

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