Le commissioni di inchiesta sul brigantaggio post-unitario


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Studi Cassinati, anno 2009, n. 3
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di Fernando Riccardi

Alla fine del 1862 il governo di Urbano Rattazzi, che da qualche mese aveva sostituito quello di Bettino Ricasoli, entra in crisi. Al primo ministro si imputa il non aver saputo tenere a freno l’irruenza di Garibaldi smanioso di risolvere una volta per tutte la “questione romana”1 e il fallimento della strategia messa in campo per debellare la rivolta contadina nel sud della Penisola.
Rattazzi cerca di difendersi operando un rimpasto nell’esecutivo. Quanto al brigantaggio, poi, declina qualsiasi responsabilità chiamando in causa Alfonso La Marmora, commissario straordinario con pieni poteri nelle province meridionali.
Il generale, però, non cade nella trappola e fa preparare da un suo ufficiale, il capitano Mocenni, un memorandum nel quale vengono evidenziate le cause che hanno impedito l’estirpazione del brigantaggio.
La Marmora, inoltre, invoca l’istituzione di una commissione parlamentare incaricata di vagliare attentamente il rapporto e di proporre i rimedi più opportuni.
Il 28 novembre del 1862 la Camera nomina la commissione.
Quando però Rattazzi si accorge che il suo operato viene contestato non solo dalle sinistre ma anche dalla sua parte politica, la destra moderata, ai primi di dicembre, all’improvviso, rassegna le dimissioni.
Luigi Carlo Farini, già primo luogotenente di Napoli dopo la reggenza garibaldina, viene incaricato di formare un nuovo governo.
La commissione, comunque, rimane in piedi e continua a svolgere regolarmente il suo compito2.
Rattazzi aveva consegnato il rapporto alla presidenza della Camera il 29 novembre. Aveva suggerito, inoltre, di evitare la stampa dello stesso per mantenere il massimo segreto possibile, evitando speculazioni politiche e giornalistiche.
Il “rapporto La Marmora”, in effetti, era un documento molto modesto. Si limitava ad elencare le truppe impiegate nell’attività di repressione, gli appoggi dei quali godeva il brigantaggio, il favore con il quale veniva accolto nelle classi più infime della popolazione meridionale, il ruolo svolto dai manutengoli, l’incapacità delle autorità amministrative di mettere in campo idonee strategie di contrasto.
La commissione, composta quasi tutta da deputati meridionali3, decide di approfondire il problema, con particolare riguardo ai motivi scatenanti della rivolta contadina.
Antonio Mosca, deputato milanese moderato e cavouriano, nella sua veste di relatore, il 15 dicembre del 1862, consegna alla Camera l’elaborato della commissione che contiene indicazioni molto importanti sugli aspetti economici e sociali del brigantaggio e sui provvedimenti più opportuni da adottare per arginare il fenomeno.
Provvedimenti che non si limitano alla mera attività di repressione per mezzo dell’esercito e dei soldati. Anche perché nel meridione imperversa la rivolta dei ceti subalterni contro la borghesia terriera.
È la miseria a spingere i contadini alla rivolta contro i galantuomini che ora stanno dalla parte del nuovo governo: per questo bisogna avere il coraggio di togliere la terra agli usurpatori e di distribuirla ai contadini.
Si consiglia, poi, un’azione massiccia di lavori pubblici, in particolar modo la costruzione di strade e l’attuazione di un decentramento amministrativo sganciato dalle imposizioni, spesso cervellotiche, del potere centrale.
Quanto alla attività di repressione, della quale viene riconosciuta l’indispensabilità, si consiglia di restituire i poteri di polizia ai giudici mandamentali, come prevedeva l’ordinamento borbonico, di dare più fiducia alle guardie nazionali, il corpo che aveva sostituito dopo l’Unità le milizie urbane, assicurando loro un pagamento regolare e proporzionato alla particolare e difficile incombenza.
E ancora: la costituzione di zone militari più piccole dove poter esercitare un controllo più rigoroso, l’aumento del numero dei Carabinieri che si erano rivelati molto più adatti di altri corpi nelle azioni di contrasto al brigantaggio, l’istituzione di reparti speciali di cavalleria leggera per combattere le grandi bande a cavallo.
La “relazione Mosca”, pur nella esiguità delle argomentazioni trattate e nella scarna elencazione dei provvedimenti consigliati, contiene principi di puro buon senso che se fossero stati applicati avrebbero abbreviato la lotta al brigantaggio evitando un inutile bagno di sangue.
E invece così non fu.
Anche perché nessun governo, in quel particolare frangente, avrebbe potuto avallare un documento che riconosceva la connivenza tra la borghesia meridionale e la classe dirigente e politica sabauda.
Una volta presentato il testo della relazione alla Camera, Ubaldino Peruzzi, ministro dell’interno del nuovo governo Farini, vuole che la discussione parlamentare si tenga “in comitato segreto” ossia a porte chiuse, senza la presenza di estranei e, meno che mai, di giornalisti, senza resoconti stenografici e con la sola compilazione di un apposito verbale.
La discussione inizia il 16 dicembre e, stante la segretezza assoluta dei lavori, non è dato sapere in che modo si sia effettivamente svolta, anche perché di quell’importante verbale si sono perse del tutto le tracce.
Il dibattito, comunque, si conclude con la deliberazione della necessità di costituire una commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio, con il compito, come scrive Aurelio Saffi, “d’investigare le condizioni delle provincie meridionali, studiare i mezzi più efficaci di metter termine a quel flagello, col concorso delle forze cittadine e proporre gli ordinamenti e i rimedi che stimerà più opportuni all’intento”4.
Il governo Farini, che si era trovato a gestire una situazione ereditata dal precedente esecutivo, ossia la commissione Mosca, non affatto contento delle risultanze cui la stessa era pervenuta, si adopera per mettere in piedi un nuovo organismo di tal guisa, stando però bene attento ad evitare conclusioni compromettenti.
La nuova commissione parlamentare ha soprattutto il compito di far dimenticare la “relazione Mosca” e le sue pericolose attribuzioni di responsabilità.
La decisione di costituire una commissione d’inchiesta non costituisce di certo una novità.
Nella primavera del 1861 era stato il deputato Giuseppe Ricciardi ad inoltrare al Parlamento una richiesta in tal senso, la qualcosa, ovviamente, non venne presa in considerazione.
Nell’autunno dello stesso anno il deputato lombardo di estrazione democratica, Giuseppe Ferrari, aveva proposto, per ben due volte, l’istituzione di una commissione deputata ad accertare le cause che alimentavano il fuoco impetuoso della rivolta.
In quell’occasione fu proprio Giuseppe Massari ad intervenire per conto del governo bocciando la proposta e affermando che il brigantaggio meridionale non aveva caratterizzazioni politiche ma era da considerare un fenomeno endemico e delinquenziale.
La decisione di costituire una commissione d’inchiesta sul brigantaggio non piace molto al governo.
Ma, di fronte ad una richiesta così pressante, ad un fenomeno che va aumentando sempre più di intensità e alla esigenza inderogabile di occultare le conclusioni alle quali era giunta la “relazione Mosca”, Farini e il suo esecutivo concedono il via libera.
Ci si industria, però, per imbrigliare quanto più possibile i poteri e le prerogative dei commissari che non debbono assolutamente entrare in contrasto con il governo.
“L’inchiesta non doveva intralciare minimamente la libertà di azione del potere esecutivo né diminuirne le responsabilità in ordine alle misure da adottare per la repressione del brigantaggio. Pertanto la commissione doveva indagare le cause del brigantaggio, studiare le condizioni attuali e proporre i mezzi più acconci per battere quel flagello, astenendosi dal sindacare … e ciò, naturalmente, per non offrire ai nemici dell’unità lo spettacolo di lotte faziose5”.
E per nascondere definitivamente, aggiungiamo noi, le inequivocabili ma pericolose argomentazioni della “relazione Mosca”.
Si procede rapidamente alla designazione dei membri della commissione.
Dopo una serie di polemiche defezioni6 vengono eletti nove deputati: Aurelio Saffi, Stefano Romeo e Achille Argentino della sinistra; gli ex garibaldini Giuseppe Sirtori, che ne assume la presidenza, e Nino Bixio, ormai sulle posizioni filo governative; Stefano Castagnola della destra; i moderati Antonio Ciccone, Donato Morelli e Giuseppe Massari.
Da notare che alcuni parlamentari (Saffi, Morelli e Argentino) avevano già fatto parte della commissione camerale incaricata di vagliare il “rapporto La Marmora”.
Ai primi di gennaio del 1863, da Torino, la commissione si mette in viaggio verso il sud d’Italia, verso “quei barbari e selvaggi paesi” come li definisce il deputato Massari, tra la forte diffidenza del governo in carica e il palese ostruzionismo delle autorità periferiche civili e militari.
Passando per Napoli i commissari, accompagnati da esponenti del governo e da rappresentanti dell’esercito7 girano in lungo e in largo nelle province meridionali recandosi in Irpinia, Basilicata, Capitanata, Molise, Puglia, Salernitano e Terra di Lavoro, raccogliendo testimonianze, deposizioni, impressioni, commenti e suggerimenti in materia di brigantaggio.
I commissari fanno ritorno a Torino alla metà di marzo dopo aver incontrato nelle province del sud autorità militari e civili, politici locali, esponenti della classe liberale, notabili e rappresentanti del clero.
L’unica voce che manca è quella della gente comune, dei contadini, dei manutengoli, degli stessi briganti che, catturati e scampati alla fucilazione, marciscono in galera.
Il popolo del Sud, insomma, non viene ascoltato né interpellato.
Il materiale raccolto è vastissimo anche se di parte.
Giuseppe Massari, tarantino di nascita, già deputato al parlamento napoletano dopo i moti carbonari del 1821, eletto alla Camera nel collegio di Bari, uno dei membri più capaci della commissione e molto vicino al governo8, viene incaricato di redigere la relazione conclusiva da presentare all’assemblea.
Le cose vanno per le lunghe specie per la difficoltà di sintetizzare la mole immane del materiale raccolto.
Di fronte, però, alla insistenza e ai mugugni della sinistra, il 3 maggio la Camera si riunisce “in comitato segreto” per ascoltare la lettura della relazione Massari.
Il giorno seguente Stefano Castagnola espone anche la sua relazione che altro non è se non un’appendice di quella di Massari.
Da notare che il documento che quest’ultimo legge all’assemblea è solo una piccola parte della “Relazione della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio”.
L’intera stesura apparirà negli atti ufficiali del Parlamento Italiano, Camera dei Deputati, Legislazione VIII, sessione seconda 1863, e verrà resa nota soltanto il 19 agosto del 1863, dopo l’approvazione della legge Pica.
Il tutto si svolge in un’atmosfera di grande riserbo e segretezza con la guardia nazionale che presidia Palazzo Carignano impedendo l’accesso a chiunque, salvo che ai parlamentari.
Anche questa volta, però, la montagna partorisce il topolino.
E, considerate le premesse, non poteva che essere così. La relazione Massari, infatti, contiene considerazioni abbastanza generiche sul brigantaggio.
Vero è che, a volte, il fenomeno viene descritto come una “malattia sociale” o come “brutale e selvaggia protesta della miseria contro antiche e secolari ingiustizie9”.
Poi, però, si ricade nel vecchio errore, sicuramente voluto, di considerare il brigantaggio una estrinsecazione meramente delinquenziale, fomentato dalle forze contrarie allo stato unitario e che perciò va represso con efficacia e vigore, più di quanto fino ad ora sia stato fatto.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque.
Del resto, tenuto conto delle fonti dalle quali scaturiscono quelle testimonianze, non c’è da aspettarsi granché di diverso.
Andiamo ora ad analizzare più da vicino i punti salienti della “relazione Massari”.
Ad iniziare dalla distinzione preliminare tra “cause predisponesti” e “cause prossime e immediate” del brigantaggio.
Tra le prime vi è “la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo” che é “assai infelice” dal momento che non ha “nessun vincolo che lo stringa alla terra”.
Miseria e squallore, si legge, “sono naturale apparecchio al brigantaggio” che “si diffonde rapidamente, si rinnova di continuo, ha una vita tenacissima”.
Anche perché il contadino “sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra annaffiata dai suoi sudori non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria e l’istinto alla vendetta sorge spontaneo nell’animo suo”.
Questo è l’unico passaggio in cui Massari imputa ai “galantuomini” meridionali la genesi e il perdurare della rivolta brigantesca anche perché “l’attuale proprietario non cessa dal rappresentare agli occhi del contadino l’antico signore feudale”.
Tra le cause predisponenti vengono inseriti i mali prodotti dal sistema borbonico: “l’ignoranza gelosamente conservata, la superstizione diffusa, la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia”.
Per non parlare poi della “tradizione di brigantaggio la quale trae la sua origine dal sistema feudale, nelle province meridionali tenacissimo e tardi contrastato e vinto”. Tradizione che, alimentata dalla leggenda e dal mito, fa apparire il brigante un eroe, “l’uomo che con la sua forza sa rendere a sé e agli altri la giustizia a cui le leggi non provvedono”.
Non viene trascurata, infine, la particolare topografia del meridione d’Italia con la particolare distribuzione degli abitati, la mancanza di vie di comunicazione, la presenza di folti boschi, di impervie montagne, tutti fattori che consentono al brigantaggio di prosperare e di mantenersi in vita. Si passa, quindi, alle “cause prossime e immediate” che si riducono essenzialmente all’uso strumentale che i Borbone avevano fatto del brigantaggio sulla base di una lunghissima consuetudine.
Secondo Massari la vecchia dinastia regnante era solita “operare la ristorazione per mezzo della guerra sociale, aizzando le passioni e i risentimenti del povero contro il ricco e l’agiato, del proletario contro il possidente”.
La situazione poi è complicata da una serie di altri fattori: i rancori privati che nei piccoli paesi assumono la caratteristica di dissensi politici, l’immobilismo delle amministrazioni locali, il mancato ricambio delle classi dirigenti, l’inefficienza della magistratura, l’assenza di un corpo di polizia efficiente in grado di troncare le complicità delle quali godono i briganti, l’atteggiamento connivente del clero, l’incoraggiamento continuo dei comitati borbonici.
Un altro punto di fondamentale importanza è la presenza a Roma di Francesco II di Borbone che “ospite del papa, non molestato dai francesi … era libero di fare quello che meglio aggrada e di ordire qualunque macchinazione a danno dell’Italia”.
Anche per questo motivo bisogna risolvere una volta per tutte la “questione romana” che avrebbe “tolto il massimo alimento alla cruenta piaga del brigantaggio”.
Nella relazione si passa poi ad analizzare i metodi di lotta al brigantaggio. Massari fa notare che fino ad allora per combatterlo non si era fatto altro che “contrapporre forza a forza”, affidando il compito esclusivamente all’esercito. Il che non aveva prodotto risultati eclatanti e non certo per colpa dell’esercito quanto per la tattica utilizzata dai briganti che tendevano “agguati ed imboscate quando avevano la certezza del sicuro scampo e della sovrabbondanza numerica”.
Nella lotta ai briganti la “parte militare” è indispensabile ma “accessoria e secondaria”. L’impegno dell’esercito risulta vano se non viene accompagnato da altri provvedimenti di natura economica diretti “ad innalzare le plebi a dignità di popolo” e ad infondere alla popolazione meridionale “la fiducia che nasce dalla certezza di sentirsi governati”. Questi provvedimenti, indicati in maniera molto generica, consistono nella diffusione della istruzione pubblica, nell’affrancazione delle terre, con particolare riferimento alla situazione del Tavoliere delle Puglie, della Sila e della terra d’Otranto, nella composizione delle questioni demaniali, in una massiccia campagna di opere pubbliche, specialmente strade e ferrovie, nelle bonifiche delle terre acquitrinose e nel “miglioramento dei boschi”.
In campo amministrativo si propone una polizia più ordinata ed efficiente, l’aumento del numero dei Carabinieri nello scacchiere meridionale, una più solerte vigilanza delle carceri per evitare le facili evasioni, il rapido svolgimento dei processi con l’aumento delle Corti di Assise.
E poi ancora un controllo rigoroso del clero influenzato dalle passioni della curia romana che “dal confessionale incoraggia e glorifica il brigantaggio”.
Si auspica, infine, un intervento autorevole del governo contro la presenza a Roma dell’ex re Borbone, ipotizzando “l’espulsione di un principe nel cui nome vengono commessi tanti delitti e tante atrocità”.
Concludendo la sua relazione il Massari caldeggia l’adozione di un pacchetto di misure dirette sia alla repressione immediata del brigantaggio che “al castigo dei colpevoli secondo i dettami della giustizia”.
Il progetto di legge deve avere carattere temporaneo e la sua applicazione cessare “col cessare del male che è destinato a distruggere”.
Tali provvedimenti devono essere applicati, inoltre, solo in quelle province dichiarate con legge “in istato di brigantaggio”.
Viene specificata anche la natura di questi provvedimenti di carattere eccezionale.
Innanzi tutto la compilazione delle “liste dei briganti”, redatte da ogni comune, elenchi da tenere continuamente aggiornati e resi pubblici “con tutti i mezzi di pubblicità”.
L’assegnazione di premi in denaro a coloro i quali avessero arrestato un brigante inserito in quelle liste, la formazione di compagnie speciali di guardie nazionali, specialmente a cavallo, una sorta di vitalizio ai parenti delle vittime del brigantaggio, la possibilità di ordinare la chiusura delle masserie nelle campagne, la concentrazione delle greggi in determinate località, il divieto di portare polvere da sparo, munizioni, vestiti, medicinali fuori dai centri abitati.
E poi ancora: la facoltà di far decadere dal loro incarico sindaci, consigli comunali e ufficiali della guardia nazionale che avessero adempiuto “timidamente” ai loro doveri istituzionali, la possibilità di mandare in esilio o al confino le persone sospettate di fomentare e di mantenere in vita il brigantaggio, i cosiddetti manutengoli, lo stanziamento di somme adeguate per far fronte alle spese che il piano comporta.
Massari è del parere di far gestire la situazione al prefetto della provincia coadiuvato da una commissione, la giunta provinciale di pubblica sicurezza, da lui presieduta e costituita dal comandante delle truppe, da un ufficiale della guardia nazionale, dal comandante dei Carabinieri, dal procuratore generale presso la Corte di Appello o dal procuratore del re presso il tribunale circondariale e da due cittadini indicati dalla deputazione provinciale.
Propone, inoltre, di affidare il giudizio sui reati di brigantaggio ai tribunali militari nella convinzione che “il brigantaggio è la guerra contro la società”.
Riguardo alle pene suggerisce la morte “a carico dei briganti colti in flagranza di resistenza alla forza pubblica”. Negli altri casi la pena capitale deve essere “surrogata” dalla “deportazione in isole lontane”. Sono invece “da condannarsi alla deportazione a vita o a tempo, con lavori forzati o senza, i componenti della banda armata non colti in flagranza, i complici, le spie, i manutengoli dei briganti e tutti coloro senza il cui concorso il brigantaggio non sarebbe potuto sussistere”. Vengono proposte anche pene accessorie (multe, interdizione dai pubblici uffici, perdita dei diritti civili) nonché il “sequestro ai beni mobili ed immobili degl’individui il cui nome è scritto definitivamente nella lista, e degl’imputati di reati di brigantaggio”.
Si prevedono, infine, sconti di pena nei confronti di chi si consegna “sua sponte” alle forze dell’ordine.
Fin qui, molto per sommi capi, ovviamente, la “relazione Massari”.
Facile constatare come essa non contenga elementi di particolare novità.
Si tratta di una semplice presa d’atto del fenomeno, sulle cui vere cause si indaga poco e male, e delle misure di contrasto ritenute idonee.
Singolare il fatto che Massari, pur avendo riconosciuto che la sola repressione non basta a debellare il brigantaggio, pur tuttavia indica tra i provvedimenti da adottare solo quelli che fanno capo all’esercito, ai Carabinieri e ai tribunali militari.
Alla forza dei briganti, dunque, si contrappone la forza delle truppe piemontesi, proprio il metodo che lo stesso Massari ritiene sbagliato e comunque non risolutivo di un problema che ha profonde implicazioni di carattere sociale.
Una volta conosciuto il tenore della relazione il governo non ritiene opportuno pigiare il piede sull’acceleratore.
Nessuno tra i membri dell’esecutivo vuole prendersi sulle spalle la responsabilità di varare misure di carattere eccezionale, la qualcosa avrebbe provocato malumori e proteste sia nel Parlamento che tra gli stessi ministri.
E così la discussione va per le lunghe.
La fase di stallo viene superata solo in seguito al clamore che suscita la vicenda dei briganti Cipriano e Giona La Gala i quali, imbarcatisi a Civitavecchia su di una nave francese, cercano di fuggire all’estero10.
Le feroci polemiche inducono l’esecutivo a ritrovare una unità di intenti e ad approvare rapidamente la legge di repressione sul brigantaggio, come auspicava e consigliava Massari nella sua relazione.
La discussione inizia agli ultimi giorni di luglio e, quando già si pensa che la sospensione estiva dei lavori avrebbe impedito l’approvazione del disegno di legge, ecco che il primo agosto il deputato aquilano Giuseppe Pica presenta una distinta proposta di legge che altro non è se non un sunto del progetto elaborato da Massari e dalla commissione parlamentare d’inchiesta.
La proposta viene subito firmata da 41 parlamentari della Destra, tra i quali lo stesso Massari, ed è approvata dalla Camera a larghissima maggioranza.
La “legge Pica”, che prende il nome dal suo promotore, viene pubblicata il 15 agosto del 1863 ed inizialmente ha validità fino al 31 dicembre successivo.
In seguito è prorogata fino al 28 febbraio 1864 quando viene sostituita da un’altra legge eccezionale di fatto identica alla precedente.
E così, di proroga in proroga, si va avanti fino al 31 dicembre del 1865 quando la normativa eccezionale in materia di brigantaggio viene definitivamente abrogata.
La “legge Pica” introduce nelle province dell’Italia meridionale dichiarate in stato di brigantaggio la competenza dei tribunali militari, la fucilazione per chi oppone resistenza armata, diminuzioni di pena per chi si consegna alla giustizia, domicilio coatto per oziosi, vagabondi e manutengoli.
Per la sua esecuzione viene stanziata l’iperbolica cifra di un milione di lire.
A questo punto, però, bisogna trarre le conclusioni.
È indubbio che l’inchiesta parlamentare sul brigantaggio “costituì un importante strumento di indagine nel groviglio di cause politiche e sociali che in poco più di due anni avevano sospinto il Mezzogiorno sul pendio della opposizione anti-unitaria reazionaria e verso la disgregazione11”.
È altrettanto vero, però, che l’unico risultato che l’inchiesta produsse fu la legislazione eccezionale e la famigerata “legge Pica”.
La quale, indubbiamente, dette ottimi risultati in materia di repressione ma non intaccò in profondità le cause che avevano originato il fenomeno e quindi lasciò la questione del tutto e fatalmente irrisolta..
Lo stesso Massari aveva fatto notare che l’attività di repressione, non accompagnata da un piano di lavori pubblici e di provvedimenti di natura sociale ed economica, non sarebbe riuscita ad estirpare il fenomeno.
Ma, ciò malgrado, accanto ai tribunali militari e alle fucilazioni sul posto, non vi fu molto di più. Mancò da parte del governo centrale una seria e incisiva azione politica diretta a migliorare le infime condizioni di vita della popolazione meridionale.
La qualcosa, del resto, era stata fatta notare a più riprese da molti deputati del nuovo stato italiano nel corso di infuocati dibattiti parlamentari.
Ma ormai la rotta era stata tracciata: i briganti dovevano essere spazzati via il più rapidamente possibile.
Il che, in linea di massima, avvenne anche se, tra recrudescenze improvvise e lunghi periodi di assopimento, il fenomeno rimase in vita fino al 1870 ed anche oltre.
Così come rimasero in vita tutte le cause che avevano determinato il fuoco violento della rivolta contadina.
E quando, grazie alle leggi ferree e alla durissima attività di repressione, i briganti furono finalmente debellati, subito dopo, nelle desolate lande del sud, ebbe inizio un altro flagello: quello dell’emigrazione.
Il contadino del sud, sceso dalla montagna e gettato alle ortiche l’ingombrante schioppo, prese la misera valigia di cartone con le sue povere cose e si trasferì al di là dell’Oceano, verso terre lontane e spesso inospitali.
Da brigante si trasformò in emigrante ed è francamente difficile dire quale delle due esperienze sia stata più dura e drammatica.
Se ancora oggi, in questo tribolato inizio di terzo millennio, si parla diffusamente di una “questione meridionale” ben lungi dall’essere risolta, la colpa fu anche di chi, in quel drammatico decennio, si limitò ad armare eserciti, promulgare leggi severissime, fucilare sul posto, deportare in massa, senza curarsi troppo di ascoltare i lamenti dei contadini del sud che, rimasti senza terra e senza dignità, non trovarono di meglio che prendere le armi e combattere la loro guerra.
Una “guerra cafona”, brutta, sporca e disperata, già segnata in partenza.
Una guerra che non avrebbero mai potuto vincere.


1 Nel giugno del 1862 Garibaldi lasciò Caprera e sbarcò in Sicilia accolto calorosamente dalla popolazione locale che aveva più di un motivo di risentimento nei confronti del governo centrale. Al grido di “O Roma o morte” e “Abbasso Napoleone III”, riuscì ben presto ad organizzare un corpo di tremila volontari. Il debole governo Rattazzi, dopo aver molto tergiversato, si limitò a condannare blandamente la cosa. A Catania Garibaldi si impadronì di due navi mercantili e si imbarcò con i suoi uomini alla volta della Calabria senza che qualcuno facesse niente per impedirlo. Solo allora il re sabaudo iniziò a prendere coscienza della grave minaccia. E così da Napoli fu inviato un nutrito corpo di bersaglieri a sbarrargli la strada. Il 29 agosto sull’Aspromonte vi fu lo scontro che provocò la morte di sette soldati piemontesi e di cinque volontari. Lo stesso Garibaldi, che aveva vanamente tentato di evitare lo scontro a fuoco, rimase seriamente ferito all’anca e al piede sinistro. Arrestato, dopo un faticoso viaggio via mare, fu rinchiuso nel carcere di La Spezia. Alla fine di ottobre fu condotto a Pisa dove venne visitato ed operato per estrarre la palla di fucile rimasta nel piede che stava procurando una grave infezione, tanto che si era prospettata l’amputazione dell’arto. Dopo il difficile intervento le condizioni di salute di Garibaldi migliorarono. A causa di quella ferita, però, rimase per sempre claudicante (Sulla vicenda dell’Aspromonte cfr. Denis Mack Smith: Garibaldi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, pagg. 145-160).
2 Lo stesso Rattazzi aveva esplicitato le modalità con le quali la commissione doveva lavorare. Secondo lui era indispensabile radunarsi in un “comitato segreto poiché in tal guisa si potranno meglio e con più calma discutere queste gravi condizioni del paese e potrà la Camera con maggiore tranquillità e maggiore ponderazione esaminare quali siano i rimedi più opportuni per migliorarle” (Franco Molfese: Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid 1983, p. 219).
3 Oltre al Presidente Sebastiano Tecchio, che la presiedeva, facevano parte della commissione Donato Morelli, Giuseppe Pisanelli, Carlo Poerio e Silvio Spaventa della destra, Niccolò Giacchi di centrodestra, Achille Argentino e Antonio Mosca vicini alla sinistra, Paolo Emilio Imbriani della sinistra e Giuseppe Ricciardi (Il Palazzo e i briganti. Il brigantaggio nelle province napoletane, Pianetalibroduemila, Lavello 2001, pag. 7).
4 Franco Molfese, op. cit., p. 223
5 Franco Molfese, op. cit., pp. 223, 224
6 L’uno dopo l’altro si dimisero dall’incarico il generale Brignone, Antonio Mosca, autore della precedente relazione, l’ex Presidente del Consiglio Ricasoli e il deputato Finzi.
7 Il generale La Marmora impose alla commissione, durante l’intero periodo dei lavori di indagine, la presenza del fido capitano Mocenni.
8 Nel corso del suo peregrinare nelle regioni dell’Italia meridionale Massari rimase continuamente in contatto con Silvio Spaventa, potente segretario generale del ministero dell’Interno.
9 Tutti i brani riportati virgolettati e appartenenti al testo originale della cosiddetta “Relazione Massari” sono tratti da “Relazione della Commissione d’Inchiesta Parlamentare letta alla Camera dei Deputati da Giuseppe Massari il 3 e 4 maggio 1863”, Pianetalibroduemila, Lavello 2001, introduzione di Costantino Conte.
10 Incalzati dai piemontesi i briganti Cipriano e Giona La Gala, dal nolano si rifugiarono a Roma confidando nella complicità delle autorità papaline e nell’aiuto dai comitati legittimisti borbonici. Cosa che in effetti avvenne. Tant’è che nell’estate del 1863, forniti di regolari passaporti, i fratelli La Gala, assieme ad altri tre compagni, si imbarcarono sull’Aunis, un vapore delle Messaggerie Imperiali francesi diretto a Marsiglia. La cosa però non sfuggì alle autorità italiane che, dopo un periodo di tentennamento (non si voleva creare un incidente diplomatico con la Francia), decisero di chiedere al governo transalpino la consegna dei cinque briganti. La risposta francese, però, tardava ad arrivare ed allora il questore di Genova, dove nel frattempo il piroscafo era approdato, ruppe gli indugi e salì a bordo con un drappello di Carabinieri per procedere all’arresto. Ne nacque un parapiglia con i La Gala che, tentando di sfuggire alla cattura, si gettarono in mare. Subito dopo, però, vennero recuperati e condotti in carcere. Qualche tempo dopo giunse la protesta ufficiale del governo francese che pretendeva la consegna dei briganti. Le diplomazie si misero alacremente al lavoro e alla fine, dopo momenti di elevata tensione, si riuscì a raggiungere un accordo: i La Gala vennero riconsegnati alle autorità francesi che li rinchiusero nel carcere di Chambery. In seguito ad una precisa richiesta di estradizione i briganti vennero affidati, qualche tempo dopo, all’autorità di pubblica sicurezza italiana. Nel febbraio del 1864, dinanzi alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, ebbe inizio il processo ai fratelli la Gala che, dopo breve dibattimento, si concluse con la condanna a morte. Grazie, però, ad un atto di clemenza sovrana, la pena capitale fu trasformata nel carcere a vita. Giona venne rinchiuso nel bagno penale di Portoferraio mentre Cipriano in quello della Foce, a Genova. E lì, in condizioni disumane, trascorsero la restante parte della loro vita (Al riguardo cfr. Antonio Vismara Da Vergiate: I briganti La Gala. Storie di omicidi, di sequestri e di grassazioni all’indomani dell’Unità d’Italia” a cura di Valentino Romano, Capone Editore, Manduria 2008).
11 Franco Molfese, op. cit., pag. 237.

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